Ettore Fieramosca/Capitolo I
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ETTORE FIERAMOSCA
Capitolo Primo.
Al cadere d’una bella giornata d’aprile dell’anno 1503 la campana di San Domenico in Barletta sonava gli ultimi tocchi dell’avemaria. Sulla piazza vicina in riva al mare, luogo di ritrovo degli abitanti tranquilli che, nelle terricciuole de’ climi meridionali specialmente, sogliono sulla sera essere insieme a barattar parole al sereno per riposarsi dalle faccende del giorno, stavano col fine medesimo dispersi in vari gruppi molti soldati spagnuoli ed italiani, alcuni passeggiando, altri fermi, o seduti od appoggiati alle barche tirate a secco, delle quali era ingombra la spiaggia; e, com’è costume delle soldatesche d’ogni età e d’ogni nazione, il loro contegno era tale che pareva dire: il mondo è nostro. Di fatto, lasciato loro il campo migliore, si tenevano i terrazzani in disparte, dando così a questa loro burbanza tacita approvazione. Chi per figurarsi questo quadro si volesse rappresentare una simile radunata de’ nostri soldati moderni nella loro misera uniforme, sarebbe lontano assai dall’averne una giusta immagine. L’esercito di Consalvo, le fanterie specialmente, quantunque le meglio in arnese, e le migliori di tutta cristianità, non conoscevano però, più di qualunque altra milizia del secolo XVI, la stretta disciplina moderna, che è giunta a render simile un soldato all’altro dalle scarpe al cappello. Qui invece, ogni uomo che facesse il mestier dell’arme a piede, o a cavallo, poteva vestirsi, armarsi ed adornarsi come più gli piacesse; onde nasceva fra questa turba una mirabile varietà e vaghezza nelle fogge, ne’ colori e nel portamento, dal quale si poteva facilmente conoscere a qual nazione appartenesse ogni individuo. Gli Spagnuoli per lo più serii, immobili, atteggiati da bravacci, ed avvolti (e com’essi dicono embozados) nella cappa nazionale, dalla quale si vedeva uscir per di sotto la lunga e sottil lama di Toledo; gl’Italiani loquaci e pronti al gestire, in sajo od in farsetto colla daga pistolese appesa dietro le reni.
Al sonare della campana era cessato il susurro, e scomparendo la maggior parte de’ cappelli, le teste eran rimaste scoperte, perchè in quel tempo anche i soldati credevano in Dio, e talvolta lo pregavano. Dopo piccola pausa tornarono a luogo i cappelli, ricominciò il bisbiglio, e benchè quella turba presa insieme avesse al primo aspetto un non so che di gajo e di vivace, si poteva tuttavia facilmente avvedersi, girando fra i diversi crocchi, esservi un motivo comune di tristezza e di scoramento, al quale erano volte le menti e le parole di tutti. Infatti il motivo era vero e possente. La fame cominciava a farsi sentire fra i soldati, e anche fra gli abitanti di Barletta, ove il gran capitano, aspettando i tardi ajuti di Spagna, teneva chiuso l’esercito di troppo inferiore a quello de’ Francesi, perchè s’arrischiasse commetter la somma delle cose alla fortuna d’una giornata.
Tre lati della piazza erano chiusi da certe povere case di marinai o pescatori, dalla chiesa e dall’osteria. Il quarto s’apriva alla marina, ingombro, com’è costume di tali luoghi, di barche, reti e di altri attrezzi pescherecci; ed all’ultima linea dell’orizzonte si vedeva sorgere dal seno delle acque la bruna forma del monte Gargano, sulla cui vetta andava morendo l’ultimo raggio del sole cadente.
Nello spazio frapposto veleggiava chetamente un legno sottile; e si volgeva tratto tratto per cercare il vento che soffiava incostante in quel golfo, increspando qua e là a lunghe strisce la superficie del mare. La distanza tuttavia della nave e la dubbia luce del crepuscolo non lasciavano distinguere qual fosse la sua bandiera.
Uno spagnuolo che insieme con molti soldati era presso alla riva, la guardava fisso aguzzando le ciglia ed attorcigliandosi certi grandissimi baffi più bigi che neri.
— Che cosa guardi che sembri una statua, e non dai retta a chi discorre con te?
