VIII

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VII IX

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VIII.


Era già arrivata la novena di Natale, e il tempo si manteneva d’una serenità e d’una mitezza primaverili. Nei giardini d’aranci della Conca d’Oro, tra il verde cupo del fogliame quasi metallico, i frutti cominciavano ad occhieggiar gaiamente; e lungo le vie, attorno alle nicchie delle imagini sacre, se ne vedevano dei festoni, delle ghirlande artisticamente disposti. La melodia lenta e dolce della cornamusa risuonava da tutte le parti, come ripercossa dall’eco, nelle case più umili, nei chiassuoli, lungo le strade, e metteva tutto intorno una festività ridente e composta, diceva le gioie della pace, la poesia del focolare. [p. 122 modifica]

Fuggendo la baraonda cittadina, con un bisogno di concentrazione nel movimento, Ermanno Raeli se ne andava a cavallo per la campagna, ora slanciandosi al trotto, ora proseguendo al passo secondo l’umore del suo svelto ed elegante animale o le folate dei proprii pensieri. Egli non sapeva quale via tenesse; non vedeva nulla dinanzi a sè, con lo sguardo fisso lontanamente, ad una visione gentile.... Gentile, sì, era il termine che le conveniva. Gentile era la serietà del suo spirito, gentile era l’espressione dei suoi lineamenti, gentile era in ogni suo atto, in ogni sua parola.... Così lontano da lei, con la sola sua imagine spiritualizzata dinanzi, egli si sentiva colmato d’una felicità interiore, d’un gaudio muto ed intraducibile. L’aria odorosa che respirava, il tepido sole che lo riscaldava, il verde e l’azzurro che sorridevano, tutto gli dava un profondo benessere... Da qualche tempo, restando accanto a lei, sfiorando la sua veste, respirando l’impercettibile profumo che emanava dalla sua persona, fissando il movimento delle [p. 123 modifica]sue labbra mentre ella parlava, egli si sentiva, suo malgrado, vinto da un indefinibile turbamento. Il profumo carnale del suo guanto, ch’egli aveva una volta raccolto, gli aveva procurato una specie di vertigine, un'ebbrezza così dolorosa, che aveva creduto di svenire...

Egli è che per Ermanno Raeli la signorina di Charmory era una pura Idea, armoniosa, impersonale ed intangibile; era lo stesso amore con tutto ciò che esso ha di immacolatamente spirituale. In lei, egli non aveva potuto vedere la donna. Ella passava, come un soffio; si pensa forse ad afferrare qualche cosa d’alato e d’incorporeo?... Un incontro rarissimo delle disposizioni del proprio spirito con le circostanze esteriori, aveva dato a questo sentimento di ideale idolatria una forza straordinaria. Ciò che egli conosceva fin là dell'amore, era l’intollerabile. Dalla prima profanazione fredda e brutale, ma almeno spoglia d’ogni illusione, all’esperienza della menzogna che come un corrosivo aveva profondamente intaccato il suo cuore, e alla febbrile [p. 124 modifica]compiacenza nel vizio che aveva finito di amareggiarlo, egli non aveva visto che uno spettacolo di degradazione continua. Uscito da quella miseria, egli s’era fatto estraneo al mondo, attingendo nel disgusto del ricordo e nell’inclinazione alla vita speculativa la forza di resistenza contro ogni nuova tentazione. Ma ciò ch’egli domandava, nell’intimità impenetrabile della propria coscienza, con tutto il fervore della sua contenuta aspirazione, e disperando di raggiungerla mai, era sempre l’indissolubile unione degli spiriti, l’intelligenza e la rispondenza delle anime. Ciò che gli bisognava era di comprendere e di esser compreso da un’altra creatura, di vivere in uno scambio di pensieri, di idee, di sentimenti, tutta la vita più intima dello spirito e del cuore, con la parola e con lo sguardo, in una confidenza assoluta. E subitamente la vista della signorina di Charmory gli aveva rivelato che quella felicità era possibile. Sì, egli lo riconosceva, lo diceva quasi materialmente, a mezze labbra, durante quella passeggiata mattinale, nel [p. 125 modifica]cospetto del più clemente cielo: egli amava Massimiliana, perchè ella era come l’aveva sognata; l’aveva amata unicamente fin dal primo momento che l’aveva vista ed ascoltata; intanto che ella aveva parlato, una voce interiore gli aveva detto: Eccola!... Quello che avrebbe dovuto fare, sarebbe stato questo: prenderla per mano, e andar via, dritto innanzi, cogli occhi al cielo dal quale ella scendeva... A sua volta, lo amava ella? Formidabile quistione, che egli non poteva risolvere perchè non osava approfondirla. Ella era veramente per lui qualche cosa di misterioso, di sacro: toccare un lembo della sua veste, la punta d’un suo dito, gli sarebbe parso un sacrilegio. Con la sua espressione nostalgicamente estranea al mondo circostante, con la sua figura vaporosamente leggiera, ella aveva dato forma al suo sogno, lo aveva prolungato nella realtà. Egli si era risvegliato il giorno in cui aveva incominciato a intravedere, dietro la spirituale figura, la creatura umana...

