Galateo insegnato alle fanciulle/Lezione II - Noncuranza e sguaiatezza

Lezione II - Noncuranza e sguaiatezza

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LEZIONE II.

Noncuranza e sguaiatezza.

Vi sono, cara mia, fanciulle non cattive, le quali però non sono amate, nè desiderate, perchè non riflettono abbastanza su ciò che dicono e fanno e, senza volere, offendono, o non si accorgono, che nelle loro maniere di comportarsi, danno molestia o disgusto a chi le avvicina.

Eufrosina, a mo’ d’esempio, era di siffatto genere.

Troppo ciarlava ed a voce alta, la qual cosa infastidiva gli astanti. Spesso interrompeva i discorsi altrui per fare domande indiscrete ed insulse, o permettevasi di dare il suo parere su tutto, d’insolentire, d’intromettersi in quistioni superiori alla sua intelligenza o disdicevoli ad una fanciulletta di poca età, la quale deve mostrarsi riservata, modesta, tranquilla. [p. 8 modifica]

Nel suo contegno pure lasciava molto a desiderare. Invece di star composta quando sedeva, e di camminare con grazia, allorchè doveva muoversi, ella stendeva sguaiatamente le gambe o si contorceva, strisciava i piedi con rumore o saltava urtando qua e là persone o cose o s’appoggiava sui vicini, ne pestava i piedi e gli abiti, senza chiedere scusa. Ora si grattava il capo od altre parti del corpo; ora poneva le dita in bocca o nel naso o nelle orecchie; ora si prendeva i piedi in mano, o rosicchiavasi le unghie; ora faceva scricchiolare le giunture delle dita, sbadigliava o tossiva o starnutava, senza portar la mano od il fazzoletto alla bocca ed al naso; in una parola faceva atti disgustosi all’altrui vista. «Quale peccato che non conosca il galateo!» sclamava ciascuno, osservandola. — «Se avesse miglior educazione, sarebbe una bella e simpatica creatura! Eufrosina offendeva la sensibilità altrui, non solo coi sopraccennati atti, ma bensì ancora con molti altri. A tavola insudiciava spesso sè e chi le sedeva allato, perchè, dopo aver toccato i cibi unti colle mani, accarezzava i genitori, i fratelli e gli amici, spruzzava di qua e di là la salsa, maneggiando con mala grazia il coltello e la forchetta; s’empiva troppo la bocca e, colle gote rigonfie, parlava, beveva, rideva in guisa da farsi andar di traverso il cibo, spaventando tutti per la tosse convulsa, che la soffocava; aveva la smania di riempire fino all’orlo, a sè ed agli altri, il bicchiere [p. 9 modifica]macchiando di vino la tovaglia, e di bevere tutto d’un fiato, facendo rumore nell’inghiottire; fiutava, leccava il boccone prima di mangiarlo o lo cacciava avidamente in bocca, introducendo il cucchiaio o la forchetta fino al manico. S’asciugava il sudore, si puliva i denti, si faceva vento col tovagliuolo, domandava con insistenza ed in modo prepotente or questa ed or codesta cosa; non si curava se gli altri fossero o no serviti, ed insolentiva o piangeva se non era subito compiaciuta. Ella era la prima a sedersi a mensa, o si faceva aspettare a pranzo mezz’ora per leggerissimi motivi. Poi voleva essere vicina ora all’uno ed ora all’altro dei commensali, si lagnava del posto stretto, stendeva le braccia sulla tavola per prendere da sè o il sale o l’olio, o la bottiglia di vino o d’acqua, passando davanti alle persone, senza chiedere scusa; si muoveva ed alzava da tavola per ogni lieve pretesto, porgeva con impazienza il piatto sudicio a chi glielo doveva cambiare, versando sugli abiti del vicino il brodo od il sugo in esso rimasto. Mangiando più cogli occhi che colla bocca pretendeva grosse porzioni e le lasciava mezze nel piatto; sorbiva prima tutto il brodo della minestra e poi mangiava a grossi cucchiai la parte asciutta. In principio di tavola era vorace e taciturna; in fine diventava ciarlona, chiassosa; o appoggiava le gomita sulla tavola e faceva giochetti col pane, le posate, i bicchieri, le frutta stesse, o si cullava sulla sedia, col rischio [p. 10 modifica] di cader supina, o rideva sgangheratamente dopo aver narrati aneddoti triviali o dalle allusioni sconce, che eccitano la nausea e non certo l’appetito in chi mangia.

Anche gli abili di Eufrosina davano disgusto.

Ora era una calza, che lentamente le scendeva sul piede, perchè non ben legata; ora uno stivalino che mancava di stringa; ora la vestina rotta, scucita, senza ganci o sgualcita, e macchiata; ora erano i pantaloncini sbottonali, slegati, per difetto d’occhiello e di nastro; ora il grembialino bianco tinto d’inchiostro o di che so altro.

Il naso d’Eufrosina poi respingeva i baci, ch’ella con noiosa insistenza ad ogni istante chiedeva, o meglio si prendeva, buttandosi al collo degli uni e degli altri, in modo da strozzarli o da disordinarne la pettinatura ed il vestiario. Esso era sempre sudicio, come se il fazzoletto destinato a pulirlo non fosse ancora stato inventato.

Se l’impiegare un tempo troppo lungo in toletta dinota leggerezza di carattere, colpevole vanità, il trascurare la nettezza del corpo e degli abiti, il trasandarne l’ordine, l’assestatezza è prova d’animo ignobile, apata, che non sente amore pel bello che è indifferente all’altrui stima e simpatia. Iddio ci diede un corpo ed un’anima e c’incombe l’obbligo di curar l’uno e l’altra. Il primo deve considerarsi come servo della seconda; ma anche un servo vuol essere convenientemente trattato. Che diresti mia cara [p. 11 modifica] Mariuccia, se un padrone si lasciasse sempre comandare dal suo servo, invece di farsi obbedire, o se gli facesse mancare il necessario? Diresti, che è un cattivo padrone. E così è colui che non sa comandare al suo corpo di muoversi con dignità e con grazia o che non lo mantiene igienicamente, nutrendolo con cibi salubri, facendogli respirare aria pura, vestendolo con nettezza e decenza, secondo la sua condizione, tanto pel rispetto che dobbiamo a noi stessi, quanto per quello che gli altri hanno il diritto di aspettare da noi.

Perchè se siamo obbligati, alcuna volta, da circostanze impreviste, di presentarci spettinati, sudici, od in abito poco decente, tosto ne domandiamo perdono? 1° Perchè supponiamo che il nostro aspetto produca una sgradevole impressione su chi ci vede, ne diminuisca la stima, e ne siamo dispiacenti; 2° perchè in società vi sono delle consuetudini che bisogna conoscere e rispettare, quand’anche esse ci riescano costose e pesanti.

Diogene, rinomato filosofo greco col suo cinismo, si rendeva ridicolo sebbene molte delle sue massime fossero sapientissime. Solo curando lo spirito, egli sprezzava ciò che concerneva il corpo. Abitava in una botte, rinunziando ai comodi d’una buona casa; vestiva indecentemente e si faceva un pregio di non sentir bisogni. Ridotto ad estrema povertà, solo una coppa per bere s’era conservata. Un giorno vide un fanciullo che, appressatosi ad [p. 12 modifica] un ruscello, fece conca delle mani e bevve l’acqua che con esse raccolse. Diogene tosto gettò via la sua coppa, sclamando: Oh me stupido! che l’ho creduta finora necessaria!