Federconsorzi: storia di un'onta nazionale/II/6
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Tutta la vicenda che si è venuta svolgendo tra Bologna e Roma apre un interrogativo ineludibile: tra gli impegni che i responsabili comunisti erano disposti ad assumere per un accordo con l’organizzazione consortile c’era o non c’era la promessa di un atteggiamento acquiescente in occasione del futuro dibattito parlamentare sulla legge di riforma dell’Aima? Gli elementi disponibili non consentono né di confermare né di smentire con certezza assoluta: tutte le articolazioni della vicenda vietano, tuttavia, di trascurarlo. Il complicato gioco di confronto-scontro diviene infatti incomprensibile se quell’interrogativo non viene assunto come nodo essenziale per spiegare la strategia seguita dalle due parti che alla vicenda hanno dato vita.
Abbiamo preso in esame, alla ricerca del significato dell’intesa che stava maturano tra Regione Emilia e Federconsorzi, gli elementi direttamente leggibili nella “bozza Ceredi” e quelli desumibili dal testo misurandone le enunciazioni alla luce delle peculiarità istituzionali ed operative della Federconsorzi. Al termine della disamina abbiamo riconosciuto la necessità , per la comprensione complessiva della vicenda, di ampliare il campo dell’indagine ad alcuni problemi di cui non sussiste nel testo alcuna menzione, ma che, sulla scorta degli eventi recenti, o di considerazioni di politica agraria nazionale, non possono non connettersi alla tematica del “compromesso emiliano”.
Il “credito di esercizio” privilegio dei Consorzi Quei problemi risultano essere fondamentalmente due. Il primo è rappresentato dal tema del credito di esercizio. E’ dal 1974 che l’erogazione del credito di esercizio nella Regione è al centro di tensioni e di trattative tra il Governo regionale e le forze agricole. Il lungo dibattito ha conosciuto una fase iniziale in cui la Regione si propose di ricercare le strade per consentire alle organizzazioni cooperative di esercitare il credito dietro somministrazione di merci nelle forme in cui lo esercitano i Consorzi agrari, ai quali l’erogazione è consentita dall’autorizzazione di legge che abilita la Fedrconsorzi all’esercizio dell’attività creditizia alla pari di un istituto bancario. Non sussistendo, per le organizzazioni cooperative, la medesima autorizzazione, nessun espediente appariva in grado di infrangere il monopolio della Federconsorzi sul credito cambiario in natura.
Risultando sbarrata la prima strada, un approfondimento della tematica metteva in luce quanto l’erogazione del credito di conduzione a copertura dell’acquisto di mezzi tecnici si rivelasse , nella nuova realtà economica delle campagne, strumento obsoleto, e come se ne potesse ipotizzare l’abolizione puntando alla creazione di forme di erogazione tali da assicurare ai beneficiari una maggiore libertà nell’uso dei mezzi finanziari messi a loro disposizione. L’ipotesi non poteva non suscitare, palesemente, la reazione della Federconsorzi, che si sarebbe veduta sottrarre quella quota del credito agrario che oggi passa unicamente attraverso gli sportelli dei Consorzi agrari: 10 miliardi sul monte di 100 di cui consiste l’insieme dei mezzi finanziari erogati nella Regione nelle forme del credito agevolato.
Lo stesso Assessorato all’agricoltura, tuttavia, sulla linea, da tempo perseguita, di restringere il più possibile i margini del credito a disposizione degli imprenditori singoli a favore del credito alle cooperative, non nascondeva il timore che la concessione di credito in denaro agli imprenditori individuali potesse essere utilizzato dai medesimi depositando il denaro in banca a tassi maggiori di quelli del credito agevolato, lucrando la differenza tra i tassi.
Volendo precludere l’eventualità il credito in natura costituisce, palesemente, lo strumento più semplice per il controllo dell’impiego del denaro concesso a credito. La trattativa in corso con la Federconsorzi consentiva, presumibilmente, di valutare in termini meno ostili anche il potere esclusivo dell’ente sull’erogazione del credito tramite merci: oltre al controllo dell’uso del denaro da parte delle imprese agricole, il mantenimento del sistema del credito cambiario in natura consentiva, infatti, di offrire alla Federconsorzi una concessione tale da poter pretendere, come contropartita, l’apertura dei libri sociali a tutti coloro che presso i Consorzi accendessero cambiali agrarie per l’acquisto di mezzi produttivi.