Ermanno Raeli aveva un bell’essersi [p. 126 modifica]trasformato, la vita esteriore aveva ben potuto riprenderlo: il pensiero analitico restava sempre il modo principale della sua attività. E con un’angoscia crescente egli aveva visto rideterminarsi l’antica incompatibile dualità della sua natura, in presenza d’una sollecitazione così potente come quella alla quale egli si trovava ora esposto. Amando la signorina di Charmory, egli si sentiva struggere di tenerezza all’idea della sua solitudine, della mancanza d’un grande affetto che invigilasse costantemente su di lei, della sua stessa lontananza dalla patria, dal cielo che l’aveva vista nascere, dagli uomini che parlavano il suo stesso linguaggio. Darle tutto, esserle tutto: patria, famiglia, tutela; guidarla ed esserne guidato nello instabile mar della vita: quale superbo miraggio! Esso si dissipava, sempre, non appena contemplato un istante. La visione dei suoi antichi amori gli si ripresentava allo spirito con una precisione invasante, e dall’intimo essere suo saliva una muta ribellione contro la possibilità di vedere l’imagine di lei al posto [p. 127 modifica]delle altre, contro l’assimilazione di quell’amore agli antichi... Sotto l’impero di una violenta disillusione, egli aveva negato fede all’ideale, aveva creduto unicamente all’impeto cieco degl’istinti primitivi, aveva dissipate le ricchezze della fibra nelle stupide orgie; ma come i dannati baudeleriani, per l’operazione di un mistero vendicatore, egli anelava ora ai più alti cieli spirituali. L’idea della carezza fisica era per lui insoffribile; ciò che egli non poteva ammettere, era la macchia al liliale candore, l’offesa alla purezza della fronte adorata. Per questo egli tremava in presenza di lei, non osava guardare all’avvenire e si era quasi ridotto a fuggirla. Egli si faceva sdegno e ribrezzo, tutta la propria persona gli pareva attaccata da una lebbra mostruosa ed insanabile; non che fare un passo per accostarsi alla gente, egli doveva aver la virtù di condannarsi ad un isolamento perpetuo...

