Giro del mondo del dottor d. Gio. Francesco Gemelli Careri/Libro II/VII

Libro II - Cap. VII

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CAPITOLO SETTIMO.

Navigazione sino a Smirne.


A
Vendo disegnato di passare per terra in Persia colla Caravana, risolvei di ritornare in Smirne per Mare, ciò che udito da Giovanni e David Mener mercanti Francesi di Marseglia, e Console il secondo della nazione, m’offersero amendue con molta cortesia l’imbarco sopra il vascello Giove del Capitan Duran della stessa Città di Marseglia: la medesima offerta mi fece il Capitan Sereni dell’istessa Città sopra il suo vascello detto la Rondella; perocche la nazion Francese si adopera volontieri per facilitare il viaggio ad una persona, che cammina per sola curiosità di vedere, e scrivere: e dicevano eglino fra di loro, parlando di me: ecco un’uomo virtuoso, che travaglia per lo pubblico; bisogna, che tutti gli rendiamo servigio.

Ringraziai tutti, ed accettai il favore dal primo, che partiva; ma vedendo il Mercordì 27. che si andava in lungo, nè v’era giorno fisso di partire, per non perdere la comodità della Caravana, (che [p. 337 modifica]dubbitava non partisse presto) risolvei imbarcarmi sopra un Ciamber Turco, che passava a Smirne, Fatti quindi porre in barca i viveri per lo cammino; il Giovedì 28. circa le 20. ore, con vento favorevole, si spiegarono le vele: ma appena fatte 30. miglia, il Rais, giusta il loro costume, diede fondo in una spiaggia di Natolia.

Il Venerdì 29. tre ore prima di giorno si tolsero l’ancore; e la sera ci avvicinammo all’Isola di Marmora; però la notte postosi vento contrario, poco col bordeggiare potemmo avanzarci.

Sabato 30. verso mezzo dì ancora davamo dirimpetto alle stesse Isole. Elleno sono cinque; la più grande è detta Marmora, sopra la quale sono quattro picciole borgate, la seconda Bascialiman con cinque Casali; la terza Echnich con uno, la quarta Baglia con due; e la quinta Imaral con altri due. E’ così buono il loro terreno, che danno vino quasi a tutto Costantinopoli a buon prezzo; vendendosene un’Oka (che pesa 48. oncie) tre grani della moneta di Napoli.

Divenuto forte il vento la notte, ed essendo in Marmora la maggior larghezza del Canale, fummo obbligati di ritornar [p. 338 modifica]indietro 30. miglia, per prender porto nell’Isola, e Casale di Echnich, la Domenica 31. Durando il medesimo mal tempo, fù di mestieri trattenerci in quel luogo tutto il Lunedì primo di Febbrajo; e il Martedì 2. partiti tre ore prima di giorno, giugnemmo dopo sei ore di navigazione in Gallipoli, l60. miglia lontana da Costantinopoli.

Non partimmo il Mercordì 3. a cagion del Mare alterato. Giunse la medesima sera in Gallipoli Ussin-Bassà Visir, con un seguito di 200. persone a cavallo, che passava da’ Castelli a Costantinopoli, a prender possesso della carica di Caimecan; deporto come ho detto di sopra il Calolicos, per gli suoi mali portamenti. Questo Visir era stato anche l’anno passato Caimecan, ed era molto stimato da’ Franchi per le ottime sue parti. Mi albergò il Xaxan V. Consolo Francese con molta cortesia; però nella cena non tralasciò punto delle sue superstizioni farisaiche già dette.

Vidi il Giovedì 4. la londra, nella quale mi era imbarcato in Bichier, e poi avea lasciata in Rodi; che dopo quattro mesi non avea terminato ancora il suo viaggio, per l’ubbriachezza del Rais, [p. 339 modifica]che il meno, che pensava era di fare il suo dovere: e se io non avessi fatta la risoluzione di lasciar simil bestia, sarei stato ancora languendo per quelle spiaggie, e sarebbesi rotto affatto il filo del mio disegnato viaggio.