Sulla scorta di questi elementi è possibile comprendere l’articolazione della trattativa che si svolgeva in occasione dell’”udienza conoscitiva” del 12 dicembre, quando sulla tematica del credito di esercizio si profilava una soluzione fondata su tre punti: -il mantenimento in vigore del sistema del credito in natura esercitato dalla Federconsorzi e dai Consorzi agrari; -la fissazione di una riserva di disponibilità a favore degli imprenditori individuali, in particolare, quindi, dei coltivatori diretti, che veniva fissata nel 30 per cento dei fondi disponibili; -la creazione di una commissione regionale per il controllo dell’erogazione dei mezzi creditizi a tasso agevolato. Nel corso di una conferenza stampa tenuta lo stesso giorno dell’”udienza conoscitiva”, affrontando, dopo avere toccato i temi più caldi della polemica con la Confcooperative, il tema del credito, l’assessore Ceredi collegava esplicitamente il mantenimento del sistema dell’erogazione in natura all’apertura dei libri sociali dei Consorzi agrari.
L’Aima, gladio appeso a un crine
Il secondo degli elementi dell’intesa Regione Federconsorzi non direttamente riferibili al testo di Ceredi, la cui considerazione si impone come necessaria a chiunque voglia penetrare il contesto complessivo entro il quale il “compromesso emiliano” era venuto maturando, deve identificarsi nell’atteggiamento delle parti di fronte al progetto di legge sulla riforma dell’Aima.
E’ noto che il progetto è fermo in Parlamento da oltre un anno per l’opposizione della Federconsorzi, il cui controllo sui Consorzi agrari verrebbe definitivamente reciso da alcuni degli articoli del testo depositato.
Seppure non sussistano, data la natura della materia, elementi sicuri, più di un indizio induce a ritenere che il progetto di legge sia entrato tra i temi del negoziato tra gli esponenti della Regione e i responsabili della Federconsorzi. Non si comprenderebbe, altrimenti, come Leonida Mizzi, nel lucido realismo che ne ha sempre guidato l’azione, avesse potuto giungere alla soglia di un accordo di tanta ampiezza con i nemici storici dell’organismo di cui era autocrate onnipotente, lasciando scoperto il fianco a un attacco che avrebbe vanificato tutte le sicurezze ottenute a Bologna, un attacco per sferrare il quale gli avversari non avrebbero dovuto esperire che una maggiore insistenza nel pretendere la discussione di un disegno di legge da troppo tempo “inspiegabilmente” insabbiato.
La durezza della reazione dei socialisti, da sempre sostenitori dell’Aima come contrappeso alla Federconsorzi, non pare del resto che confermare, a contario, l’ipotesi che della legge di riforma dell’Aima tra le parti si fosse positivamente discusso.
Esponenti autorevoli della Confederazione dei Coltivatori, la nuova organizzazione contadina della Sinistra, che ho potuto interpellare, escludono categoricamente che il Partito comunista abbia potuto accedere ad un patto che costituirebbe la rinuncia esplicita ad un obiettivo per trent’anni additato come irrinunciabile. Ma come gli indizi non risultano sufficienti a dare certezza all’ipotesi, che pure rivelano più che attendibile, le smentite non valgono a dissolvere la consistenza dei medesimi.
L’essenza del “compromesso” Considerando nella sua complessità, dopo l’analisi che abbiamo svolto, il contesto degli elementi coinvolti nella trattativa, quella trattativa che pare non essersi conclusa in un’intesa dopo che la materia sfuggiva al controllo delle parti per la diffusione della bozza di accordo, emergono i termini di un accordo maturato nello spirito di un innegabile realismo, all’insegna di quella “ragione di stato” che, se il termine può essere impiegato nella valutazione della condotta di un’amministrazione regionale e di un organismo agrocommerciale, deve senza dubbio essere identificata come criterio ispiratore tanto degli amministratori del Partito comunista quanto di quel freddo giocoliere economico che tutti gli osservatori riconoscevano nel ragionier Mizzi.