Quest’apostrofe d’un soldato napoletano, che non avendo ottenuta risposta ad una prima domanda, se l’aveva per male, non mosse nè punto nè poco l’imperturbabile Spagnuolo. Alla fine con un sospiro che pareva uscire più da un mantice che dal petto d’un uomo, disse:
— Voto a Dios que nuestra senora de Gaeta, che manda buon vento e buon cammino a tanti che la pregano in mare, potrebbe mandar ora questa fusta a noi che la preghiamo in terra, e non abbiamo da metter sotto i denti altro che il calcio dell’archibuso! Chi sa che non porti grano e provvisioni a quei descomulgados di Francesi che ci tengono stretti in questa gabbia per farci morir di fame...1 Y mala Pasqua me de Dios y sea la primera que vinere, si a su grazia el senor Gonzalo Hernandez quando ha ben pranzato e meglio cenato gl’importa di noi più che del2 cuero de sus zapatos.
— Che cosa può far Consalvo? — rispose con istizza il Napoletano, contento di contraddire: — dovrà diventar pane per entrar in corpo ad una bestia come te? Quando ne avrà, ne darà; e le navi che il malanno loro ha portate nelle secche di Manfredonia, chi l’ha divorate? Consalvo, o voi altri?
Lo Spagnuolo un po’ mutato in viso mostrava di voler rispondere, ma fu interrotto da un altro del crocchio, il quale battendogli sulla spalla, scuotendo la testa, ed abbassando la voce, come per dar maggior peso alle parole:
— Ricordati Nuno, — gli disse, — che il ferro della tua picca era a tre dita dal petto di Consalvo il giorno che in Taranto per esser pagati si fece quello strano scherzo.... e se v’è stata volta in cui abbia creduto che quel tuo collo nero dovesse far amicizia collo spago, è stata quella... Ti ricordi che si faceva schiamazzi da sbigottir un leone? Si muove là il torrione del castello? — (ed additava la torre maggiore della rocca che mostrava il capo al disopra delle case). Tanto si mosse Consalvo, e freddo freddo.... mi par di vederlo.... con quella sua mano pelosa scansò il ferro e ti disse3: mira que sin querer no me hieras....
A questo punto il volto bruno del vecchio soldato diventò più bruno la metà, e per rompere un discorso che poco gli garbava, tagliò la parola all’altro dicendo:
— Che cosa m’importa a me di Taranto, della picca, o di Gonzalo?....
— Che t’importa? — ripigliò il primo sorridendo, — Se vuoi dar retta a Ruy Perez, e serbar libero il passaggio al pane per quando Dios fuere servido di mandarcene, non parlar tant’alto che Consalvo ti senta e si ricordi di Taranto.... mezza parola è poco, e una è troppo, dice l’Italiano; ed uomo avvisato, mezzo salvato.
Nuno rispose con un certo garbuglio, al quale la sua mente non pareva avesse gran parte: l’avviso ricevuto lo metteva in pensiero suo malgrado; volse con dubbio l’occhio in giro per veder se l’idea di denunciare le sue poco misurate parole era nata in qualche cervello. Quest’indagine per fortuna fu, o gli parve rassicurante.
La piazza intanto era rimasta quasi deserta; l’ora di notte sonava al castello; onde questo gruppo imitò gli altri che già s’erano andati sciogliendo, e si disperse fra le strette ed oscure vie della città.
— Diego Garcia tornerà stasera, — diceva camminando Ruy Pèrez, — le buone lance del suo terzo avran trovato da far caccia in campagna, e forse avremo domani un pranzo migliore della cena d’oggi.
I pensieri suscitati da una tale speranza troncarono a tutti le parole, ed ognuno tornò in silenzio al proprio alloggiamento.
Nel tempo che si facevano questi discorsi, il legno che dapprima pareva passasse al suo viaggio, s’era piano piano venuto accostando. Pose in mare una barchetta nella quale scesero due uomini, che prestamente vogarono verso la spiaggia; ed appena scostati, il legno maggiore, spiegate tutte le vele, s’allontanò; nè più si rivide. Approdò il battello nella parte più oscura della piazza, ed i due rematori saltarono a terra.
