Geografia fisica/Idrografia/4
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iv. — degradazione della superficie terrestre.
126. Un pezzo di marmo lavorato, pur che sia stato qualche secolo esposto all’aria aperta, avrà, per lo meno, perduto il liscio che gli venne dato in origine dallo scarpellino. Il più delle volte anzi le pietre che hanno servito a costruzioni d’opere un po’ vecchie, sono rôse, tarlate; nè di rado vi accadrà di osservare le scolture e i fregi che adornano gli stipiti delle finestre e gli architravi delle porte in tal guisa malconci, che non sapete nemmeno che cosa abbian voluto rappresentare. È questa erosione, questo guasto prodotto dal tempo, che imprime agli antichi monumenti quel carattere di vetustà che li distingue, talchè non vi verrebbe nemmeno in mente di sospettare che un edificio fosse antico, quando il vedeste conservare una certa freschezza.
127. Aggirandovi tra le tombe d’un cimitero, esse vi appajono tanto più guaste, quanto più antica è la data che vi leggete scolpita; nè è raro il caso che, dopo alcune generazioni, i nomi e le iscrizioni siano divenuti illeggibili.
128. Vi ha egli un fatto più volgare di questa rovina che anche le pietre più dure subiscono col tempo? Ma non avete voi mai cercato di sapere come questo avvenga? Quale ne è l’agente distruttore, e quali leggi sono messe in evidenza da questo processo?
129. Trattandosi di scolture o di costruzioni in pietra tagliata, si può facilmente verificarne il guasto e misurarne la profondità, partendo dall’idea che quelle pietre, ora sì logore ed incavate, uscirono un tempo lisce e foggiate a modo dalle mani dell’artefice. Il guasto però non si limita, naturalmente, ai manufatti; ma si estende a tutte le rocce che sono esposte all’atmosfera su tutta la superficie del globo.
130. Importa troppo di persuadersi di questo fatto, perchè non dobbiate lasciar sfuggire nessuna occasione per verificarlo. Esaminate quanti edificî o scolture vi capitano sotto gli occhi: osservate quante rupi, o frane, o fianchi di valli vi si presentano nei dintorni del vostro paese. Alla base d’ogni scogliera vedrete senza dubbio dei cumuli, enormi talora, di massi, di ciottoli, insomma di frammenti più o meno grossi di rocce franati dall’alto; nè all’epoca del disgelo, che succede ad un rigido inverno, vi sarà difficile di rimarcare, dirò così, le cicatrici che nel fianco della montagna hanno lasciato i massi che allora allora se ne sono staccati e venner giù precipitando a crescere il cumulo della rovina che ingombra il fondo della valle.
131. Non avrete bisogno certamente di uscire dal vostro distretto per persuadervi che anche le rocce più dure, a dispetto della loro apparente saldezza, si frantumano e cadono a brani. Non v’ha roccia che, esposta all’atmosfera, possa sottrarsi alla distruzione. Vediamo piuttosto come abbia luogo una così universale e continua modificazione della superficie del globo.
132. Ritornate col pensiero un istante a quella poderosa attività dissolvente dell’acido carbonico, che vi apparve più sopra così dimostrata (§ 123). Vi ricordate certamente che la pioggia rapisce all’aria una piccola quantità di quell’acido, per cui, cadendo sul suolo, ha acquistato la virtù di sciogliere e portar via una certa porzione di roccia. Tale virtù non vien meno all’acqua, nemmeno quando scorre raccolta entro il letto d’un fiume, o quando stagna entro i bacini scavati nel suolo; sicchè si può dire che la virtù solvente della pioggia, dura quanto dura l’acqua stessa che piove. Vi sono delle rocce, per esempio i calcari, che si sciolgono interamente, o quasi interamente, nell’acqua, che, scorrendo, seco le trasporta in soluzione. D’altre rocce invece l’acqua non scioglie che quella porzione, la quale serve di cemento alle altre che rimangono intatte. In questo caso la roccia, priva di cemento, si sgretola, si sfascia, finchè non è più che una massa di sabbia o di terriccio, che vien poi trascinato via dalle acque scorrenti. Prima causa della degradazione delle rocce è adunque l’azione dell’acido carbonico disciolto nelle acque pioventi.
