Eros (Verga)/XXII
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XXII.
La prima volta che Alberto andò ai lunedì della contessa Manfredini parvegli di sorprendere negli occhi di Velleda un’espressione di meraviglia e di dispetto. Ma la giovanetta era troppo bene educata per far scorgere cotesto altrimenti che per sorpresa, e l’accolse con un po’ di freddezza, è vero ma convenevolmente. Non evitava, nè cercava le occasioni di trovarsi sola con lui, e quando ciò avveniva, per caso, ella sapeva starci benissimo, dominando Alberto colla sua calma superba. Gli rivolgeva la parola come a tutti gli altri, nè più nè meno, qualche volta con una sfumatura d’ironia, qualche altra volta con impertinente freddezza, sovente come se volesse col suo contegno domandare tacitamente ad Alberti perchè continuasse a frequentare la sua casa malgrado il suo divieto assai chiaramente espresso. La madre, al contrario, quasi avesse voluto addolcire e far scusare i modi della figliuola, trattava Alberti affabilmente.
Una sera che l’aria più mite della primavera permetteva di lasciare le finestre aperte, Velleda s’avvicinò ad Alberti colla sua andatura disinvolta, e gli disse tranquillamente:
— Ho da dirle qualcosa, signore — e lo precesse sul terrazzino. — Sa che il signor De Marchi ha chiesto la mia mano?
— Lo sospettavo...
— Non volevo.... non avevo intenzione di maritarmi... soggiunse con voce breve e risoluta, senza guardarlo. — Ma giacchè mi ci avete costretta ho detto di sì.
Alberto tardò alcuni minuti a rispondere.
— Mi ordinate di non venir più in casa vostra? domandò alfine.
— Adesso è inutile, diss’ella con un sorriso glaciale e superbo. — Ho bruciato le mie navi.
La notizia di quel matrimonio non tardò a circolare fra gli amici di casa Manfredini: dapprincipio discretamente, in seguito con maggior sicurezza. Da Marchi avea diradato le sue visite, Velleda lo trattava con maggior riserbo, ma sapevasi che dalle due parti stavansi trattando delle quistioni d’interesse, e ciò era perfettamente in regola.
— Ardon gl’incensi! disse una volta l’Armandi sortendo insieme ad Alberto da casa Manfredini.
Velleda aveva alquanto raddolcito il suo contegno verso di Alberti, sia che la rassegnazione di lui l’avesse disarmata, o che, dopo la presa risoluzione, egli non le ispirasse più alcun timore. Ella attraversava colla sua disinvoltura di gran mondo quel periodo, tanto difficile per una ragazza, delle domande susurrate dalle amiche di casa all’orecchio della mamma, delle allusioni più o meno velate, degli sguardi indiscretamente riserbati. Di tanto in tanto sembrava un po’ astratta e pensierosa, avea certi momenti di silenzio quasi cupo, o di gaiezza come irritata, o di asprezza irragionevole. Tutto ciò cadeva più frequentemente e più direttamente sul povero Alberti, come se ella non potesse perdonargli di averla costretta ad una risoluzione intempestiva. Il sarcasmo le veniva frequente in bocca, ed ella medesima arrossiva alcune volte dei suoi pungenti epigrammi; un momento dopo sembrava ravvedersi e avere l’intenzione di fargli delle scuse, come poteva farle il suo carattere orgoglioso, con una parola gentile o con un’attenzione delicata. Alberto impallidiva, o arrossiva; soffriva, ma non osava rinunziare a vederla. Sovente sorprendeva gli occhi di lei che lo fissavano carichi di collera, accigliati, foschi: allora il riso di lei era più mordente, o cosa strana, la sua parola era più graziosa. Alcune altre volte era lei al contrario che sorprendeva gli sguardi d’Alberto rivolti verso De Marchi colla febbrile ammirazione dell’invidia. De Marchi era un rivale formidabile, bello, altolocato, elegante e spiritoso — il povero innamorato soffriva la più crudele gelosia: quella che umilia ed annichila.
Un lunedì che c’era più gente del solito in casa Manfredini, Alberto si trovò un momento solo vicino a Velleda sull’uscio del giardino, e si misero a parlare dell’ultima opera della Pergola, e delle corse che s’erano fatte alle Cascine. Da qualche tempo fra di loro correvano le buone relazioni di gente completamente indifferente. Velleda perciò non si mosse, e seguitava a discorrere tranquillamente e più a lungo del solito canticchiava fra i denti i motivi di cui si rammentava, e faceva strider la sabbia sotto il suo stivalino irrequieto, gli domandava come si chiamasse il cavallo che avea vinto alle corse, e a quanto ascendesse il primo premio. Alberti rispondeva un po’ distratto, come gli avveniva spesso, ma a proposito.
— Le piacciono anche a lei le corse? gli domandò Velleda.
— Non voglio che sposiate De Marchi! rispose ad un tratto bruscamente Alberti afferrandole le mani.
Ella gli lanciò uno sguardo selvaggio e stette a fissarlo in tal modo, colle braccia rigidamente tese. Non aggiunsero una parola — rimasero guardandosi. — A poco a poco gli occhi di lei si velarono, il viso si fece smorto, e le braccia si allentarono. Poi si svincolò con uno sforzo disperato e rientrò come fuggendo.