Il primo di questi stranieri, visto che in quel luogo non v’era persona, si fermò ad aspettare il compagno, che rimaneva addietro occupato a caricarsi d’una valigia e di cert’altri impicci; fatta la qual cosa condusse la barca alla punta d’un picciol molo che serviva allo sbarco de’ legni maggiori, quindi raggiunse quello che, per quanto accennava la presenza ed una cert’aria d’arrogante superiorità, non sembrava di condizione eguale alla sua, e che gli disse come conclusione de’ discorsi fatti durante il tragitto:
— Michele, è tempo dunque d’essere accorto; sai chi sono, e più non ti dico.
Michele intese benissimo la forza di queste poche sillabe; accennò col capo che farebbe, e s’avviarono all’osteria.
Davanti alla porta principale di questa, sei pilastri sottili di mattoni rozzi sostenevano un pergolato, sotto il quale erano parecchie tavole disposte all’uso degli avventori. L’oste (il cui nome era Baccio da Rieti, ma che per certi sospetti aveva dal popolo il soprannome di Veleno e così veniva chiamato da tutti) avea fatto dipingere fra due finestre un gran sole in rosso, al quale il pittore, secondo nozioni astronomiche che non sono perdute ancora, aveva attribuito occhi, naso e bocca, con certi raggi color d’oro, fatti a coda di rondine, che di giorno si vedevano un miglio lontano. L’interno della casa era diviso in due piani: uno stanzone terreno serviva di cucina e di camera da mangiare; per una scala di legno si saliva al secondo, ove l’oste abitava colla famiglia, e con qualche disgraziato quando capitava a passar ivi la malanotte. L’uso comune d’Italia era in quei tempi di cenare alle ventitrè: a quest’ora pertanto non si trovavano colà che pochi soldati o capi-squadra seduti sulla porta al fresco, della compagnia del signor Prospero Colonna, che seguiva la fortuna di Spagna; tutti giovani arditi, che quivi cogli altri bravi dell’esercito avean costume di ripararsi. L’oste, che sapeva il suo mestiere, non lasciava mancar loro nè carte nè vino; ed essendo uomo sollazzevole e pieno di grilli, sempre piacevolmente ad ognuno diceva la sua; e così intrattenendoli spillava loro i danari. Stava appunto Veleno ritto sull’uscio, facendosi vento colla berretta, il grembiule alzato sul fianco; e le parole, le risa e il romore andavano alle stelle.
Giunsero i due forestieri, e per non parer tali camminavano passo passo, fermandosi spesso e cicalando fra loro; quando furono rimpetto all’uscio, e ’l chiarore del focolare di dentro percosse loro nel volto, apparvero vestiti nè più nè meno come ogni altro che fosse quivi. Poco badò loro la brigata quando entraron dentro; se non che uno, che era seduto più lontano, e stando all’oscuro aveva meglio veduto costoro, non potè far che non desse in un oh! di grandissima maraviglia, e dicesse mezzo rizzandosi: il duca!.... Il suono col quale fu pronunziata questa parola mostrava dovesse esser seguita da un nome; ma un leggiero volger d’occhio di colui che entrava, bastò a rimandargli questo nome in gola. Nessuno avea posto mente a questo suo sbigottimento: un solo compagno che gli era presso gli disse:
— Boscherino! Che duca ti vai sognando? Pure non t’ho visto bere oggi. Ti par egli luogo da duchi codesto? Non parve vero a Boscherino di non trovar fede, e d’esser tenuto pazzo o briaco; e senza entrar in altro, volse destramente le parole, ritornando ai discorsi di prima.
Dietro i due entrati nell’osteria s’avviò Veleno colla sua rotonda e bisunta persona, e con una cera olivastra, barbuta e maliziosa, nella quale si vedeva un miscuglio che teneva del coviello e dell’assassino. Senza molto scomporsi fece l’atto di far di berretta, e disse:
— Comandate, signori.
Quegli che già sappiamo chiamarsi Michele, fattosi avanti, disse:
— Si vorrebbe cenare.
L’oste si scontorse, e rispose con tuono afflitto, che si sforzò di far apparire sincero, — Cenare? Vorrete dire mangiar un boccone alla meglio, se pure si potrà metter insieme.... Dio sa che cosa v’è rimasto in casa in questa stretta d’assedio! Chè prima un pane valeva un cortonese, ed ora sta mezzo fiorino, e tanto lo pago io al forno.... A ogni modo per signori pari vostri si ripiegherà.... m’ingegnerò.... — E con quest’esordio destinato, secondo l’usanza degli osti, a far pagar dieci quel che val due, aperse un armadio, e trattone un tegame lo pose sul fornello; e coll’aiuto del vento fatto col grembiule, e che alzava la cenere sino al soffitto, fu presto riscaldato uno spezzato di capretto, che al dir dell’oste era la sola vivanda che fosse a quell’ora in Barletta, e doveva servir di cena ad un caporale che veniva per essa a momenti; ma signori pari loro non si potevano mandar a letto a digiuno.
