Federconsorzi: storia di un'onta nazionale/II/7
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La battaglia dei mangimifici
La vicenda di un mangimificio per il quale l’organizzazione cooperativa cattolica aveva richiesto il contributo Feoga e il rifiuto degli organi comunitari, propone uno dei nodi più difficili della vicenda emiliana. Il suo esame impone interrogativi inquietanti sul ruolo del Ministro dell’agricoltura e sullo spazio di manovra tuttora a disposizione delle due parti per proseguire una trattativa già tanto avanzata quando l’esplosione del “caso” ne impediva, drammaticamente, la conclusione.
Ho ricordato che nella vicenda già complessa dell’intesa tra Emilia Romagna e Federconsorzi se ne innesta una collaterale, la cui disamina costituisce condizione essenziale per la comprensione dell’articolata contesa. E’ una storia di mangimifici. Per illustrarla occorre ricordare, preliminarmente, che in Emilia Romagna si producono, annualmente, 18, 1 milioni di quintali di mangimi, 11,1 da parte dei mangimisti privati, 1,8 da parte dei Consorzi agrari, 5,2 da parte degli stabilimenti della Lega socialcomunista.
Lo stabilimento negato La Confcooperative, l’organizzazione cooperativistica cattolica, cui aderiscono caseifici e stalle sociali che consumano volumi considerevoli di mangimi, non dispone, attualmente, di impianti adeguati alle necessità degli associati, che soddisfano le necessità ricorrendo a fabbricanti terzi. Considerando i vantaggi che deriverebbero all’organizzazione dalla possibilità di coprire con impianti propri la domanda degli associati, l’Unione regionale delle cooperative avanzava, alcuni anni fa, la domanda al Feoga di un contributo per il finanziamento di un impianto proporzionato alla domanda potenziale degli organismi aderenti, che stimava in 600.000 quintali annui. A Bruxelles la domanda veniva rigettata con una motivazione precisa: l’esistenza, nella Regione, di un numero di mangimifici, costruiti con contributi della Comunità, tale da soddisfare per intero la domanda degli allevatori emiliani e romagnoli. Il nuovo impianto avrebbe costituito un’inutile duplicazione, e determinato uno spreco di fondi. I mangimifici impiantati nella Regione con il contributo comunitario sono rappresentati, in prevalenza, da impianti dei Consorzi agrari, ai quali sono stati concessi contributi comunitari in cinque province. Nella Regione l’apparato federconsortile dispone, attualmente, di una capacità di produzione stimabile in 1.400 quintali/ora, una capacità che, anche considerando il funzionamento per sole otto ore, risulta superiore alla domanda della clientela dei Consorzi agrari.
Il negoziato per l’uso degli impianti Veduta respinta la propria domanda l’Unioone regionale delle Cooperative si rivolgeva alla Federconsorzi chiedendo la cogestione degli impianti utilizzati a regime meno intenso, in primo luogo quello di Ravenna, dotato di preziose appendici portuali. Alla richiesta la Federconsorzi, pure non rigettando l’ipotesi di produrre mangime per le cooperative dell’Unione, rifiutava ogni eventualità di cogestione: quanto era disposta ad accettare era l’impegno ad una produzione per conto terzi. Proprietà e responsabilità degli impianti avrebbero dovuto restare, inequivocabilmente, di pertinenza dei Consorzi agrari: la condizione che abbiamo reperito, enunciata chiaramente, nella “bozza” di Ceredi. Offesa dal rifiuto, oltre a contestare il “compromesso” con la Regione, la Confederazione delle cooperative dirigeva alla Federconsorzi un attacco sul della contesa mangimistica, minacciando di denunciare a Bruxelles la sproporzione tra le dimensioni degli impianti mangimistici realizzati dai Consorzi con i contributi comunitari e l’entità del prodotto che gli allevatori della Regione acquistano dagli stessi Consorzi. Se quei mangimifici non vendono, le stime della clientela proposte dalle domande di contributo erano, palesemente, stime false. Per chi abbia percepito anche le eco remote delle difficoltà tra le quali l’Italia, poco preoccupata delle regole del gioco comunitario, abbia usufruito, tra ritardi e irregolarità, dei finanziamenti delle prime tranches del Feoga la minaccia non può non rivelarsi insidiosa: i beneficiari dei primi finanziamenti debbono sperare che delle modalità con cui le loro domande sono state soddisfatte nessuno richieda mai più la verifica. Le gesta gladiatorie di un ministro valente nei ludi comunitari ha riscattato lunghi anni di latenza e di inadeguatezza: l’interesse dell’agricoltura si unisce all’amore di patria a pretendere che sulle imprese dei predecessori sia disteso il velo della pietà
