Fior di Sardegna/Capitolo XXXVIII
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XXXVIII.
... Tre mesi dopo, in una fredda e nebbiosa mattina di novembre, una diecina di persone trovavansi riunite nello studio dell’avvocato Ferragna. Dai loro volti composti ad un dolore che alcuni non sentivano ed altri invece sforzavanzi a non dimostrare in tutta la sua intensità, si capiva che non erano colà per una riunione allegra o per una spensierata conversazione. Uno era don Salvatore Mannu, pallido in volto, gli occhi gonfi e rossi; due rappresentavano le domestiche di Ferragna, una vecchia e l’altra giovine, che piangevano col viso nascosto nel grembiale; uno era Massimo Massari, anch’egli pallido, ma calmo e come sorpreso; quattro passavano per stretti parenti del padrone di casa che mancava; e nell’ultimo infine, — seduto con sussiego accanto al tavolo, — vecchio, rosso, con gli occhiali neri e la cravatta bianca, s’indovinava un notaio che stà per compiere uno dei suoi imponenti uffici.
Infatti stava nientemeno che per aprire un testamento, il testamento dettatogli otto giorni prima dallo stesso Marco Ferragna. Marco dunque era morto, dopo due mesi di lunga agonia, corroso dalla febbre e da una passione che lo aveva vinto, che non poteva soddisfare se non a prezzo della felicità e forse della vita di una creatura innocente, e di un uomo che amava quasi fratello: Lara e Massimo.
Nessuno al mondo sospettò l’orribile verità, neppure i due amanti, che anzi, allorchè videro Marco in fin di vita, si guardarono disperati, chiedendosi chi mai ora poteva prometter loro aiuto e conforto; tutti credettero che Marco morisse per volere di Dio, colto da malattia naturale, da febbre di malaria buscata chissà dove, — e tutta X*** pianse il giovine così buono ed onesto; i poveri il loro generoso ed occulto benefattore, i ricchi il disinteressato difensore delle loro cause, le fanciulle l’elegante e pallido signore che faceva lor battere il cuore, i giovani l’amico sincero dall’anima grande e gentile, dalla mente vasta e dal cuore leale. Lo piansero i quattro cugini venuti da Sassari all’ultima ora, più per raccogliere l’eredità che per vederlo spirare, lo piansero le serve che conservava da cinque o sei anni, trattandole come sorelle, — ma sopratutto fu pianto dai Mannu, e con ragione.
Piangevano il loro figlio amato, l’essere che aveva portato la vita nella loro vecchia casa gelida, per tanti e tant’anni, e che si apprestava a rendere Lara la più ricca e felice fra le fanciulle della città. — Anch’ella pianse disperatamente, quasi avesse davvero amato Marco di amore da fidanzata, e volle rimanere presso di lui fino all’ultimo istante confortandolo, prodigandogli cure e baci che gli resero felicissimi gli ultimi giorni di vita. Lo indusse a confessarsi, a pensare a Dio, gli parlò di Lara che l’aspettava al di là, nei cieli d’oro del mistico oriente dei Cristiani, fra la luce e i profumi di una felicità eterna, e fu lei che gli chiuse gli occhi con un coraggio che niuno riusciva a spiegare in essa, fu lei che si vestì a bruno per la prima, in realtà pazza di dolore e di angoscia. Un vago presentimento le diceva che Marco era morto per lei, e pur senza spiegarle tutta la verità, le narrava confusamente i dolori e la lotta da lui sofferta e le faceva istintivamente pensare: — Ecco un altro che muore per mia causa!...
Il ricordo poi della promessa fattale da lui di abbreviare il tempo che la divideva da Massimo, promessa sfumata con la sua morte, le amareggiava ancor di più l’anima. Chi, chi li avrebbe ora aiutati, se non li tempo?...
Ma una fredda e nebbiosa mattina di novembre, i parenti, le serve e Massimo Massari furono riuniti per volontà del vecchio notaio nello studio del morto, e venne aperto il testamento di lui. Don Salvatore, sempre afflitto e sconsolato, da bravo zio e da buon suocero che ha visto morire il suo genero, guardava con occhio sicuro gli altri sette personaggi, convinto qual era che Marco avesse nominato sua erede universale Lara, e si spiegava la presenza di Massimo e delle domestiche dicendosi: — Avrà lasciato loro qualche ricordo! — In quanto ai parenti, poi... non v’era da pensarci: la loro presenza era perfettamente inutile.
Ma finita la solenne lettura del testamento, un po’ lungo e minuzioso, don Salvatore cambiò d’aspetto e d’opinione, e mentre i volti dei quattro parenti si allampanavano per la disillusione completa delle loro speranze, il suo diventò purpureo di sorpresa e d’ira. In quanto a Massimo, per poco non svenne; Marco Terragna lo instituiva suo erede universale, lasciando piccoli legati alle serve e non nominando per nulla don Salvatore e le figlie, o i parenti di Sassari.
