Giacomo Leopardi/XXIX. La filosofia e l'opinione volgare

XXIX. La filosofia e l'opinione volgare

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XXIX. La filosofia e l'opinione volgare
XXVIII. I «Dialoghi» di Leopardi XXX. Il ragionamento nel dialogo
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XXIX

LA FILOSOFIA E L’OPINIONE VOLGARE

Il concetto filosofico, che Leopardi ha del mondo e dell’uomo, non gli si presenta solo, ma in contraddizione con l’opinione corrente, ed è questa duplicità nel suo pensiero che genera la forma del suo dialogo.

Il suo concetto è che l’uomo è un anello minimo dell’infinita catena degli esseri, di cui gli è impossibile penetrare il mistero; e che così com’è fatto, è necessariamente infelice: una necessità che, più l’intelletto è adulto, più cresce la civiltà, e più si manifesta.

Ora egli non può concepire questo pensiero, che non gli venga innanzi la turba infinita di quelli che fanno dell’uomo il centro e la cima di tutti gli esseri, e della terra il centro immobile intorno a cui si move l’universo, e credono l’uomo nato a felicità, se non in questa, in un’altra vita di cui descrivono il quale e il quanto, come ne avessero avuta esperienza; e pongono virtù, gloria, sapere, a scopi reali della vita e conducenti a felicità. Questa opinione, generata dalla presunzione e dalla ignoranza, consacrata da tradizioni religiose e divenuta volgare, egli non può cacciarla dal cervello, quando gli appare il concetto proprio, la sua filosofia. Il Copernico è uno dei dialoghi, in cui è meglio sviluppata questa opposizione tra lo scienziato e il volgo.

Ma egli sente di aver contro di sé non solo questa opinione del volgo, ma anche l’opinione degli uomini colti, seguaci della [p. 226 modifica]filosofia dell’assoluto allora in voga, fondata su di un pretto umanismo e sulla teoria del progresso. Quell’assoluto che pretende star da sé, e che infine si risolve nella dottrina della perfettibilità umana, e rifà il piedistallo all’uomo, e ridà corpo alle vane ombre dell’immaginazione, umanità, patria, libertà, virtù, sotto nome generale di progresso o di civiltà, è proprio il contrario del suo concetto. Di rincontro all’opinione volgare e teologica è uno scienziato, e di rincontro alla scienza è uno scettico.

Che ne’ dialoghi filosofici si scelgano due opinioni opposte, è cosa comunissima. Si creano due personaggi a sostenerle, e si vede fin dal principio qual’è l’opinione favorita che dee vincere. La conversazione non è che un modo piacevole per condurci al ragionamento, e naturalmente il vincitore è colui che parla più a lungo e fa un discorso più sodo.

Già in questa posizione di due concetti contrarii è tutta la sostanza di un’argomentazione, di cui il ragionamento non è che la veste esteriore. Come nei dialoghi comici, de’ due attori l’uno è il protagonista e l’altro è messo là come semplice impulso all’azione, sì che tragga quello della sua quietudine e lo muova all’opera; così nei dialoghi filosofici il concetto è uno, e il suo opposto è messo là per dimostrare quello. Si può dire che sia lo stesso concetto, che si sdoppia per meglio ritornare uno. Ora, questo sdoppiarsi e ritornare sé, è la base dialettica del concetto, è appunto l’argomentazione o il ragionamento. Questa è l’essenza del dialogo scientifico.

Il Parini è una lezione più che un dialogo. È un concetto che si va svolgendo in linea diritta senza deviazioni, né opposizioni, tutto tirando dalla sua propria sostanza. Veri dialoghi sono il Porfirio, dove è opposizione alla opinione volgare, e il Tristano, dov’è opposizione all’opinione dei dotti.

Nel Parini il concetto è che la gloria sia cosa difficile a conseguire, e quando sia conseguita, cosa vana. La conseguenza dovrebb’essere che sia meglio godere e vivere in ozio. Ma l’autore, seguendo la morale stoica, pure ammettendo che gli scrittori grandi «hanno per destino di condurre una vita simile alla morte, e vivere, se pur l’ottengono, dopo sepolti», conchiude a [p. 227 modifica]quel modo che fa Epitteto, con questa sentenza: «Il nostro fato è da seguire con animo forte e grande».

Il ragionamento è fatto per via di osservazioni cavate dall’esperienza del mondo, caso per caso, con un’abbondanza di distinzioni che stanca. Le osservazioni generalmente sono comuni e riescono addirittura noiose per quella loro esposizione empirica e minuta, massime dove la tesi è chiara e ammessa. Talora ti sembra di avere innanzi una tesi accademica scritta da un cinquecentista. Che l’abitudine suole affievolire e sino distruggere le impressioni prime, è cosa risaputa: c’era egli necessità di spenderci sopra un capitolo?