L’assenza del Ministro Ma chi si interroghi su quali potrebbero essere le conseguenze della denuncia, a Bruxelles, di un’organizzazione cooperativistica nazionale, della falsità delle stime sulla cui base sono stati erogati i contributi per gli impianti mangimistici realizzati in Emilia Romagna è condotto a proporsi una domanda correlata. Di fronte ad una minaccia di ritorsione che danneggerebbe la credibilità del Paese a Bruxelles è verosimile immaginare un intervento di mediazione del Ministro: quale è stato l’atteggiamento, è la domanda, del Ministro nella disputa? Quale ruolo ha svolto Giovanni Marcora nella difficile vicenda del “compromesso emiliano”? E’ domanda cui può darsi una risposta sola: dalla vicenda Giovanni Marcora ha conservato il più assoluto distacco. Al di là del dubbio, che cento indizi rendono consistente, che sia stata la copia della “bozza” di Ceredi indirizzata a via Venti Settembre a generare la fotocopia che ha raggiunto la Confcooperative, Giovanni Marcora alla disputa si è mantenuto assolutamente estraneo. Contro la Federconsorzi si può ricordare che il Ministro si era profuso, all’inizio del mandato, in attacchi a colpi di spadone, ai quali è subentrato un atteggiamento sempre più cauto, probabilmente dettato dalla difficile posizione politica dell’organismo, che costituisce ancora fonte preminente di vita del partito cattolico. Si può ricordare, peraltro, che anche il Ministro ha presentato alla Camera un proprio disegno di legge sull’Aima, un disegno che, come quello comunista, risulta insabbiato: ma se è comprensibile che il Partito comunista presenti un disegno di legge come semplice strumento deterrente, evitando di farlo procedere verso la discussione, per imporre la medesima sorte a un disegno ministeriale i deputati comunisti debbono contare sulla connivenza di deputati del Centro: si sussurra che abbiano operosamente contribuito all’insabbiamento i luogotenenti parlamentari di Bonomi.
Ma l’autocrate non ha eredi
Ma se interrogarsi sull’inerzia di Giovanni Marcora nella vicenda conduce a verificare l’assenza del Governo nello scontro sull’organismo cui è affidata, in misura cospicua, l’economia agraria nazionale, i cui destini sarebbero stati rimessi ad un assessore di romagnola intraprendenza e a un direttore generale aduso a lucrare sugli oneri dell’ammasso del grano, è doveroso chiedersi di quali capacità di manovra disponga ancora il grande apparato economicodopo l’esplosione di tensioni contenute, per anni, nell’assenza di ogni volontà di affrontare e risolvere i problemi che le alimentavano.
Ho suggerito che la vitalità della Frederconsorzi non può non risultare compromessa dalla perdurante assenza di un vertice in grado di giostrare nell’agone politico alla Coldiretti, per trent’anni baluardo politico dell’organizzazione federconsortile. Al rilievo si può aggiungere essere probabile che sia stata proprio l’assenza di quel vertice a indurre Leonida Mizzi a negoziare, senza richiedere il placet del proprio signore politico, il “compromesso” che, per parte propria, il Partito comunista era altrettanto interessato a suggellare.
Ma Mizzi è scomparso: è difficile credere che la dirigenza federconsortile, rimasta orfana dell’autocrate che l’ha governata, per tre decenni, tutto disponendo e nessun potere delegando ad altri, priva del baluardo della Coldiretti, possa proseguire la perigliosa navigazione che aveva affrontato l’antico ammiraglio, la navigazione che si è rivelata fatale quando in rotta di collisione contro la corazzata condotta con tanta improntitudine si è diretta, determinata allo schianto, la torpediniera della Confcooperative. Allarmata la Coldiretti, allarmata la Democrazia cristiana, costretti alla difensiva i comunisti contestati dagli alleati socialisti, pare difficile che tra le parti del “compromesso” non suggellato possa riaprirsi la trattativa per giungere alla conclusione che le reazioni hanno impedito.
