Fra la favola e il romanzo/Zaccaria/XIII
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XIII.
Nei primi giorni dopo il viaggio, Roberto sembrava avviato ad una guarigione certa; e già egli parlava della gamba di legno e delle gruccie; quando una febbre d’indole la più bizzarra, venne ad interrompere il lento processo di rimarginamento della coscia. L’infiammazione si riaccese, la febbre aumento, perdè conoscenza, e presto fu agli estremi, e morì, senza aver neppure il conforto d’accorgersi del povero Zaccaria, il quale, ottenuto il permesso di stargli da presso, lo vegliava di giorno e di notte. La salma del prode ufficiale fu accompagnata all’ultima dimora da’ suoi fratelli d’arme e fu sepolta nel cimitero latino, nel luogo detto Pankaldi che sovrasta alle ultime case del sobborgo di Galata.
Zaccaria avea seguito il convoglio da vicino, ed era tanto addolorato che non piangeva più. Gettò anche egli un pugno di terra sul feretro del defunto, e, quando tutti furono partiti, in preda ad un pro fondo sconforto, inconscio della sua sorte avvenire, si assise sotto un cipresso.
S’avvide di lui un giovine svizzero di nome Giorgio, il quale, frequentando l’ospedale per un ferito della sua nazione, che stava di letto vicino a quello del povero Roberto, avea presso a poco saputo la storia del fanciullo, ed apprezzato la bontà del suo cuore. Egli era nativo di Berna; avea imparato oreficeria a Ginevra, dove un suo zio teneva una fabbrica di gioielli e di oriuoli, e stava con un proprio fratello a Costantinopoli per affari del loro commercio. Questo giovine fu tocco dall’aspetto desolato di Zaccaria; s’avvicinò a lui, provossi a rincorarlo, e gli propose di andar seco per fattorino.
Che cosa aveva egli a fare? Solo, inesperto, in una grande città tanto lontana, straniero in mezzo a stranieri, e di più fra i turchi che gli incutevano molto timore. Accettò l’offerta; e da quel momento parve. la sua sorte del tutto cambiata. Egli non era più un venditore girovago, un garzone di bettoliere, un bottegaio di ventura. No, stava in una famiglia, abitava una buona casa, imparava un’arte, e profittò tanto delle lezioni di Giorgio, che a forza di buona volontà e di attenzione, in capo ad un anno, già dalle sue mani uscivano piccoli lavori da orefice, nei quali più di tutto era notevole la nettezza e la precisione. Lavorando, talvolta stava con la mente al povero Roberto e pregava per esso; ripensava pure alla signora, e sembravagli d’udire la voce di lei ripetergli sovente — : cerca di imparare un’arte, Zaccaria: avvantaggerai la tua condizione. Chi vive dell’opera propria è nobile quanto un principe; — e proseguiva il lavoro con maggior coraggio.
Il fratello di Giorgio aveva nome Federico: ma quanto il primo era dolce ed umano, altrettanto il secondo duro e scortese. Zaccaria non godeva della sua grazia. Ei gli rimproverava d’essere piccolo di statura e di non intendere il tedesco, unica lingua ch’egli s’incaponiva a parlare.
E Zaccaria, che avrebbe voluto guadagnarsi la benevolenza di lui, dicevagli talvolta:
— Padrone Federico, abbiate pazienza, come volete che io faccia? Se potessi slungarmi mi slungherei di tutto cuore per vedervi contento; ma in quanto al tedesco non dubitate, datemi tempo, e lo imparerò.
E difatti il giovinetto oltre lo studiar di proposito, lo scrivere, e i conti, tentava superare ogni difficoltà per apprendere quella lingua. Il francese parlavalo già correntemente per l’esercizio che da più anni aveane fatto.