Comunque ella fosse, la vivanda fu gradita, e venne recata in istoviglie di terra a fiori, insieme con un boccale dell’istessa materia a larga pancia, e con un mezzo cacio pecorino duro come un sasso, nel quale eran impressi i colpi di coltello degli avventori antecedenti che avean già fatte le loro prove contra di lui. Il desco al quale sedevano era in fondo alla sala, se si può dar un tal nome a questa spelonca affumicata. Al capo opposto un gran camino, con una cappa da dodici persone, avea dalle due parti tre o quattro fornelli: davanti era la tavola del cuoco; e dal mezzo di questa, a guisa d’un T majuscolo un tavolone stretto s’estendeva quant’era lungo il luogo, quasi fino al muro dirimpetto, ove i due stavano cenando. Dal trave maestro pendeva nel mezzo una lucerna d’ottone a quattro bocchini quasi spenta, bastante appunto perchè altri non si rompesse gli stinchi nelle panche e negli scabelli che attorniavano il desco.
L’oste, com’ebbe ammannita ogni cosa pel bisogno de’ cenanti, fischiando, com’era suo costume, se ne tornò sull’uscio, in quella appunto che giungeva correndo sopra un muletto un uomo, il quale balzato a terra senza toccare staffa, gridava:
— Su, giovanotti, allegri e coraggio, chè c’è buona novella: e tu Veleno fatti in venti pezzi, e ci sarà da far per tutti. È tornato Diego Garcia, e scavalcato a casa; ed or ora sarà qui per cenare: saranno venti o venticinque buone spade, ed egli solo ne val quattro; onde fa di trovarti all’ordine e presto.... Ebbene, che fai? Sei morto?.... Muoviti.
L’oste era rimasto a bocca aperta. Quei bravi rizzatisi attorniavano e punzecchiavano il messo per sapere com’era andata la cavalcata.
— M’avrete morto, — disse spingendoli e togliendosi loro di mezzo, — e non saprete niente. Parlate voi o parlo io?
— Di’ su, di’ su, gridarono tutti insieme, che nuove abbiamo?
— Abbiamo la nuova, che torniamo stracchi morti ora proprio, che siamo stati quattordici ore a cavallo senza un sorso d’acqua.... (Ohè! Veleno, una mezzetta da tre, fresco.... ho la gola asciutta com’un pezzo d’esca....). Ma quaranta capi di bestiame grosso, e settanta decine di minuto già stanno in Barletta; e tre uomini d’arme prigioni, che, se Dio vuole, sputeranno tanti bei ducati d’oro, come siamo cristiani battezzati, se voglion riveder l’uscio di casa loro. Vi so dire che c’è voluto del buono a scavalcarli ed averne le spade.... (E questo vino lo porterai prima di cascar morto?....). Menavano a due mani come saette: uno, in ispecie, era in terra, e ’l cavallo ferito l’avea messo sotto, e se gli gridava tutti, renditi o sei morto; egli dava imbroccate con un suo spadone, e se non gli si rompeva in un colpo che tirò al cavallo d’Inigo, e che invece colse l’arcione ferrato, o ci bisognava finirlo colle lance, o ci veniva ritolto. Pure al fine ha dato a Diego Garcia la mezza spada che gli era rimasta.
Veleno in questa giunse col vino e versò da bere al narratore, il quale gli disse: — Pur beato che sei venuto una volta!
— E come si chiama questo demonio? — domandò Boscherino.
— Non saprei.... dicevano ch’è un gran barone franzese: un nome come la Crotte.... la.... Motta. Ora mi ricordo, sì, La Motta: un pezzo di bestione, se vedi, che fa tremar la terra. Basta, la cosa è finita bene, e sguazzeremo se Dio vuole. — Voltando poi l’occhio all’interno dell’osteria: — E che fai? — gridava, — traditore poltrone, che ancora non metti al fuoco; vuoi che ti misuri le spalle con questa zagaglia?
