Emma Walder/Parte terza/III
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III.
— Mi dispiace per noi — disse la buona Marta. — Noi perdiamo assai, ma per te è un bene e ne sono lietissima.
— Grazie, Marta, grazie. Tu non sai che tragedie sono avvenute in casa Mandelli, e a quali malinconie vado incontro.
— Sappiamo — disse Gioachino.
— Come!... Sapevate tutto e non mi avete detto nulla?
— Perchè addolorarti inutilmente, cara Emma mia? Si è saputo dai giornali...
— Ma come? Io ho sempre guardato con attenzione i pochi giornali milanesi che ci arrivavano, e qualche volta ne ho pure fatti comperare per vedere se parlavano del matrimonio di Annetta...
— Fu un caso famoso — disse Gioachino. Uno dei primi giorni dacchè eravamo a Verona, un amico mi mandò un giornale dove era stampato a grandi lettere: Il fatto di Melegnano. Vidi il suo nome, lessi e... nascosi il giornale. Da quel giorno, nessun giornale capitò nelle sue mani senza che io lo guardassi prima. Non avevo cuore di darle un dispiacere simile.
— Eppure una volta bisognava dirmelo!
Di ciò convenivano tutti, ma erano contenti di non essere stati loro a dover fare quel brutto racconto. E il signor Gioachino si scusava ripetendo: — Che le disgrazie si sanno sempre abbastanza presto.
Emma passò, come di solito, le sue ore sulla giostra ad aiutare il cassiere.
La voce della sua partenza essendosi sparsa, tutti gli addetti alla fiera si recavano a salutarla o almeno a vederla per l’ultima volta, poichè molti l’ammiravano.
La sera, quando il signor Gioachino andò a rilevarla, ella tornò al carrozzone, fermandosi ad ogni passo per rispondere ai saluti, alle strette di mano. A un tratto si trovò di fronte a Celanzi, che s’inchinò rispettosamente e continuò la sua strada.
Presso alla scaletta, Hector, il grosso cane da caccia, le venne incontro facendole festa. E a lei parve che egli pure le dicesse: «Tu parti: ci lasci!»
Andò a prendere un biscotto e glielo porse. Povero Hector, sempre alla catena!
Desinò sola con la signora Marta, come sempre nei giorni di ressa.
— Chi prenderà il mio posto al comptoir? — domandò.
— Io.
— Lei, Marta?
— Sì. In fondo m’annoio qui, e la noia rende pessimisti. E poi, così, se per caso tu non ti trovassi bene coi signori e volessi ritornare, ritroverai il tuo posto.
— Come è buona lei, Marta!
Marta sorrise, poi disse:
— Non sarà il caso. Tu ti farai presto sposa.
— Io?!... mai più.
— Vorrei vedere che una ragazza, bella e buona come te, rimanesse in terra! Quel bel signore che ti ha salutata poco prima, non pensa che a te.
— Lei sogna.
— Non sogno. Egli ti ama. Vi saranno delle difficoltà, magari insormontabili, ma egli ti ama. Vuoi che ti faccia le carte?
— Grazie, Marta. Sa che non ci tengo.
Risero tutt’e due e parlarono d’altro.
Ma Emma era distratta, assorta. E la buona Marta la guardava pensando tra sè:
— Tu ami, o hai amato, o stai per amare.
Si faceva sera. L’orchestrion della giostra andava senza tregua. Il valzer, la polka, la mazurka, le sedici battute di opera seria, di carattere quasi religioso, ripetute fino a quarantasei volte di seguito; poi la canzonetta popolare; e da capo il valzer dall’introduzione patetica; e via! «Allez!» come gridava il signor Gioachino quand’era di buon umore.
— Ti ricordi Emma — diceva la signora — ti ricordi i primi mesi, quando l’orchestrion ti dava tanta noia? Scommetto che adesso non lo senti neppure.
Emma sorrise.