Scomparso Mizzi il ruolo è stato ricoperto da Enrico Bassi, uno dei collaboratori più fidati dell’autocrate, per giudizio unanime un amministratore capace: ma Mizzi non era solo un amministratore, era la Presidenza ed il Consiglio, sistematicamente impegnati a prevederne la volontà, per non imporgli l’incomodo di impartire ordini. Alla presidenza siede, dopo la diuturna presenza ombra di Aldo Ramadoro, il vulcanologo partenopeo Mario Vetrone, uno degli uomini più vicini a Bonomi, che all’indomani dell’elezione mostrava propositi di segno radicalmente diverso da quelli del predecessore, ma che, richiamato, risulta, dallo stesso Bonomi, alla realtà dei propri compiti, avrebbe accettato di riconoscere che il mandato che gli era affidato, sontuosamente onorato, non differiva, nella sostanza, da quello di chi aveva prima di lui usato la stessa scrivania per firmare quanto reputava irriguardoso fare oggetto di lettura. E tra i venti membri del Consiglio di amministrazione, undici di fede bonomiana, sette paludati delle insegne della Confagricoltura, due rappresentanti del personale, non è dato scorgere l’impeto per infrangere la tradizione di una lucrosa sinecura.
Due uomini, le ultime carte Scomparso Mizzi, Vetrone avrebbe promosso, alle prime riunioni del Consiglio, due misure a favore dei Consorzi provinciali, la riduzione del tasso di interesse e il ristorno, a favore degli enti federati, degli utili della gestione centrale, due misure in stridente contrasto con la prassi pluridecennale con cui Mizzi pretendeva di ricavare, dai rapporti con i Consorzi, ogni utile possibile: il segnale di una strategia nuova, o la furbesca ricerca del consenso più facile? Di cui il presidente, che dopo le solenni esequie avrebbe impugnato, per la prima volta lo scettro, si avvarrebbe, si sussurra a Roma, per la gestione più familiare delle cariche nelle società collegate, miniera inesauribile di presidenze, vicepresidenze, rapporti di consulenza. Ma ristornare utili facili ai Consorzi ed elargire cariche onorevoli nelle società collegate non sono prove che consentano di attribuire al nuovo presidente un progetto vitale e l’autorità per realizzarlo. La domanda cui si vorrebbe poter rispondere, dopo che, scomparso Mizzi, Mario Vetrone può esercitare i propri poteri, è la domanda sul peso del parlamentare campano nella corte bizantina che circonda Paolo Bonomi incapace, ormai, di qualunque espressione pubblica. La Federconsorzi è nelle sue mani? Non ha dubbi a proporre una risposta negativa chi ricorda che tra i boiardi che circondano il monarca sofferente la chiave dei rapporti con la Democrazia cristiana è, probabilmente, nelle mani di Fernando Truzzi, in Senato membro della commissione ristretta demandata di amalgamare i disegni di legge sull’Aima, l’uomo in grado, verosimilmente, di proseguire il negoziato con il Partito comunista o di dirigerlo al definitivo naufragio. I destini della Federconsorzi, nave ammiraglia di una flotta poderosa priva di comandante e di piani di navigazione, potrebbero essere affidati a un nostromo cresciuto sui “laghi” di Mantova, stagni elevati a rango di laghi a onore di Virgilio e dei marchesi di Gonzaga. Ma dalla corte bizantina che attornia il monarca debilitato sul “compromesso” che stava per essere suggellato tra il vassallo per trent’anni indefettibilmente fedele e il nemico storico non è stata proposta una nota di commento, non è trapelato un segno di assenso o di opposizione. Ha taciuto il monarca, tacciono i cortigiani: chi pronunciasse una parola avrebbe pronunciato, probabilmente, l’ultima parola di dirigente della Confederazione nazionale dei coltivatori diretti. Non parlano i rivali, non si può attendere che parli Truzzi. Se i destini della maggiore organizzazione dell’agricoltura italiana sono nelle sue mani, se dipendono dalla sua volontà di negoziare, o dalla sua scelta di rifiutare, come Mizzi ha rifiutato per trent’anni, ogni trattativa, non ci è dato sapere come userà le carte che impugna. Un giorno, forse, la storia dovrà attribuirgli il merito di avere preservato il grande apparato alle necessità dell’agricoltura italiana, forse dovrà imputargli di avere destinato, per sicumera o per pavidità, quell’apparato alla dissoluzione.
- Terra e vita n. 7, 18 febbraio 1978 Rivista I tempi della terra