Ed entrava difatti per eseguir la minaccia, ma si fermò vedendo che un gran pajuolo era già stato messo sopra una bracciata di quercioli, e la fiamma andava prendendo, e s’innalzava crepitando, mentre l’oste sudato e rosso, senza pensar più nè alla carestia nè all’assedio, e sapendo che con Paredes ed i suoi compagni non era da scherzare, correva per casa per dar ordine al tutto. In un lampo ebbe trovato quanto gli faceva mestieri, e scotennando un agnello, parte ne mise a bollire, e parte ne infilzò in due lunghi spiedi che pose a girare sugli uncini de’ capi-fuochi. La faccenda prendeva buona piega.
— Or bene, — disse l’ordinator della cena, — buon per te Veleno. Se costoro giungevano, e non eri all’ordine, avresti provato quante libbre pesano le cinque dita di Diego Garcia. Vado, e te li mando qui di volo.
— Oh, Ramazzotto, non verrai tu con esso loro? — disse uno de’ caporali.
— Come potrei venire? La compagnia sta tuttora a cavallo. Mi conviene alloggiarla ed aver l’occhio al bottino, che è in piazza al castello; e di notte le mani lavorano, bene, sai; nè fra queste squadre manca chi le sappia adoperare. Fieramosca, Miale Brancaleone e tutti i nostri son costì all’erta, ed a noi è commesso che non nascano scandali; agli Spagnuoli un’altra volta. A chi tocca, tocca.
— S’ell’è come tu di’ riprese Boscherino, ne verremo teco ed ajuteremoti. Su, di buona voglia, compagni, quest’uom dabbene ha più miglia in corpo che non abbiam noi, e si vuole soccorrerlo. — Così usciti dall’osteria s’avviarono parlando delle brighe del giorno verso il luogo ove la compagnia di Ramazzotto lo stava aspettando. Questi tirandosi dietro per la briglia la sua cavalcatura, se ne veniva attorniato, narrando e rispondendo, e Boscherino seguiva tutto inteso a ciò ch’egli sapeva dire; quando si sentì tirare per la cappa, e volgendosi vide nell’ombra un uomo, che riconobbe per uno di que’ due che avea lasciati cenando nell’osteria.
— Boscherino, — gli disse sottovoce fermandolo, mentre gli altri seguivano la loro via, il duca ti vuol parlare: non ti sbigottire, chè non vuol farti un male al mondo: però sta sull’avviso, e sii accorto. Andiamo.
A Boscherino si mise la febbre addosso udendo queste parole, e disse che appena si poteva udire: — Siete voi D. Michele?
— Sì, son io: taci, e portati da quel valent’uomo che sei.
Boscherino era stato capo-squadra del signor Giovanni Pagolo Baglioni, e di altri signori italiani, e nelle guerre del tempo s’era sempre portato da valoroso; nè v’era uomo che curasse meno di lui mettersi ad ogni sbaraglio, tanto che facendosi la compagnia di 500 fanti e 100 archibusieri per ordine del signor Prospero, onde condursi in ajuto di Consalvo, era stato fermato con soldo ragguardevole, e si faceva di lui grandissimo conto.
Ma l’animo suo, quantunque sicuro, nol potè regger tanto che le parole udite da D. Michele, e ’l dover ritornare, sapendo a chi fra momenti si sarebbe trovato innanzi, non gli facesse tremar le ginocchia; e se avesse potuto scegliere, avrebbe tolto di scagliarsi piuttosto contra dieci spade che andare dov’egli andava. Ripensando alle cose passate poco prima, ben s’appose al vero, e disse fra sè:
— Troppo son certo ch’egli m’ha udito quando dissi il duca.... Il diavolo dell’inferno mi mosse la lingua.... eppure era discosto, e non mi pare d’aver alzato tanto la voce. Ma dove non giungerebbe quell’anima dannata.... Ed ora che malanno sarà venuto a far qui?
Con questi pensieri furono all’osteria. La sola gente di casa era in cucina. Il duca s’era fatto condurre nella camera ove dovea dormire, che era sopra il camerone della cena; e le tavole del soffitto essendo mal connesse, lasciavano tanto di spazio che si poteva vedere ed udire ogni cosa di sotto.