133. Seconda causa di degradazione è l’ossigene di quella porzione d’aria che si contiene invariabilmente nell’acqua pluviale. Un pezzo di ferro che rimanga esposto all’atmosfera, in breve tempo si copre di ruggine, tanto più quando ciò avvenga in un paese d’umido clima. Avrete osservato come col tempo si consumano le inferriate e i cancelli di ferro, ricoprendosi di una crosta gialla, polverosa, che lorda le dita, e con estrema facilità si stacca dalle barre consumate. La ruggine è prodotta dalla combinazione dell’ossigene col ferro. L’irrugginimento, ossia l’ossidazione, non cessa finchè vi sia un briciolo di ferro da consumare. E si consuma infatti, mentre la ruggine, sostanza solubile e pulverulenta, cade sul suolo, ed è, man mano che si forma, portata via dall’acqua. Ciò che avviene del ferro, avviene delle rocce che ferro contengono. Sono molte quelle che irrugginiscono a contatto dell’umida atmosfera, ed è sempre l’ossigeno che opera in questo processo. Mentre la supeficie irrugginita della roccia è portata via dall’acqua, il processo d’ossidazione e di decomposizione si estende successivamente agli strati più interni, finchè tutta la massa sia ugualmente ossidata, decomposta e spostata dalle acque.
134. Un terzo agente distruttore delle rocce è il gelo. Voi ne conoscete gli effetti. Sapete, per esempio, che durante l’inverno, se il freddo fa bene la sua parte, crepano i tubi pieni d’acqua e si spaccano da cima a fondo le brocche. Nessuna meraviglia di ciò, mentre sappiamo che l’acqua si dilata, cioè, aumenta di volume congelandosi; sicchè il ghiaccio, non potendo più capire entro lo spazio che occupava il liquido dapprima, urta, con forza meravigliosa, contro le pareti interne dell’ambiente, e le spezza (Prime nozioni di Fisica, § 61).
135. Avete appreso testè a conoscere con quanta facilità l’acqua, cadendo dalle nubi, filtri attraverso al suolo. Anche le rocce più compatte sono più o meno porose, e contengono una certa quantità d’acqua. Ogni poro è come un piccolo vaso pieno d’acqua, la quale, congelandosi nel rigido inverno, è capace di spezzarlo. Così la roccia è minata quasi da altrettante piccole bombe, quanti sono i pori o le crepature che contengono acqua, e basta una notte di gelo perchè una roccia qualunque sia ridotta in piccoli frantumi.
136. Sono curiosi a vedersi gli effetti che, per questa via, produce il gelo alla superficie del suolo, dove è più frequente. Percorrendo una via quando avviene il disgelo, vedrete come le piccole pietre si mostrano spinte un poco in su, e la superficie della via è coperta d’uno strato di fina fanghiglia. Il gelo ha separato fra loro i grani di sabbia e di marna, e fattone un impasto come di una malta. Questa operazione del gelo non è di poco servigio all’agricoltore, il quale trovasi così sminuzzato naturalmente il suolo, e reso più facilmente accessibile alle radici ed alle barbe delle piante. Anche la dura roccia però va soggetta alla stessa azione, benchè i suoi pori, essendo più angusti e la sua tessitura più compatta, si trovi più atta del suolo terroso ordinario a resistervi. Vuol dire che le rocce più porose, e quelle che sono capaci di trattenere più a lungo l’interna umidità, saranno più soggette a guastarsi per questa via. Si vedono infatti certe arenarie, certi graniti, composti di grani che lasciano una quantità di piccoli vacui fra loro, sfasciarsi in breve tempo sotto l’azione del gelo o del disgelo, finchè un ciottolo durissimo è ridotto ad una manata di sabbia. Così anche le rupi più salde si scrostano, si disquamano, si polverizzano, risolvendosi in libere particelle, che vengono mano mano scopate via dalla pioggia e dal vento.
