Figlio de l'Apennino
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ix
la ninfa tiberina
Per la signora Agnola Vitelli Soderini.
Figlio de l’Apennino,
che la piú nobile parte
bagni d’Italia e per l’amene sponde
ancor volgi fra l’onde,
tinte del chiaro giá sangue latino,
dal buon popolo di Marte
le barbare corone in te cosparte,
sono i tuoi tanti pregi,
felice, e i tuoi splendori
vie piú che l’onde tue, piú che l’arene;
e, s’è ver che sostene
parte la fama de’ tuoi primi fregi,
piú di palme e d’allori
che di canne e di giunchi il crin t’onori.
Quel nome altier, ch’estinto
ne’ saldi marmi or giace,
ne l’onde tue correnti e fuggitive
fermo si serba e vive;
ciò ch’eterno sembrava, al fin pur vinto
dagli anni si disface,
e cosa dura piú ch’è piú fugace.
Ma quanto ir vie piú chiaro
e lieto oggi ten puoi,
sol per questa d’Amor bella guerrera,
che per l’antica schiera
de’ figli invitti tuoi che ’n te regnâro?
Ecco, a’ begli occhi suoi
cede il valor de’ piú famosi eroi.
Ben devi a lei piú molto
ch’a l’altrui man sí forte,
che tanti eresse in te metalli e marmi.
Quel ch’altrui fe’ con l’armi,
ella fa col bel ciglio e col bel volto,
e con piú lieta sorte
dolce fa la prigion, cara la morte.
Onde in lei glorie e palme
piú chiare il mondo addita;
ché, s’uom di corpi estinti alzò trofei,
or è dato a costei
vincer i cori e trionfar de l’alme,
e, pietosa ed ardita,
può ferir e sanar, dar morte e vita.
Ella quest’aria e queste
piagge beate onora,
ella sol placa il tuo torbido aspetto;
ella l’immondo letto
purga e col guardo ingemma almo e celeste;
ella, qual nova Flora,
i tuoi campi feconda e i lidi infiora.
Se gonfio porti il corno
oltra i confini e cresci,
tutt’è mercé, tutt’è virtú di quelle
luci serene e belle.
Caggion da lor disciolte a’ colli intorno
le nevi, e tu le mesci
con l’onde e sovra te t’inalzi ed esci.
Esci fuor del tuo nido,
e gli argini sommersi,
fatto di te maggior forse da’ pianti
di mille afflitti amanti,
lei seguendo che fugge il patrio lido,
or foschi umori or tersi,
piú che da l’urna assai, dagli occhi versi.
Ma, benché irato e fero
le rive inondi e lavi,
da spegner tante fiamme acque non hai,
quante co’ dolci rai
in te n’accende il chiaro sguardo altero:
fiamme sí, ma soavi,
tanto soavi piú quanto piú gravi.
Arde Roma e l’arsura
piú di quella è possente
che ne’ suoi tetti empio tiranno accese.
Né giá cotanto offese
d’Ilio le ròcche e le superbe mura
la greca face ardente
quant’ella da’ begli occhi incendio sente.
Né cosí fervid’arse
giá teco il re de’ fiumi,
quando ne l’urna sua Fetonte involse,
e del bel carro accolse
gli assi e le rote incenerite e sparse,
come tu ne’ bei lumi
inestinguibilmente ti consumi.
Se poi tranquillo e piano
movi il bel piè d’argento,
quasi aspettando pur che s’avicini,
grazie agli occhi divini
a cui davante il furor cieco insano,
fatto placido e lento,
depon l’ira e l’orgoglio in un momento.
Può raffrenarti spesso
il concetto amoroso
de le soavi angeliche parole;
può de’ begli occhi il sole
farti lucido sí, che t’è concesso
talor dal fondo erboso
mostrarle il cor ne’ tuoi cristalli ascoso.
Piú ch’Eurota puoi dirti
felice, allor che l’odi
fra le perle e i rubini aprir la via
a quell’alta armonia,
da’ cui celesti amorosetti spirti
tu lieto apprender godi
del rauco mormorar piú dolci i modi.
Felice aventurato,
se mai lavando terge
de la man bianca in te la viva neve,
o se suggendo beve
quel che l’offri cortese umor gelato,
o se ’l volto v’immerge
e te stesso ne spruzza e i fior n’asperge.
Allor da’ bei coralli
prendon l’onde tranquille
qualitá piú soave e piú gentile;
ch’oltra l’usato stile,
lá dove eran pur dianzi acque e cristalli,
vedi le sparse stille
repente divenir perle e faville.
Qualor a l’ombra estiva
in dolce atto la miri
che ’n su l’erbetta o giace o siede o scherza,
tu con placida sferza
vai le piante a ferirle in su la riva;
poi con obliqui giri
quasi per riverenza il piè ritiri.
Oh de la bella imago
se ’l ciel ti desse almeno,
qualor piú chiara entro ’l tuo ghiaccio avampa,
serbar l’intera stampa
e quasi in specchio cristallino e vago
a l’amico Tirreno
salda e viva qual è recarla in seno;
quanto le tue dolci acque
a lui fôran piú care
che del Po, che de l’Arno o che de l’Ebro!
Sí poi vedresti, o Tebro,
de la beltá che ne’ tuoi poggi nacque
innamorato il mare,
le sue, forse, addolcir salse ed amare.
Non ha scoglio o spelonca
il suo liquido mondo
ove sí lucid’ostro arda e rosseggi
che ’l bel viso pareggi,
non ha zaffiro in riva o perla in conca,
non oro in cupo fondo,
pari agli occhi, a la bocca, al suo crin biondo.
Né vide altra il suo regno
bellezza unqua maggiore
sin da quel dí che ’l peregrin di Troia
trasse, carco di gioia,
per le liquide vie sul curvo legno
la bella argiva, ardore
piú de la patria sua che del suo core.
Sirena o ninfa alcuna
Nettuno egual non scorse;
non Dori a lei s’agguagli o Galatea;
non la piú bella dea
ch’ebbe lá ne l’Egeo cerulea cuna;
non anco il Sol, che forse
sí bel di grembo a Teti unqua non sorse.
Fiume beato or ceda
a te pur l’Indo e ’l Moro
o qual altro piú ricco in mar si frange;
l’Ermo, il Pattolo, il Gange
d’ogni pregio la palma a te conceda,
ch’assai maggior tesoro
hai tu, ch’acque d’argento, arene d’oro.
Non piú lieto trionfi
quel che lá per la piaggia
del verde Egitto sette rami spande,
e che rapido e grande
Asia d’Africa parte, e non si gonfi
perché tonando caggia
e di secreto fonte origin traggia!
Giá lo scetro ti porge
quel tuo superbo frate,
ch’ambe di Tauro l’arenose corna
di verdi pioppe adorna;
giá quel con gli altri a riverirti sorge
che con l’onde beate
riga gli orli di Dio, famoso Eufrate.
Né solo a te l’Oronte,
l’Istro, il Tago, il Peneo
tributari e soggetti il ciel destina;
ma t’onora e t’inchina,
pur com’abbia da te principio e fonte,
l’Eusino, l’Eritreo,
e, col padre Oceán, l’Adria e l’Egeo.
Tu questa dea sublime
inchina sol, che doma
l’alme latine, e de’ tuoi sacri colli
di fior leggiadri e molli
veste le falde ed alza al ciel le cime;
onde si canta e noma
Roma donna del mondo, ella di Roma!