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verso di Alberti, sia che la rassegnazione di lui l’avesse disarmata, o che, dopo la presa risoluzione, egli non le ispirasse più alcun timore. Ella attraversava colla sua disinvoltura di gran mondo quel periodo, tanto difficile per una ragazza, delle domande susurrate dalle amiche di casa all’orecchio della mamma, delle allusioni più o meno velate, degli sguardi indiscretamente riserbati. Di tanto in tanto sembrava un po’ astratta e pensierosa, avea certi momenti di silenzio quasi cupo, o di gaiezza come irritata, o di asprezza irragionevole. Tutto ciò cadeva più frequentemente e più direttamente sul povero Alberti, come se ella non potesse perdonargli di averla costretta ad una risoluzione intempestiva. Il sarcasmo le veniva frequente in bocca, ed ella medesima arrossiva alcune volte dei suoi pungenti epigrammi; un momento dopo sembrava ravvedersi e avere l’intenzione di fargli delle scuse, come poteva farle il suo carattere orgoglioso, con una parola gentile o con un’attenzione delicata. Alberto impallidiva, o arrossiva; soffriva, ma non osava rinunziare a vederla. Sovente sorprendeva gli occhi di lei che lo fissavano carichi di collera, accigliati, foschi: allora il riso di lei era più mordente, o cosa strana, la sua parola era più graziosa. Alcune altre volte era lei al contrario che sorprendeva gli sguardi d’Alberto rivolti verso De Marchi colla febbrile ammirazione dell’invidia. De Marchi era un rivale formidabile, bello, altolocato, elegante e spiritoso — il povero innamorato soffriva la più crudele gelosia: quella che umilia ed annichila.