Era ne la stagion quando ha tra noi

Giovan Battista Marino

XVII secolo Indice:Marino Poesie varie (1913).djvu Letteratura VIII. Trastulli estivi Intestazione 8 dicembre 2017 100% Da definire

Quando, stanco dal corso, a Teti in seno Figlio de l'Apennino
Questo testo fa parte della raccolta Poesie varie (Marino)/Le canzoni e i madrigali amorosi
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viii

trastulli estivi

     Era ne la stagion quando ha tra noi
piú lunga vita il giorno,
e l’ombra ai tronchi intorno
stende minori assai gli spazi suoi;
allor che ’l sol, congiunto
con la stella che rugge,
dal piú sublime punto
saetta i campi e i fiori uccide e strugge;
ed era l’ora a punto
quando con linea egual la rota ardente
tien fra l’Oro il suo centro e l’Occidente.
     Io, tutto acceso d’amoroso affetto,
col cor tremante in seno
stavami in parte e, pieno
di desir, di speranza e di diletto,
gía misurando l’ore
del mio promesso bene;
fortunate dimore
onde poscia il piacer doppio diviene.
Son le tue gioie, Amore,
tanto bramate piú quanto piú care!
     Quinci con mente cupida e confusa
e gelava ed ardea;
ché la finestra avea
l’una parte appannata e l’altra chiusa.
Qual suol lume che scende
torbido in folto bosco,
o qual su l’alba splende
misto a la notte il dí tra chiaro e fosco,

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con tal luce s’attende,
perché ’l rossor si celi e la paura,
vergognosa fanciulla e mal secura.
     Ed ecco allor soletta a me vid’io
venir Lilla la bella,
Lilla la verginella,
la mia fiamma, il mio Sol, l’idolo mio.
Succinta gonna e breve,
quasi al piú chiaro cielo
nebbia sottile e lieve,
ombra le fea d’un candidetto velo;
onde di viva neve
le membra, ch’onestá nasconde e chiude,
eran pur ricoverte e parean nude.
     Tra le braccia la strinsi, in sen l’accolsi;
de l’odorato lino
l’abito pellegrino
con frettolosa man le scinsi e sciolsi.
E, benché fra le spoglia
fusse fren mal tenace
a sí rapida voglia,
non fu però ch’io la sciogliessi in pace.
Sdegno, alterezza e doglia
ne’ begli occhi mostrò; pugnò, contese:
dolci risse, onte care e care offese!
     Vidi per prova allor sí come e quanto
mal volentier contrasta
o ritrosetta o casta
vergine, e qual sia l’ira e quale il pianto.
Falso pianto, ira finta:
ancorché pugni e neghi,
vuol pugnando esser vinta;
son le scaltre repulse inviti e preghi.
Di scorno il viso tinto,
dar non vuol mai né tôr la giovinetta
ciò che brama in suo cor, se non costretta.

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     Corsi a le labra, e, quant’ardente ardito,
con grata allor non grave
violenza soave,
piú d’un spirto gentil n’ebbi rapito.
E la bocca divina,
pur contendente i baci,
crucciosa a la rapina
gli prendea tronchi e gli rendea mordaci.
Ma chiunque destina
ai baci Amor, né varca oltra quel segno,
quegli è de’ baci istessi ancora indegno!
     Qual mi fêss’io, ciò ch’io scorgessi in lei,
poiché le falde intatte
de l’animato latte
si svelâro (oh beati!) agli occhi miei,
ridir né so né voglio.
Mille oltraggi diversi
da quel tenero orgoglio,
mille ingiurie innocenti allor soffersi.
Ma, qual fra l’onde scoglio,
alcuna parte del mio seno ignudo
da la candida man mi facea scudo.
     Lentato il morso a l’avido desire
(oh dolcezze! oh bellezze!
oh bellezze! oh dolcezze!),
m’apersi il varco a l’ultimo gioire.
Quivi a sfiorar m’accinsi
l’orto d’Amor pian piano,
e nel suo chiuso spinsi
l’ardita mia violatrice mano.
Dolce meco la strinsi,
appellandola pur «luce gradita»,
«gioia», «speranza», «core», «anima» e «vita»!
     — Che fai, crudel? — dicea — crudel, che fai?
dunque me, che t’adoro,
del mio maggior tesoro,

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del maggior pregio impoverir vorrai?
Tu, signor del volere,
tu, possessor de l’alma,
a che cerchi d’avere
de la parte piú vil men degna palma?
Ahi! per sozzo piacere
non curi, ingordo di furtive prede,
di macchiar la mia fama e la tua fede? —
     Tre volte, a questo dir, giunto assai presso
a le dolcezze estreme,
qual uom che brama e teme,
fui de’ conforti miei scarso a me stesso,
e, del suo duol pietoso,
il mio piacer sostenni;
pur del corso amoroso
a la mèta soave alfin pervenni,
ed a l’impetuoso
desir cedendo il fren libero in tutto,
colsi il suo fiore e de’ miei pianti il frutto.
     A la piaga d’Amor cadde trafitta,
e, vinta al dolce assalto,
di bel purpureo smalto
rigò le piume, in un lieta ed afflitta.
Io, vincitor guerriero,
de la nemica essangue,
quasi in trionfo altero,
portai ne l’armi e ne le spoglie il sangue.
Cosí l’alato arciero
l’arsura in me temprò cocente e viva
de la fiamma amorosa e de l’estiva.
     Canzon, lasciar intatta
da sé partire amata donna e bella
non «cortesia», ma «villania» s’appella.