A poco a poco, ed a misura che la serie dei tristi pensieri si svolgeva, un’espressione di abbattimento scacciava in lui la serenità di [p. 128 modifica]poco prima. Il suo cavallo, scuotendo la testa fine ed intelligente, si cercava oramai da sè la sua via. Tutto al turbamento che gli guadagnava l’animo, Ermanno si domandava perchè non aveva conosciuto prima la signorina di Charmory, quando egli non era ancora precipitato in fondo a quell’abisso; o perchè, essendovisi oramai ridotto, aveva dovuto conoscerla; e come nessuna voce in lui rispondeva a quel disperato dilemma, egli alzò un poco gli occhi al cielo. Esso era sempre d’un azzurro senza macchia; ma in alto, allo zenith, fissandolo intensamente, l’azzurro diventava quasi nero, come se non potesse vincere l’eterna notte regnante negli spazii. Era una nerezza egualmente intensa che, nei sostrati del proprio pensiero, oltre alle seducenti e superficiali parvenze, Ermanno aveva scorto; e durante quella paurosa contemplazione, l’attività psichica s’era spenta in lui... Un rumore lontano, ancora sordo, lo ricondusse alla coscienza di sè. Era presso alla piccola borgata di Pallavicino; le due masse imponenti di [p. 129 modifica]Monte Pellegrino e del Castellaccio, con il prolungamento del Monolfi e del Gallo, si facevano fronte lasciando fra di loro una piccola valle gaia di verde. Per la via, passavano dei carri; e dei contadini, con l’ereditario rispetto verso i signori, si cavavano il berretto, incontrandolo. Ma come egli s’accorse d’una carrozza che s’avvicinava da Palermo, si ricompose subito, strinse le redini con mano salda e si rizzò sulla sella nell’attitudine di una persona tutta intenta a guidare pei buoni passi il proprio cavallo. Egli non voleva che dei curiosi, che degli indifferenti, sorprendessero la sua preoccupazione; il possibile incontro di visi conosciuti lo turbava anticipatamente, e più la subitanea e istintiva previsione di trovarsi dinanzi a lei... Rapidamente avvicinatasi con un insistente schioccar della frusta, la carrozza si arrestò a pochi passi da Ermanno. Il sangue aveva dato a questi un tuffo violento nello scorgere Giulio di Verdara che guidava il legno, dove stavano la contessa e le sue amiche dell’Hôtel des Palmes... «Buona passeggiata!» [p. 130 modifica]gli gridava il conte, salutandolo con la mano, «Saresti per caso in servizio di avanscoperta?...» — «Perchè?...» domandò il giovane che si era accostato alla carrozza, col cappello in mano, e salutava le signore. «Esploravi tutt’intorno come per sorprendere il nemico!...» — «E noi la facciamo prigioniero!...» aggiunse la contessa, invitandolo ad accompagnarli e rimproverandolo amabilmente per la sua lunga assenza, della quale egli si scusava con pretesti mediocri.

Ermanno si era messo a cavalcare dalla parte della viscontessa d’Archenval, alla quale, nelle poche volte che l’aveva incontrata, aveva dimostrata una simpatica premura. Le sue sofferenze, i rapporti che passavano fra lei e Massimiliana, gliela facevano considerare con raddoppiato interesse; e come la viscontessa aveva una volta dichiarata la sua passione per i fiori, egli gliene aveva mandato spesso interi canestri. La signora d’Archenval ricambiava cordialmente la sua simpatia, ed in quel momento stesso lo ringraziava, col sorriso un [p. 131 modifica]po’ triste d’inferma, dei suoi doni gentili. Ermanno fissava di tratto in tratto lo sguardo sulla signorina di Charmory, che gli stava di fronte. Ella spariva sotto un mantello-veste di panno grigio con striscie di petit gris, e girava un’occhiata distratta per il paesaggio. La viscontessa, sepolta fra le pelliccie e i plaids su cui teneva dei mazzi di fiori campestri, aveva le magre guancie soffuse d’un leggero incarnato e respirava con le labbra un poco dischiuse, battendo spesso le palpebre. La sua figura disfatta formava uno strano contrasto accanto alla contessa Rosalia, che portava un mantello di lontra foderato di raso rosso e un cappello a barca di feltro muschio, e che, piena di salute e di vivacità, era quasi sola a mantenere, dal suo posto, la conversazione con Ermanno, come consentivano il moto della carrozza e del cavallo.

Sfoggiando tutte le risorse del suo spirito, ella faceva uno sforzo dentro di sè perchè nessuno si accorgesse dell’agitazione dalla quale si sentiva dominata. Dopo una lunga e [p. 132 modifica]vana attesa, ella si vedeva finalmente Ermanno d’accanto; ma in condizioni tali che il porre ad effetto il proprio disegno non era possibile. Cercava nondimeno di trarre profitto della circostanza per osservare il contegno di lui in presenza di Massimiliana; ma nulla poteva in quel momento rivelarle ciò che ella aveva paura di scoprire. Ermanno guardava la signorina di Charmory come le altre sue vicine, ma pareva più presto occupato del suo cavallo, il quale, in vicinanza del legno, scuoteva la testa, recalcitrava, e non si chetava un poco se non quando il cavaliere prendeva ad accarezzarlo con la mano e a parlargli quasi all’orecchio.