137. Come gela l’acqua entro i pori della roccia, così, abbiam detto, gela nelle crepature o nelle giunte, come anche si dicono, che attraversano sempre in gran numero le masse rocciose. Non avrete forse mancato di osservare, guardando una scogliera o l’interno di una cava di pietre, che anche le rocce più compatte sono percorse da certe linee, o suture, che mantengono una certa direzione abbastanza regolare, per cui la roccia o si divide da sè, o può esserlo facilmente dal cavatore, in parallelepipedi d’una certa regolarità. Sono queste medesime giunture che abbiam visto offrire la via più ordinaria all’acqua che filtra dal suolo verso l’interno (§ 111). È ben poca la quantità d’acqua che può passare attraverso quelle fessure affatto lineari; ma quella poca la vi si mantiene sempre, mentre costantemente vi si rinnovella filtrando dal suolo per scendere in basso. Se gela, preme con forza incredibile contro le due pareti della crepatura. Tanto basta perchè riesca una volta o l’altra a dilatarla un tantino. L’acqua vi entra in maggior copia, e acquista, in proporzione del volume maggiore, una maggior forza di dilatazione, se gela.Fig. 8. — Degradazione di una rupe. Verremo a un punto, che la rupe, minata in tutti i sensi dall’acqua che si congela in altrettante giunture, andrà in cento pezzi, e nulla di più facile che i più superficiali si stacchino dalla rupe matrice, e precipitino giù giù abbandonati all’impeto della frana.
138. Questa demolizione in grande è rappresentata dal diagramma (fig. 8) che vi pongo sott’occhio, il quale offre lo spaccato d’una rupe attraversata da giunture perpendicolari, dette anche linee di clivaggio. Esse, come vedete, si allargarono a tal punto, sulla fronte della rupe, che molti massi, resi liberi, caddero accumulandosele al piede. È meraviglioso a vedere su che vasta scala si opera un tale sfacelo nelle regioni montuose soggette a rigidi inverni. Nelle Alpi e nelle Prealpi, per esempio, nulla di più ordinario che il vedere le montagne sepolte fino a grande altezza, talora fin quasi alla cima, sotto le proprie macerie.
139. All’acido carbonico, all’ossigene, al gelo e disgelo si aggiungono altri congiurati a rovinare la superficie del pianeta. Così, per esempio, la roccia che si dilata, riscaldandosi al sole di giorno, si contrae, raffreddandosi di notte. Questo dilatarsi e restringersi, che si alterna talora assai bruscamente, basta a staccare delle particelle, delle croste superficiali, che cadono l’una dopo l’altra, finchè la roccia sia per questa e per altra via consunta.
140. Anche il frequente passaggio dall’umidità alla secchezza, e viceversa, per l’azione alternante della pioggia, del sole, del vento, è causa per cui le rocce si consumino.
141. Vedete dunque per quante ragioni anche le rocce più salde vanno soggette a decomporsi, a sminuzzarsi, ad essere un brano dopo l’altro rimosse. Non v’ha eccezione per nessuna: non si può far questione che di quantità e di tempo. Guardando infatti con attenzione le diverse parti di un antico edificio, vedrete che non tutte sono guaste nello stesso grado. Certe pietre, meglio resistenti, si reggono ancora ben salde, mentre altre sono ormai disfatte. Così anche in natura. Quella rupe, composta di una certa roccia, si consuma più rapidamente di questa formata d’una roccia di tutt’altra natura: e se v’hanno paesi coperti di macerie ai piedi di montagne crollanti, ve ne hanno altri che resistono da secoli, quasi avessero montagne di diamante.
142. Come l’andrà dunque a finire, direte voi, con questo mondo che si sfascia? — Noi ci formiamo una falsa idea della stabilità del mondo, come essa dovesse consistere piuttosto nella immobilità de’ suoi elementi, che nella vita che all’universo deriva dallo svolgersi ordinato di ciascuno e di tutti. Vediamo che da una montagna si stacca un masso, un sassolino, e subito gridiamo che il mondo si guasta. Si guasta? Quante centinaja e migliaja di anni che su tutta quanta la superficie del globo si esercita furiosa, implacabile, la furia degli elementi! tutta la superficie della terra si decompone, si disquama, si polverizza. Quante rupi, quante montagne devono essere cadute sotto il martello demolitore del tempo, come caddero sfasciati i monumenti dell’arte, a cui la data non assegna che alcuni secoli di antichità! Eppure, guardate come la terra sorride col sorriso di una perenne gioventù, coperta di florida verzura, popolata da miriadi di animali. Se vi ha dunque una mano che distrugge, vi ha un’altra mano che riedifica. Una parte almeno di questo lavoro di riparazione noi lo vediamo, osservando che avvenga di quei brani di roccia, che di continuo si staccano dalla superficie del globo, e sono dalle acque portate altrove. Ecco il soggetto del capitolo seguente.