— Ci si avvezza a tutto! Andarono a fare un giro, intanto che l’uomo nettava la casa. Dacchè la bella Rosina aveva preso il volo con un sergente, facevano fare tutto il servizio dagli uomini.
A mezzanotte, finalmente, riposo universale imposto da un colpo di cannone.
Ultimo a chiudersi, il bersaglio di Ninì. Essa arrivò a casa affannata.
— Quanti denari!... — Li aveva tutti in una cassetta. — Guardate! Prendine un pochi tu, mamma; e anche tu papà; così! Ho una paura maledetta che venga Alberto a spogliarmi. M’è parso di vederlo in fondo al viale. Se ha visto il lavorare che ho fatto, verrà di certo.
— Speriamo che Hector lo addenti — disse Gioachino con accento feroce, affrettandosi a intascare il denaro.
I due vecchi si ritirarono nello scomparto in fondo. Emma e Nini prepararono le loro piccole brande nel salottino, l’una sull’altra, come nei bastimenti.
Hector abbaiava disperatamente.
— Papà! papà! non hai ritirata la scaletta.
Quando tutto fu chiuso, Hector continuò a mugolare e abbaiare ogni momento. Sette o otto cani gli rispondevano uno qua, uno là, vicino, lontano. Urli, muggiti, ringhi, squittii, partivano a intervalli dal serraglio in fondo al viale. I cani allora, tutti insieme, ululavano.
Una compagnia di giovinotti, mezzi brilli, traversava la piazza cantando. Qualcuno gettava delle pietre, provocando nuovi urli e abbaiamenti. Dopo la una, un lungo silenzio.
La piazza, il monumento a Garibaldi, i viali, le tende bianche, calate, delle giostre, dei musei, dei bersagli; le masse nere dei serragli, dei carrozzoni abitati; le case circostanti, la costa erta del Baradello, tutto allagava, blando e sereno, lo splendore del plenilunio pasquale. Pareva un fantastico mondo incantato.
— Tu non dormi — disse Ninì — sentendo che Emma si muoveva nella piccola branda sospesa sopra la sua.
— Ti disturbo, eh? Starò ferma.
— Niente affatto. Neppure io dormo. Fa troppo caldo. Alziamoci un poco. Apriamo una finestra. Fuori dev’essere una bellezza col chiaro di luna.
— E se tuo padre sente?...
— Apriremo quella di cucina che è più lontana.
Si alzarono adagio adagio; scesero dai loro letti; infilarono una gonnella e passarono nel primo scomparto del carrozzone.
Ninì apri il finestrino che dava sul viale, nell’oscurità.
— Che disdetta! Qui non si vede la luna.
Sentirono stridere la sabbia.
— Vien gente!
— Hector! Guarda come dimena la coda. Ci ha riconosciute.
Immobile, a pochi passi dalla finestra, il muso alzato, le orecchie tese, la brava bestia aspettava un ordine.
— Alberto non verrà — disse la bella bambola di porcellana con un sospiro. — Ma troppa paura del cane.
— Doveva venire?
— Non so. Io l’aspetto sempre.
— Lo ami ancora?
— Lo odio. Ma quando passo un certo tempo senza vederlo, sono inquieta. Ho paura.
— T’inganni. Gli vuoi bene.
— Credi?
— Ne sono sicura.
Allora com’è che certe volte vorrei strozzarlo?
Emma sorrise e stava per rispondere, allorchè un fischio partì dal fondo del viale.
— Ah! È qui!
Il cane balzò come sferzato, poi tornò indietro, e continuò il verso, facendo alcuni passi nella direzione da dove era partito il fischio, poi ritornando sotto alla finestra, con un mugolìo minaccioso.
— Alla cuccia! Alla cuccia!
Uff! Egli non dava retta. Fiutava il nemico.
L’uomo intanto veniva avanti timidamente. Nini mandò un debole fischio per incoraggiarlo.