Vi era una specie di amor proprio che consigliava alla contessa di spiegare tutta la sua più elegante disinvoltura dinanzi ad Ermanno, quasi perchè egli potesse, notandola, apprezzare il contrasto col mutismo triste di Massimiliana. Dall’alto del cocchio, facendo schioccare continuamente la sua frusta, Giulio di Verdara entrava da parte sua, con qualche [p. 133 modifica]rapida esclamazione, a pigliar parte alla conversazione. Come la carrozza fu giunta in vicinanza delle prime case di Pallavicino, moderò la sua corsa e vedendo che il cavallo di Ermanno ricominciava ad imbizzirsi: «Facciamo una cosa!» disse all’amico: «Lascialo montare a me, tu salirai in carrozza.»

Intanto che il conte ed Ermanno scendevano, il primo da cassetta, lasciando le redini al groom, e il secondo da cavallo, Rosalia di Verdara aveva chiesto alla signora d’Archenval se si fidava di fare due passi. «Mi proverò!..» aveva risposto la viscontessa, che il moto e l’aria dolce avevano animata, e le amiche erano anch’esse discese dal legno, di cui Ermanno aveva dischiuso lo sportello. Intanto che Giulio di Verdara si spingeva innanzi, al trotto del cavallo completamente rassicurato, la piccola comitiva si era messa in cammino, seguita a breve distanza dalla carrozza vuota. La contessa dava il braccio alla signora d’Archenval, e Massimiliana ed Ermanno si tenevano al loro fianco; ma ben [p. 134 modifica]tosto, per la lentezza con la quale la sofferente era costretta ad incedere, i due giovani si erano trovati inavvertitamente un poco innanzi. Tutta avvolta, nel suo mantello, con le braccia e le mani nascoste dentro di esso, la signorina di Charmory si perdeva fra quei larghi contorni e solo il suo profilo purissimo si disegnava sotto la toque d’una tinta scura. Restando solo per la prima volta con lei, una trepidazione crescente si era impadronita di Ermanno. Nel mentre qualche cosa di armonioso vibrava nell’animo suo all’imprevedibile fortuna di quell’incontro, egli avrebbe voluto esser lontano, tanto dolorosa finiva per essere l’emozione cagionatagli dalla vicinanza di Massimiliana. Poi, che cosa dirle, se non il sentimento che gli divampava dentro; di che cosa parlarle, se non dell’amor suo? Ma, al tempo stesso che egli si confermava nel proposito di non far nulla per dimostrarle ciò che provava, egli pensava alla difficoltà di trovar parole con le quali tradurre la propria emozione, con le quali dire a [p. 135 modifica]Massimiliana l’angosciosa delizia che la sua presenza gli procurava, l’esclusiva passione di cui egli era pieno. La stessa ipotesi d’una dichiarazione, d’una formula convenzionale da recitare, gli pareva inammissibile; e in quel tormento di sentirsi pieno d’un’idea e di non volerla e di non poterla esprimere, fu con voce velata dall’imbarazzo che, voltandosi indietro: «Povera signora!» egli disse, fermandosi un poco a guardare la viscontessa e la sua amica: «È sempre molto sofferente...» — «Sì,» rispose la signorina di Charmory; «che martirio non vederla sollevarsi mai...» E l’accento col quale ella parlava di quella fatale malattia era anch’esso stanco, quasi depresso e così estraneo alla realtà che Ermanno sentiva sedarsi a poco per volta la sua inquietudine. «Il clima di Sicilia non le ha dunque giovato?» — «Quasi nulla. Sono dei miglioramenti passeggeri, seguiti da sùbite ricadute.... Del resto,» aggiunse Massimiliana, con un accento di sfiducia, «che cosa può fare un’aria mite o un tepido sole?...» Ed [p. 136 modifica]aveva guardato un momento un mendicante, avvolto in miserabili cenci, cogli occhi luccicanti dalla febbre, che in quel punto della via, abbandonato sopra un mucchio di sassi, tendeva un braccio scarno e tremante ai passanti. Ermanno gli si era avvicinato, mettendogli in mano una moneta. «Certo, si soffre dovunque...» aveva detto, tornando a fianco della sua compagna. «Vi sono grandi miserie!...» soggiunse la signorina di Charmory, e un piccolo brivido come di freddo le era passato pel corpo.