All’oste era bensì passato un sospetto pel capo che costui non fosse quello che si mostrava; ma stretti dal nemico soltanto dalla bande di terra, capitavano quivi per via di mare ogni qualità d’uomini; nè si faceva gran caso d’un viso che non fosse appuntino degli ordinarj.
Salirono la scala D. Michele e Boscherino, e vennero alla camera dov’era il duca. Un letto ricoperto di sargia bigia, un piccol desco e pochi sgabelli erano il solo mobile della stanza. La lucerna, che si veniva smorzando, col vento che fece la porta aprendosi, si spense; e Boscherino, mentre D. Michele andò per altro lume, si trovò quivi allo scuro col duca. Rimase immobile dov’era, rannicchiandosi al muro, non osando far parola e nemmeno quasi fiatare, e stupiva di ritrovarsi così dappoco, egli che non stimava persona al mondo. Ma il sapere d’essere alla presenza di quel maraviglioso e terribile uomo, il sentirselo tanto vicino, che, nel silenzio in cui stavano amendue, poteva udirne il respiro frequente, tutto ciò suo malgrado gli metteva tal brivido, ch’egli si dolea d’esser vivo. Tornò D. Michele col lume e fu visto il duca seduto sulla sponda del letto. La sua presenza era d’uomo che non ha saputo mai che cosa sia riposo nè di mente nè di corpo. Ben complesso ed asciutto di membra, di statura poco più dell’ordinaria, aveva in ogni sua mossa un non so che di tremolo che non si potrebbe descrivere. Vestiva una cappa scura con maniche a larghe strisce ed a riprese. Una daga sottile in cintura, e la spada era sulla tavola con un cappello adorno d’una sola penna nera. Teneva i guanti alle mani, ed alle gambe stivali grossi da viaggio. Volse ai due venuti un viso pallido, colle guance infossate e sparse di macchie livide, con baffi e barba rossetta, piuttosto lunga, che scendeva sul petto in due liste. Al suo sguardo poi sarebbe impossibile trovare al mondo nulla di somigliante. A voglia sua, ora più saettante di quello d’una vipera, ora dolce come l’occhio d’un bambino, ora terribile come la pupilla sanguigna della jena.
Guardò Boscherino che s’era fatto la metà, e stava sempre nello stesso luogo, come se avesse aspettato la sentenza del capo; e lo guardò in modo da torgli ogni timore: ma Boscherino sapeva chi egli era, nè si rassicurò punto.
— M’hai riconosciuto, Boscherino, — gli disse, — e l’ho caro; sempre ti tenni per uomo di fede e dabbene; e se non mi venivi innanzi t’avrei cerco. Ben sapevo che eri qui. Non far parola con persona che m’abbi veduto. Sai che posso rimunerarti de’ tuoi servigi; nè il farmi dispiacere ti gioverebbe gran fatto.
Il capo-squadra troppo sapeva ch’egli diceva il vero, onde rispose:
— V. E. Illustrissima può far di me ogni sua voglia, e le sarò come le fui sempre fedel servitore. Nè la mia vita passata credo le possa dare indizio contrario. Solo prego l’E. V. mi faccia degno di dirle due parole con libertà.
Avendogli il duca accennato che dicesse, riprese:
— Voi aveste la mia fede, glorioso signore, nè vi verrà meno mai in eterno. Ma qualcuno può avervi veduto. Se la cosa si divulgasse, ed io uscissi di qua, potrebbe venirmene dato carico, senza ch’io ci abbia una colpa al mondo. Ond’è che non vedo strada d’uscirne coll’onor mio.
— Va, — rispose il duca, — sta di buona voglia, ed attendi ad esser uomo dabbene, nè ti darò carico che non meriti. Al fatto mio accade lo star nascosto soltanto per poche ore; passate queste, sappia ognuno e dica ciò che vuole, però non esca mai dalla tua bocca, per quanto stimi la grazia mia.
Boscherino non rispose a queste parole: soltanto abbassò il capo in atto riverente, facendo il viso di chi si vuol mostrar pronto ad obbedire, e non ha altro timore che di non esser creduto obbediente abbastanza. Tolse licenza, e camminando all’indietro con molti inchini, uscì della camera, e gli parve mille anni d’essere in istrada. Dopo alcuni minuti venne fuori anche D. Michele; trovò la camera che gli era destinata, vi si chiuse; ed il piano superiore dell’osteria per quella sera rimase tranquillo come se fosse disabitato.