Nella sostanza il “compromesso” consisteva nel riconoscimento, da parte della Federconsorzi, ad un’autorità politica, seppure espressa da un partito tradizionalmente nemico, della potestà di determinare il quadro di programmazione entro il quale l’attività economica del proprio apparato avrebbe dovuto esprimersi, e nel consenso all’ingresso di operatori agricoli legati al medesimo partito nel tessuto dell’organizzazione, a parità di dignità con i titolari di tessere di colore diverso.
Da parte dei responsabili regionali si riconosceva, invece, la legittimità della presenza, nel mondo agricolo, di un organismo da sempre combattuto, rinunciando ad impiegare la maggiore forza conquistata negli anni più recenti per ottenere la rivincita delle sconfitte degli anni Quaranta e Sessanta.
Così configurata, all’ipotesi del “compromesso emiliano” non può non riconoscersi un indiscutibile carattere di realismo, e a quel realismo deve attribuirsi una valenza positiva: una nuova battaglia combattuta attorno alla Federconsorzi, dalla quale la Federconsorzi uscisse mutilata e sottoposta a spartizioni, non assicurerebbe all’agricoltura e all’economia italiana che danni irreparabili.
Nella conferenza stampa che abbiamo citato Giorgio Ceredi definiva la ricerca di un’intesa con la Federconsorzi un tentativo per ovviare al mancato raggiungimento, durante le trattative per il programma del Governo, della “non sfiducia”, di un accordo sul difficile tema. Non è confutabile che il “compromesso emiliano”avrebbe potuto aprire la strada per evitare la mischia e la possibile distruzione del patrimonio di mezzi economici e di efficienza operativa dell’organizzazione federconsortile. E non si può in ciò non riconoscere la fondatezza delle affermazioni di Giorgio Ceredi.
Le stesse considerazioni che consentono di penetrare la logica che ha guidato le parti nella trattativa rendono, tuttavia, assolutamente inspiegabile l’atteggiamento dell’organizzazione che da sempre dispone del controllo esclusivo dell’organismo federconsortile, quella Confederazione bonomiana che da trent’anni proclama nella funzione di “diga contro il comunismo” la propria stessa ragione di essere. E’ la tradizione anticomunista della Coldiretti la ragione di quel grido di allarme che la stampa moderata non ha potuto non levare quando ha verificato che gli esponenti bonomiani dell’Emilia Romagna si erano rinchiusi, di fronte all’ipotesi del “compromesso”, nel più impenetrabile riserbo. Obiettivamente non è facile comprendere come un’organizzazione che si proclama, dalle origini, “diga contro il comunismo” possa non intervenire a difesa di un ente di cui da sempre detiene tutte le leve contro l’eventualità della penetrazione comunista.
Dietro la denuncia della Confcooperative
Tanto più trasparenti appaiono, alla luce dell’analisi che abbiamo svolto, le ragioni della reazione della Confcooperative: la sua durezza trova la più spiegazione più convincente nella percezione, nel “compromesso” che stava maturando, di un accordo di portata tanto ampia da comprimere drasticamente, in una prospettiva di lungo periodo, lo spazio che la cooperazione di matrice cattolica stava conquistando a spese della Federconsorzi indebolita dallo scollamento della base sociale sempre più disaffezionata, uno scollamento cui l’accordo con il Partito comunista avrebbe in certa misura consentito di ovviare.
La reazione all’accordo, che Giuliano Vecchi ha manifestato anche dalle pagine di questo giornale, risulta, in questa luce, pienamente comprensibile, in quanto difesa di un’organizzazione in vigorosa crescita, che l’ipotesi di accordo maturata in Emilia Romagna minacciava di stritolare tra la già combattiva cooperazione di matrice marxista e una Federconsorzi in cui le stesse forze marxiste fossero venute ad assumere un ruolo di controllo e corresponsabilità.
Ma oltre alle ragioni di carattere generale e politico, v’erano anche ragioni specifiche, attinenti all’utilizzazione di impianti e attrezzature dislocate in Emilia Romagna, a determinare la reazione della Confcooperative all’ipotesi di intesa tra Regione e Federconsorzi: quelle ragioni costituiscono un capitolo collaterale della vicenda emiliana, un capitolo il cui rilievo ci impone di dedicare ad esse un esame autonomo nella ricostruzione del “compromesso”, quanto “storico” non può giudicare il cronista, fino ad ora condotta
Terra e vita n. 6, 11 febbraio 1978 Rivista I tempi della terra