Non prima del Venerdì 5. potemmo far vela a cagion del mal tempo. Giugnemmo con tutto ciò a buon’ora al Castello di Natolia, dove ci fermammo, perche il vento forte avea mosso una gran marea. La notte mi convenne dormire nella nave; onde la mattina del Sabato 6. non potendo più soffrire il disagio del Mare, con tutto che il paese fusse coperto di più palmi di neve, volli scendere a terra. Andato dal V. Consolo Francese, che ivi facea residenza, trovai un’uomo villano affatto, e discortese; che mi fece molte interrogazioni impertinenti, ed alla fine mi menò all’Agà del Castello, dandogli pessima relazione di me, e dicendogli: che io mi era finto Francese, ma in fatti non potea essere, che un qualche Frate; avvalorando la sua conghiettura dal vedermi, per lo freddo grande coperto d’un mantello fratesco; di maniera tale, che io forte dubbitava non rimanessi carcerato. L’Agà nondimeno [p. 340 modifica]essendo discreto, rispose: che gli bastava ch’egli vedesse il passaporto. E replicando il cattivo V. Consolo, che non avea veduto alcun passaporto, e che io avea detto per iscusa di tenerlo sulla nave; per non far insospettire con tante dispute l’Agà, mi licenziai, dicendo: che andava a prenderlo, per farlo vedere: ma poi non volli mai più tornarvi, considerata la diffidenza del Francese.

La Domenica 7. avemmo dopo mezzo dì la solita visita del Doganiere, e Giannizzero; i quali registrato tutto ciò ch’era in nave, mi dimandarono dove andava, e se teneva passaporto. Risposi, che andava a Smirne, e che il passaporto l’avea veduto il Consolo.

Il Lunedì 8. non fu tempo a proposito per partire; ma abbonacciatosi il Mare il Martedì 9. partimmo la mattina, e la sera pernottammo in Tenedos. Quantunque nel Mercordì 10. continuasse l’istesso buon vento di Tramontana, non volle partire il Rais; onde sopravvenendo poi il cattivo, bisognò, che a dispetto nostro, ci trattenessimo, mentre durava.

Giovedì 10. scendemmo a terra tutti, ed io presi albergo in casa d’un Greco; dove erano anche due Francesi, e due [p. 341 modifica]Veneziani; l’uno appellato Paolo, e l’altro ch’era sua moglie, vestita da maschio, Chiara. Per divertirci alquanto dalla malinconia d’essere in paese così barbaro, fummo tutti il Venerdì 12. due miglia distante dall’abitazione, per godere la campagna; che trovammo all’intorno ben coltivata di vigne; onde vi si beve il vin moscato a due parà l’oka, ed a miglior prezzo l’altro più ordinario; però amendue sono leggieri, e possono beversi a pasto.

Il Sabato 13. mangiammo in casa di un Prete Greco, il quale col nostro danajo ne diede un buon desinare. Domenica 14. fummo tutti a sentir Messa nella Chiesa de’ Greci, dove concorsero tutti i Cristiani del paese. In fine il Lunedì 15. facemmo vela quattro Ciamber di conserva, con una saica, ed una londra; ma il nostro per essere migliore, passò gli altri, a segno che prima di tutti si trovò dentro lo stretto di Babà, dove gli altri poi non poterono entrare, essendosi mutato il vento.

Continuammo tutta la notte il cammino, di modo che il Martedì 16. al far del giorno, ci trovammo a vista della Focia, nella quale entrammo [p. 342 modifica]bordeggiando, perocchè avevamo il vento per prora. Posto piede a terra, presi in affitto due cavalli per una piastra, per andare per terra la mattina a Smirne, distante 40. miglia; considerando, che per Mare poteva dimorar lungo tempo, a causa del cattivo tempo: però una burrasca, che sopravvenne la notte, abbonacciò talmente il Mare, che ben per tempo mi avvisarono, che dovevamo partire.