Allora Massimo comprese a che alludevano le promesse di Marco e guardò don Salvatore; ma vide solo l’ira e l’odio scolpiti sul suo volto e si chiese tremando nel cuore, se realmente l’estinto aveva dato nel segno. Nel medesimo tempo gli balenò al pensiero l’idea confusa dell’immane sacrificio di Marco; impallidì spaventosamente e congedò balbettando i quattro cugini di Marco, che se ne andarono via con tre palmi di naso, convinti che la sua emozione provenisse dalla gioia, credendo di lasciarlo felicissimo, mentre egli in quell’istante si considerava per il più disgraziato degli uomini. — Partirono le domestiche, partì il notaio, dopo aver fatto i più vivi complimenti a Massimo, e ultimo restò don Salvatore nella casa in cui era entrato a piè sicuro, come in casa sua — da tre giorni, cioè dopo i funerali di Marco, la palazzina era rimasta in custodia dei Mannu, — e che d’un tratto, quasi in sogno, diventava del figlio del suo nemico!... Immobile, come colto da un fulmine, inchiodato sulla sedia, a pugni stretti e livido in volto, don Salvatore se ne stava così immerso nel pensiero del come impugnare al più presto e annullare il testamento di Marco, che certo doveva essere stato pazzo nel momento in cui lo dettava, che non si accorse quasi del lento andarsene di tutte le persone poco prima riunite intorno a lui. Massimo proseguiva a guardarlo, temendo di vederselo sopra da un momento all’altro e pensava... A che pensava? Pensava che tutto il successo pareva una scena da melodramma, di cui egli era il principale personaggio, e ricordandosi che possedeva molto spirito e molto coraggio, decise di conoscere subito la sua sorte decisiva.
— Don Salvatore... — esclamò risolutamente.
— Eh? — fece l’altro, alzando il capo e colto da un brivido.
— Pare che le dispiaccia il testamento! Ma se ella vuole, tutto si appianerà... Lei credeva senza dubbio che Marco lasciasse tutto alla signorina Lara... Ebbene, se Lei vuole, don Salvatore, tutto sarà della sua signorina figlia... lo stesso.
— Come! rinunzia?
— Oh, che! Solo Le chiedo la mano di Lara!
Fu tanta la sorpresa di don Salvatore, che più tardi confessava non essere vero si possa morire di accidente, dal punto che egli non era morto in quella mattina. Si alzò su di scatto e fulminando Massimo con lo sguardo, gli gridò:
— Senza dubbio, signor burattino arricchito, Lei vuole beffarsi di me? Però la vedremo! Ride bene chi ride l’ultimo! — E uscì pestando i piedi. Ma il giovane non disperò ancora, perchè il fiero nemico non aveva recisamente detto di no. Per una settimana don Salvatore vagò come un’anima dannata da uno in altro avvocato, promettendo mari e monti per annullare il testamento: anche i parenti di Sassari cercarono tutti i mezzi possibili, ma invano. Il testamento era validissimo, e Massimo aveva per sempre preso il posto di Marco Ferragna. I buoni abitanti di X*** per poco non perdettero il cervello: al solito pensarono a questo avvenimento giorno e notte, per mesi interi, e più d’uno dimenticò qualche volta i suoi affari per pensare e commentare il testamento favoloso e gettare qualche pietra sul fortunato erede.
Ma la meraviglia raggiunse il colmo allorchè si seppe sul finire dell’anno, che Massimo erasi fidanzato con Lara Mannu e che le due famiglie nemiche avevano finalmente conchiuso le paci.
Così era: viste sfumate lo sue ultime speranze, don Salvatore, cieco d’odio e d’ira, vieppiù per l’ultima domanda di Massimo, ch’egli credeva solo un insulto vigliacco di nemico vittorioso, covava già in cuore cruenti progetti di vendette tenebrose e terribili e pensava di riaccendere la face dell’odio avito, qual era nei bei tempi antichi, allorchè un giorno un alto personaggio di X*** lo onorò di una visita e, seriamente, gli rifece per parte di Massimo la straordinaria domanda. Sulle prime don Salvatore salì su tutte le furie, scordandosi perfino con chi era, — ma l’alto personaggio lo richiamò all’ordine con parole assennate, ricordandogli che ormai i tempi dell’odio sono trascorsi, e che un buon padre non poteva rifiutare per sua figlia una simile fortuna qual era quella che gli si presentava con Massimo. — Allora don Salvatore chiese tempo e, sbalordito dal coraggio di Lara, che gli confessò tutto, rispose con un bel «sì,» che certamente non sarebbe uscito dalle sue labbra senza l’eredità conseguita dal giovine nemico.
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E ora Lara si chiama la signora Massari e non pensa più a morire, non s’ingolfa più in pensieri filosofici, in idee scettiche e melanconiche, non dice più che il suo cuore è simile ad un giacinto diseccato, crede che Nunzio sia morto per disgrazia e Marco di febbre, visita Mariarosa e frequenta la società di X*** che prima odiava, e sorride sempre tra i fiori della palazzina bianca e fra i baci del forte cavaliere biondo dei suoi sogni fantastici, che, nelle notti di luna, prendendosela sulle ginocchia, nei veroni fioriti e fra i profumi salienti dalla valle, le narra care leggende, con gli occhi fulgenti d’amore e felicità.
FINE