Fosca/Capitolo VIII
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VIII.
Rinuncio a descrivere lo strazio della nostra separazione. Il nostro dolore fu grande quanto lo erano state le nostre gioie; vero, profondo, ineffabile come lo era stata la nostra felicità. Ricopio qui testualmente la prima lettera che io diressi a Clara un giorno dopo la mia partenza, e che può darmi anche oggi la misura del mio amore e delle mie lacrime:
«Oh mia vita! Eccoci separati, eccoci lontani l’uno dall’altra. Ieri ancora io era tra le tue braccia, oggi sono solo, lontano, misero, sconsolato, perduto. Che dirti? Come esprimerti il mio dolore? Tu sola, tu che mi ami cogli stessi trasporti disperati, tu puoi sapere dalle tue lacrime l’amarezza e la frequenza delle mie.
«Mi pare di trovarmi sotto l’incubo di un sogno orrendo da cui non posso svegliarmi; non posso credere alla realtà di una sciagura così grande. Mi pare che ad ogni istante io debba riscuotermi da questo vaneggiamento angoscioso, e rivedermi di nuovo vicino a te. In tutti i miei grandi dolori ho provato questa specie di pietosa incredulità che me li rendeva meno terribili. Allora, come adesso, mi domandava: «È egli vero? è ciò realmente accaduto?» E lo sapeva, e lo so che ciò è vero, che ciò è accaduto.
«Oh tu mi conforti santamente! Ho compreso, sai, lo sforzo che tu facevi ieri per nascondermi le tue lacrime. Povera Clara! Tu non volevi che io piangessi, e non sai quanto ho pianto stanotte. Sì, ho pianto dirottamente, dirottamente, e ho ringraziato Iddio di questo conforto. Non è debolezza il piangere, ed anche ove lo fosse, è una debolezza dolce e divina che non umilia l’uomo forte.
«Tu non sai quanto io sono superbo di soffrire per te, per noi, pel nostro amore. Come dev’essere dolce il poter dire alla donna che si ama: «Tu mi costi un sacrifizio, un dolore, una viltà; per te ho sacrificato le mie ricchezze, la mia fama, la mia vita.» Ho compreso come si possa commettere anche un delitto per ingigantire nella nostra coscienza questo sentimento, per accrescerne il valore; ho capito come si possa scendere fino alla degradazione la più umiliante. È lo stesso sentimento che a voi, donne, fa spesso sacrificare — quasi volonterose, quasi superbe del sacrificio — la fama di oneste all’affetto dell’uomo che amate. E credi, o Clara, credi che è questa sola — sia pur ella deplorabile — la misura dell’amore che unisce l’uomo alla donna.
«Non nascondermi dunque le tue lacrime, e non volere che io ti nasconda le mie. Le tue lacrime! Ah, io le sento, sì le sento, esse ripiombano qui sul mio cuore; chi sa quante tu ne hai versate oggi, ora, in questo istante. Povera anima!
«Ti scrivo quattro ore dopo esser giunto in questa città; non avrei potuto farlo prima. Dio lo sa come sono partito, come sono arrivato qui, come mi trovo in questa stanza di albergo. Mi sono gettato sul letto, e ho dormito quattro ore di un sonno pesante e affannoso. Ora mi sono alzato, mi sono affacciato alla finestra, ho guardato i tuoi ritratti, le tue lettere, tutto ciò che ho portato meco di te, e ho cominciato a comprendere qualche cosa della mia nuova posizione. Dio mio! Dio mio! Io non so come potrò sopravvivere a questa prova!
«Eravamo troppo felici, o Clara, non era possibile che quello stato durasse; la nostra felicità stessa ci spaventava, sentivamo qualche cosa nel cuore che ci diceva che essa doveva finire.
«Non ti atterrire di questa parola «finire», no, la nostra felicità non è finita, tu lo sai, tu senti al pari di me che un amore come il nostro non può finire che colla morte, ma saremo felici in altro modo, con altra misura, con altro prezzo. Non ti vedrò più tutti i giorni, non saprò più cosa tu fai a tutte le ore, non riceverò più i tuoi fiori, non vedrò più il tuo balcone, non sentirò più la tua voce adorata, lo strascico del tuo abito, i tuoi passi, il tuo respiro; la mia povera stanza resterà solitaria per lungo tempo, non echeggierà più delle nostre grida; pure queste nostre gioie non ci saranno vietate interamente nè per sempre. Esse erano troppo dolci perchè potessimo gustarle ogni giorno; il nostro amore è troppo grande perchè possiamo rinunciarci per tutta la vita.
«E non sono già quelle gioie che mi allettano, che mi rendono così terribile la tua lontananza, non è la tua persona, la tua bellezza, la tua gioventù, le tue grazie: sei tu, mio angelo, tu sola; il tuo nobile cuore, la tua anima pia e delicata, il tuo spirito vergine e colto. È la donna-anima che ho amato in te, essa sola; e sono superbo di affermare, anche nella solennità di questo istante, la purezza del sentimento che ci ha congiunti.