Hector lo prese per un incitamento a lui diretto e si slanciò furente incontro al disgraziato visitatore, che subito retrocesse correndo alla disperata.
Tutti i cani abbaiavano adesso. Nei carrozzoni vicini gli uomini si svegliavano, guardavano fuori.
Ninì rinchiuse la piccola persiana.
— Verrà domani. È una storia che non finirà mai.
— Perchè gli dai retta, se non lo vuoi?
— Come devo fare? È mio marito!
— Allora torna con lui.
— Mi farebbe morire di fame e di legnate. E poi, il papà non vuole più. Sarebbe quasi meglio che i cani lo sbranassero una di queste notti. Sarebbe finita, non ci penserei più; ma finchè c’è, è il mio uomo...
Emma non rispose. Una volta di più dovette convincersi che al pari di altre, quella era una natura incomprensibile per lei.
Ritornarono ai loro lettini e poco dopo Nini s’addormentò, come nulla fosse.
— Aveva bisogno d’una scossa — pensò Emma ascoltando quel respiro calmo, quel buon sonno di bimba.
Lei non poteva dormire. Pensava a Leopoldo chiuso nell’istituto sanitario, insieme ai pazzi; vedeva Paolo Brussieri così giovine, così baldanzoso, immerso nel proprio sangue, là, nella sala da pranzo, a Melegnano, come le aveva raccontato Celanzi. Vedeva le due larghe, sanguinanti ferite nel collo bianco, di cui egli era tanto ambizioso.
Non poteva a meno di compiangerlo.
Era stato un infame con lei, e per di più l’aveva calunniata: due volte infame.
Giustamente Leopoldo Mandelli lo aveva ucciso; giustamente, diceva Celanzi, che, se fosse stato vivo, si sarebbe difeso con nuove calunnie, con nuove menzogne. Sì... Ma quando se lo raffigurava disteso nel proprio sangue, gli occhi spenti, il collo squarciato dal coltello, non poteva a meno di compiangerlo. Lo amava: gli perdonava tutto. Era una follia; ma il suo cuore era fatto così; non poteva dimenticare, nè cessar d’amare quando una volta aveva amato. Forse, se Paolo fosse vissuto, l’avrebbe dimenticato, avrebbe cessato di amarlo; così, non poteva. Ripensava ai primi giorni in cui Paolo si era mostrato nel paese, all’impressione che le aveva fatto subito; all’amore che le dimostrava. E si inteneriva, e non poteva dormire. Se non fosse stata l’Annetta egli avrebbe amato lei, lei sola, e l’avrebbe sposata.
Come tutte le donne veramente appassionate, irragionevoli, ma sincere nel loro amore, ella trovava tutte le scuse per l’amato, mentre gravava di tutte le colpe la fortunata rivale.
La stanchezza finalmente la vinceva. I suoi occhi si chiudevano. Aveva brevi assopimenti, durante i quali i suoi pensieri diventavano sogni. In uno di questi sogni, era in treno, il vapore andava; il suo cuore andava più lesto del vapore. Alla stazione Leopoldo l’attendeva. Ella non voleva abbracciarlo. Era macchiato di sangue: il viso, le mani, il petto... Era il sangue di Paolo! Ma il suo povero babbo la supplicava di abbracciarlo, e piangeva, piangeva. Ella era vinta. Lo stringeva al cuore: perdonava anche a lui.. Chi la guardava così? Chi era quel giovine pallido, dai grandi occhi dolci?... Andrea Celanzi. La guardava come l’aveva guardata quella sera; e Marta era lì e le diceva sottovoce: «Egli ti ama; glielo leggo negli occhi.»
Il breve sopore si rompeva.
Il sogno svaniva.
Era nella sua branda. Nini dormiva profondamente; il sor Gioachino russava, e sempre Hector continuava a mugolare.
Le parole di Marta risuonavano ancora nell’aria: «Egli ti ama...»