In fatti il Mercordì 17. ci ponemmo di buon’ora in cammino. Osservai all’uscire del porto un picciolo Castello con nove cannoni a fior d’acqua. E’ ben vero, che un Capitan Bassà voleva farne fabbricare un’altro in una picciola Isola distante un miglio; ma la morte interruppe il disegno. La Terra della Focia è per altro picciola, circondata di mura, e con due porte; però tiene un’ottimo porto, capace di grosse navi sin sotto le muraglie. Per lo buon vento, che continuò approdammo a Smirne su le 21. ora, dopo di 21. giorni di penoso viaggio; perche in compagnia di Turchi un Cristiano se non s’arma della pazienza di Giobbe, si può perdere in sentendo a tutte l’ore le solite parole ingiuriose di essi: Nasi nasic, e Giaur; [p. 343 modifica]e non sempre li possono ritenere i primi moti. Quest’arroganza è cagionata dal ritrovarsi in lor paese, e superiori di forze, perche in altra maniera non osariano di parlare. Onde fie bene, che sempre che si può, un Cristiano sfugga d’imbarcarsi in navi Turchesche; imperciocche quantunque vi sieno più Greci, che Turchi, sono però i primi peggiori assai de’ secondi, ed odiano i Cattolici dell’istessa maniera; oltre che nel negozio sono molto più furbi, ed infedeli degli stesi Turchi. Gli Armeni però, benche scismatici, non hanno tale avversione; anzi proccurano con amorevolezza rendere nelle occasioni ogni servigio possibile a’ Cattolici; siccome io ho sperimentato più volte. Per quella stessa ragione il Giovedì 18. presi camera dentro lo Xan degli Armeni, dove medesimamente posa la Caravana di Persia. Sono ivi le stanze a buon prezzo, però senza nessun mobile.

Fui onorato dagli amici, il Venerdì 19. che vennero a darmi il ben venuto; e’l Sabato 20. desinai con Mr. Ripera. La Domenica 21. che fu l’ultima di carnovale il Consolo d’Olanda diede un lauto banchetto, e festino a’ Mercanti [p. 344 modifica]Olandesi, ed Inglesi; e’l ballo durò sino al giorno seguente. L’istesso fece il Consolo Inglese il Lunedì 22. e vi andarono mascherati, e senza maschere molti Francesi; non impedendo la guerra fra le Corone, la buona corrispondenza in paese straniero: onde dicevano, che in Mare si sarebbono battuti, e fatto il loro dovere, ma che in terra altrui doveano essere buoni amici. In fatti quei giorni di carnovale fecero conversazioni di 40. alla volta, tra Francesi, Inglesi, ed Olandesi, bevendo allegramente ne’ Villaggi del contorno; fra’ quali erano anche i figli de’ Consoli Francese, ed Inglese. Il medesimo vidi osservare (come dissi) in Costantinopoli fra l’Ambasciador d’Olanda, e Mr. Mener Deputato di Francia. Altre nazioni non potrebbono forsi dissimulare il rancore, e portarsi così nobile e generosamente. Per altro questi Ministri Inglesi, ed Olandesi sono così poco prezzati da’ Turchi, che non danno protezione ad altri, che a quelli della loro nazione (avendola negata a me più volte) perche sanno, che i Turchi non ne fan conto. All’incontro quelli di Francia non la niegano a nessuno, e proteggono fino a’ Veneziani, che stanno in [p. 345 modifica]Levante, quando attualmente arde la guerra fra la Repubblica, e’l Gran Signore.

Il Martedì 23. ultimo di carnovale si sentì un terremoto verso le tre ore di notte, (sciagura molto frequente in Smirne) che replicò il Mercordi 24. alle 20. ore col medesimo impeto.

Fui il Giovedì 25. a prendere il diletto della caccia nelle vigne, essendovi quantità di tordi, e beccaccie. La notte del Venerdì 26. replicò due volte il terremoto, però non con tanta violenza. Il Sabato 27. fui a restituire le visite a gli amici; e la Domenica 28. fui a diporto in campagna con altri Europei.

Il Lunedì primo di Marzo mi trovai nel più strano imbarazzo, che possa avvenire a viandante del Mondo. Fui chiamato avanti il Consolo di Francia da un tale Brancaleone Anconitano marito di una Francese, il quale volea per forza, che io non fussi me medesimo, ma Giovanni Massacueva di Messina. Questo Brancaleone avea tenute alcune mercatanzie a nome del Messinese, con pubblica scrittura; e perche supponeva, che se l’avesse appropriate, e vendute la Dogana di Smirne, volea (tanto forte era la [p. 346 modifica]simiglianza fra me, e’l suo creditore) che gli cassassi l’istrumento. Per disingannarlo di tal pazzia, gli dissi sinceramente la mia patria, e nome; e non credendo a’ miei detti, scrissi su d’un foglio di carta, acciò riscontrasse il mio carattere con quello del Messinese, e si togliesse tale impressione dalla mente.