Chi si mette a quel tempo di parolai e di accademici, nota qui un gran progresso in quella sentenza che le lettere sono vana cosa, quando rimangono segregate dall’azione e dalla filosofía. Ma è più facile pensare il vero, che metterlo in pratica. E in questo dettato strettamente classico, spesso ozioso e incolore, non si sente né azione, né filosofia, voglio dire quello sguardo filosofico, che vede da alto e scopre nuovi mondi.

Meglio riesce Leopardi narrando o descrivendo. La Storia del genere umano è una serie di fatti corrispondente a una serie di proposizioni filosofiche, illustrate da ragionamenti cavati dalla natura umana. Si legge tutta d’un fiato, e va letta studiosamente da quanti vogliono impossessarsi di questa filosofia. L’autore condensa in poche pagine tutte le sue idee sugli uomini, in un tono asciutto, come cosa che non lo riguardi. Prosa classica, se mai vi fu, perfettissima di proprietá, d’ordine, di congegno, e anche d’insensibilitá: sembra fattura di un essere solo cervello, estraneo al consorzio umano. Diresti che abbia voluto imitare lo stile semplice e asciutto della favola, e non ci è quel compenso che i favoleggiatori ottengono dalla grazia e dalla ingenuità. Piuttosto è linguaggio artificioso d’imitazione classica, e d’uomo solingo, increscioso e morto alle gioie della vita, pallido, con poco e tardo sangue. Un umore piú attivo e piú vivace generò il Canto del gallo silvestre, e gli Uccelli. Noti varietà di movenza e andatura piú spigliata, e certi effetti d’immaginazione. [p. 228 modifica]Nel Canto del gallo silvestre, sotto al quale indovini lo stesso silvestre Leopardi, vi si esprimono sentimenti alieni dall’umanitá, e soli conformi a uomini stanchi, che cercano la quiete del sepolcro, e sentono la dolcezza estetica di questo annunzio:

Verrà tempo, che niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno, ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete.

Ma l’umanità è allacciata alla vita, e sente orrore del vuoto, e la veritá annunziata dal gallo le fa venire i brividi. Tutte le prediche funebri sono appoggiate su questi sentimenti, dai quali i predicatori ottengono l’effetto a cui mirano, il terrore e il raccoglimento. Il gallo quando col suo canto ci desta, è benedetto, perché ci richiama alla vita; ma quando vuol filosofare sulla vita, e dice che la vita è una soma, che niuna cosa è felice, che il fior degli anni è cosa pur misera, che la massima parte del vivere è un appassire, che ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte, e che tempo verrà che esso universo e la natura medesima sará spenta, non seguiamo l’importuno predicatore, che mentre ci sveglia alla vita, ce l’avvelena. Pure, quella potente forma di oracolo ci scote e ci tira a questa meditazione della morte universale; così grande è l’efficacia della forma a dire anche cose comuni, delle quali ciascun uomo dice: — Pur troppo è vero! — L’effetto artistico sarebbe maggiore se il gallo cantasse più e ragionasse meno; bastandogli suscitare il ragionamento negl’intelletti, anzi che esporlo lui, come felicemente fa nel principio:

Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete, ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero.

Chi legge l’Elogio degli uccelli e vede ivi rappresentata quella loro vita felice, può credere che sia ispirazione del buon umore. Non è difficile immaginare lo scrittore in una di quelle sue [p. 229 modifica]passeggiate solitarie pei colli, dove la bella natura gli rischiarasse la faccia, eccitando la sua immaginativa. Ma chi ben guarda, vede che anche questo è opera chiusa di biblioteca. In quell’elogio è rinchiusa una satira dell’uomo; non che vi sia espressa, o sia l’intenzione; ma il sentimento dell’infelicità umana, presente nello scrivere, intorbida l’umore, e non rende facile una rappresentazione schietta e immediata. Troppo ha luogo il ragionamento in cosa che ha in sé visibile la sua ragione. Si vuol dimostrare una felicità, di cui manca il sentimento. E manca, malgrado alcuni tratti felicissimi, i quali sono piuttosto ricordanze di forme e di bellezze, che impressioni vive e presenti. Anche l’immagine della fanciullezza, alla quale è paragonata la vita degli uccelli, languisce. Pure, in certi punti l’immaginazione segue la cosa e la riproduce con somiglianza, com’è del canto degli uccelli e della loro allegrezza e del loro moto.