Essi erano giunti dinnanzi alle prime case della borgatella; le contadine, ferme sugli usci, guardavano curiosamente la coppia; e una di esse, spingendo col gomito una compagna per richiamarne l’attenzione, aveva esclamato con tutta l’espressiva efficacia del dialetto: «Come è bella l’Inglese!...» Ermanno aveva visto l’atto e udite le parole. Vi era una grande lusinga per lui in quell’ingenuo giudizio, una intima lusinga che si traduceva nell’espressione ridente dello sguardo; e voltandosi a [p. 137 modifica]guardare Massimiliana, egli disse: «Ha sentito, signorina?... La prendono per una Inglese...» Massimiliana di Charmory sorrise lievemente. «Tutti gli stranieri sono Inglesi per questa buona gente!...» In quel punto, gli occhi le erano andati sopra un altarino scavato nel rustico muro che chiudeva un podere, e tutto ornato di frasche e di aranci, su cui erano sparsi dei piccoli fiocchi di candida bambagia. «Guardi,» diss’ella, arrestandosi un momento lì dinnanzi. «Che cosa significa?..» Ermanno, che aveva scorto quei fiocchi bianchi, oggetto dell’attenzione della sua compagna, rispose: «È per ricordare la neve caduta durante la notte del Natale...» Egli aveva pronunziate quelle parole con un leggiero turbamento. Conosceva da ragazzo l’uso tradizionale che in un paese dove l’inverno è una continua primavera, vuol ricordare intorno all’imagine del Salvatore l’ostilità degli elementi in mezzo alla quale egli venne al mondo; ma tutte le volte che scorgeva quel simbolo — e ciò non gli accadeva più da [p. 138 modifica]anni — non sapeva frenare uno slancio di tenera dolcezza, di commossa simpatia. «Come è gentile!...» esclamò la signorina di Charmory; ed era una commozione eguale alla sua che egli sentiva nell’accento di Massimiliana, che vedeva negli sguardi lucenti coi quali ella fissava l’imagine sacra. «È una nostalgia del cielo settentrionale, dei paesaggi nevosi, dalla terra sepolta sotto bianchi lenzuoli che si prova dinanzi a questo simbolo...» ed improvvisamente egli aveva cessato di parlare, pensando a sua madre, al paese lontano ove ella era nata, le cui nebulose visioni gli aveva trasmesse col sangue; pensando all’altro lontano paese che aveva visto nascere l’Eletta, verso il quale egli avrebbe tanto voluto avviarsi, al suo fianco... «È vero, la nostalgia del cielo settentrionale...» aveva detto la signorina di Charmory, e nel ripetere le stesse parole pronunciate da Ermanno, i suoi sguardi si erano incontrati con quelli di lui. Subitamente, anche la voce della fanciulla si era spenta. Tacquero, ma comunicando con lo [p. 139 modifica]stesso pensiero, vinti entrambi da uno smarrimento ineffabile, dal quale l’avvicinarsi più rapido della carrozza li trasse bruscamente...

Scorgendo dei sintomi di stanchezza nella signora d’Archenval, Rosalia di Verdara l’aveva fatta subito risalire in carrozza per raggiungere i due giovani lontani. Una sorda gelosia le era nata in cuore nel seguire le due figure di Massimiliana e di Ermanno procedenti l’uno a fianco dell’altra. Che cosa potevano dirsi? Se ella avesse potuto lasciar lì, in mezzo alla via, la viscontessa, raggiungerli senza esserne scorta e sorprendere le loro parole!... Era però arrivata abbastanza a tempo per notare quella confusione degli sguardi che segue un rapido scambio di pensieri come l’agitazione delle onde dopo un colpo di vento, per scorgere l’imbarazzo dei due giovani ancora sotto l’impressione della loro muta intelligenza.

Come la carrozza s’era fermata, Ermanno aveva aperto lo sportello, offrendo la mano nuda alla signorina di Charmory per aiutarla [p. 140 modifica]a salire. Dopo un attimo di esitazione, ella vi aveva appoggiata la sua mano nuda; e come Giulio di Verdara, sopravvenuto di carriera, smontava e passava le redini a Ermanno, questi si congedava dalle signore e partiva al galoppo.