Giunse il Martedì 2. una Caravana da Persia numerosa di 120. belli cammelli, e carica di sete fine, e grosse; però i mercanti, a causa de’ ladri, non si risolverono di partire con sì picciola compagnia; onde fu di mestieri, che io prendessi altre misure, essendo svanito il disegno di andare per la Natolia. In Smirne frattanto serviva di trattenimento, e di commedia l’errore dell’Anconitano. Un’amico la mattina del Mercordì 3. venne a dirmi, che colui era ancora pertinace in voler, che gli cassassi l’istrumento, e che non vi eran parole da potergli persuadere, che io non era altrimente il Messinese: e che perciò mi avrebbe fatto chiamare di nuovo avanti il Consolo, sicuro che io sarei andato carcerato, se non faceva ciò ch’egli volea; mentre sua moglie avea molta mano col Consolo, il quale senza alcun dubbio non le avrebbe rifiutata sì [p. 347 modifica]giusta dimanda; tanto più, che alcuni diceano, che io mi assomigliava molto al Massacueva, e che solamente la favella era differente. Mi pose ciò in qualche apprensione, e non sapeva che mi fare, perche non avea altra protezione, che quella del Consolo: onde il Giovedì 4. parlai a Mr. Ripera, per vedere che modo avea a tenere, per render capace l’ostinato Anconitano, non essendo di dovere, che per liberarmi da quella molestia, facessi una falsità, fingendo il nome e cognome altrui, e cassassi una scrittura, nella quale non era interessato. Mi rispose, che colui era anche suo amico, e perciò non voleva ingerirvisi: tanto più che vedeva il Consolo impegnato.

Infatti non essendo guarito dal delirio il Brancaleone, dal vedere il mio carattere, mi fece chiamare il Venerdì 5, per la seconda volta, avanti il Consolo, persistendo nella dimanda, ch’io gli facessi quitanza, perche sapeva di certo, che io era Giovanni Massacueva. Soggiunse il Consolo: costui non vi dimanda danari, ma che lo quietate solamente, e perciò non dovete negargli una cosa sì ragionevole. A queste parole mi veniva voglia [p. 348 modifica]di dar la testa per le mura; considerando che quel buon’uomo prendeva sì fatto errore d’una persona, con la quale avea trattato affari, ed interessi (ch’è qualche cosa di più d’una semplice amicizia) e che ne il mio carattere, ne altre scritture potevano quietarlo. Arrossiva intanto il Consolo in vedendomi dar nelle smanie, e dirgli, ch’io non era il Messinese preteso; e che se voleva in sua coscienza, ch’io facessi tal falsità, l’arei fatta, e confessatomene subito; non trovando altro modo di liberarmi da simil infestazione: giacchè avendogli detto che io era Dottor di leggi, e che facesse venire qualche letterato Gesuita ad esaminarmi; replicava il Brancaleone, ch’io avea potuto studiare dopo il negozio. All’ultimo non sapendo egli come risolversi, rimanendo me, e l’Anconitano a contendere, uscì fuori dicendo: accomodatevi colle buone. Durò il contratto fino alla sera, volendo per ogni conto il debitore, ch’io fussi il Messinese; avvegna che m’udisse favellare d’una lingua ben differente. Alla per fine gli dissi: Io non ho le lettere, che mi dimandate, perche da che partii d’Europa non ne ricevei veruna; venite in mia casa, [p. 349 modifica]registrate le mie robe, e scritture, che forse vi soddisfaranno. Chiamato adunque l’amico Ripera, e tutti tre insieme venuti nella mia camera, apersi i miei forzieretti in loro presenza. Il Brancaleone cominciò a riconoscere le robe, e scritture, mentre io dava nelle smanie; e voltandomi bene spesso a lui, diceva: voi mi date una strana materia da porre ne’ miei manuscritti, che da che corro per lo Mondo, non m’è ancor succeduta, nè credo che ad altri viaggianti possa succedere. Certo, ch’è una bella materia da farvi ponderazione, replicava il Brancaleone. Facendosi già notte con sì lunga ed importuna visita, ed avendo riconosciuto quegli più scritture autentiche e con suggelli (ch’io non potevo aver falsificate) si quietò alla per fine, e ritornossene in casa; rimanendo io nella mia camera, a considerare tutta la notte gli strani accidenti, a’ quali soggiace un povero viandante.