«Perchè tu conosci la mia vita, tu hai letto nelle più ascose profondità del mio cuore; io era degno di te, io lo sono ancora, io lo sarò sempre. Senza questa coscienza, non avrei osato pretendere alla santa fraternità delle nostre anime; non oserei ora sfidare senza fremere questo avvenire misterioso che ci attende. Riposo tranquillo sul tuo amore, poichè esso non è di quelli che passano; riposa tu tranquilla sul mio. Ti assicuri il mio giuramento. Oh, Clara, io sarò sempre degno di te!
«Vi è un pensiero che mi affanna, la certezza del tuo dolore: non di quello che senti ora, ma di quello che sentirai quind’innanzi. Io comprendo, più che tu non pensi, lo stato della tua anima. Tu ti sei data a me per pietà; la mia gratitudine ti ha mostrato un cuore che non hai potuto non amare perchè era troppo simile al tuo; la tua gaiezza, la tua gioventù, hanno gettato sui nostri abbandoni un velo che ce ne nascondeva il lato colpevole; finchè io era vicino a te, tu potevi essere felice, ma ora... Oh, mia vita, non pensare a te stessa; che la solitudine non ti faccia adoperare per evocare delle ricordanze quella forza che tu ponevi a dimenticare, che essa non ti tragga a pensare a dei legami che ti farebbero infrangere quelli che ti uniscono a me! Abbi pietà ancora, ancora, fino a che l’edificio innalzato dal tuo amore non sia interamente compiuto.
«Ecco, o cara, lo sgomento incessante che viene ad aggiungersi a questo dolore già immenso. Non è la fede in te che mi manchi, ma quella nell’avvenire; diffido non di te, ma della forza delle cose, del tempo. Confortami, costringimi a credere, non a sperare. In un amore come il nostro bisogna credere; lo sperare è nulla.
«Voleva dirti... Vi è negli affetti, come in tutto, un linguaggio convenzionale, delle frasi troppo ripetute perchè abbiano ancora un valore, pure, come esprimersi diversamente? Voleva dirti che io morrei perdendoti. Lo sento in me, ne ho la certezza profonda, fredda, calma, incrollabile; e ciò forma la mia gioia: io sono dunque ben certo di non perderti che morendo.
«Non so se ti ho detto abbastanza che ti amo, come ti amo, sino a qual punto ti amo. Ti ricordi? Ci disperavamo spesso tutti e due di questa impotenza, ma ora è ben altra cosa. In quei giorni non potevamo dircelo, ma potevamo in qualche modo provarcelo. Tu leggevi in me, ma adesso?... È ora che io sento più che mai il bisogno di aprirti il mio cuore, di dirti tutto ciò che vi è nell’anima mia. Io ti amo, o Clara, io t’amo fino all’adorazione, fino alla follia, fino a quel punto estremo delle nostre facoltà, oltre il quale vi sarebbe la morte, la cessazione, il nulla.
«Come non amarti così? Sei tu che mi hai ridonato alla vita; tu che mi hai restituito la salute, la forza, la gioia, la gioventù, il coraggio. Tutto ciò che io sarò, lo dovrò a te, senza di te io sarei stato più nulla. Tu mi hai tenuto luogo di madre, di sorella, di amica, di patria — sì, anche di patria, poichè è per amor tuo che adoro cotesto angolo di terra; — tu sei stata, tu sei ancora il mio mondo, tu lo sarai sempre. Dovessi tu ripudiarmi, respingermi, io sento che non potrei mai disconoscere questo debito, nè ribellarmi alla santità di questa memoria.
«E ti dico ciò perchè tu sappia fino a qual punto puoi calcolare sul mio affetto, fino a qual punto sulla mia gratitudine.
«Ascolta ora il mio giuramento. Io non vivrò che di te, che per te; dimenticherò che vi sono al mondo altre creature, sarò onesto per essere degno del tuo amore. Eleverò questo affetto fino al culto di una religione. Ogni sera mi raccoglierò per pensare a te, ogni quindici giorni verrò a vederti. La distanza che ci separa non è sì grande da rendermelo impossibile. Il nostro santuario — quella stanzetta ove fummo tanto felici — è ancor nostro, ne ho meco le chiavi: non vi saranno più i nostri fiori, i nostri uccelli che ho lasciato volar via; ma vi ritroveremo ancora noi stessi, le nostre gioie, la nostra felicità, il nostro entusiasmo, i nostri cuori ardenti e immutabili. Potremo essere ancora felici, o mia buona Clara, potremo essere ancora felici!
«Ed ora, addio. Non por mente al disordine delle mie idee, perchè la mia testa è quasi perduta. Ti scrivo come in un sogno, e mi porto spesso le mani al cuore per comprimerne i battiti. Oh potessi essere vicino a te, o mio angelo, vicino a te, e morire a’ tuoi piedi!»