Emma Walder/Parte prima/VII

VII

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VII.

a poderosa voce dell’organo che empiva la solitaria e silenziosa via de’ Seervi, giungeva come un soffio armonioso nella cameretta di Emma.

Annetta e sua madre, partite col tram per Milano, l’avevano lasciata sola dopo di averla tormentata con mille piccoli sgarbi e punture di spillo: Annetta, perchè era nervosa; Cleofe, perchè rammentava la scena del giorno innanzi e le occhiate di Paolo. Nulla di più pungente della gelosia di una madre come Cleofe per la rivale di una figlia adorata. [p. 130 modifica]

Emma intuiva i sentimenti della signora Mandelli, e tanto più s’irritava contro il Brussieri.

— Che colpa ne ho io? — gemeva nel suo segreto. — Cosa ho fatto?

Mille progetti confusi le attraversavano la mente. Avrebbe voluto lasciare quella casa. Andare a vivere da sè; non pesare più sugli altri: essere libera. Povera, ma libera. Certi benefici, troppo prolungati, diventano spesso un peso gravoso per chi li fa, una insopportabile schiavitù per chi li riceve. Emma sentiva questa amara verità e si accasciava. A diciasette anni certe verità fanno troppo male.

— Sono una ingrata — diceva con dispiacere, quasi con vergogna. — Non posso sopportare le umiliazioni. Il mio orgoglio si ribella. Ho torto. Sono una poveretta, dovrei fare la serva, e faccio la signora... E ancora mi lagno!

Rammentava i giorni dell’infanzia, il modo con cui era stata raccolta, tenuta in casa dai Mandelli. E come l’avevano allevata, educata, al pari della loro figlia. Il suo pensiero si fermava con speciale tenerezza sul signor Leopoldo, così affettuoso, così nobile. Egli era stato per lei più che un padre. Per lei aveva sfidato i sospetti della moglie, le ostilità dei parenti: per lei, per una estranea, una figlia di zingari. Ricordava certi giorni in cui egli, tristissimo, oppresso da un occulto affanno, la prendeva con sè, la conduceva fuori per la campagna, in carrozza o a piedi. E quando erano [p. 131 modifica]ben lontani sedevano insieme sotto a un albero, presso qualche corrente d’acqua, dove lei si divertiva, mentre egli leggeva o meditava. Quante volte lo aveva visto piangere; quante volte in un parossismo di angoscia, se l’era stretta al cuore, coprendole il viso di baci e di lagrime, che facevano piangere anche lei senza sapere di che.

Povero babbo!

Ella sentiva per istinto che quello era un uomo superiore. Lo paragonava in cuor suo a certi santi, a certi eroi. Ed ora, giunta a un’età in cui capiva di più, sorrideva di quelle ingenuità, ma il sentimento rimaneva il medesimo.

Lo giudicava, come allora, troppo superiore alle persone che lo circondavano: uno spostato del matrimonio; incompreso e disamato dalla moglie... forse tradito. Infelice in ogni caso. Ah! non tutti gli uomini erano prepotenti e vigliacchi, come diceva la signora Cleofe. Non tutti meritavano di essere trattati da cani, come l’aveva sentita dire quella stessa mattina. Suo marito era una eccezione. E lei forse non se n’era mai accorta.

Questa riflessione la portava a considerare un altro lato del carattere di Leopoldo: un lato che le faceva pena, ed era quella difficoltà di manifestarsi come egli era veramente, appena gli entrava il dubbio di non essere inteso con facilità. Quella selvaggia ritrosia le pareva eccessiva e causa di malintesi maggiori. Perchè [p. 132 modifica] aveva preso quell’attitudine di estraneo nella sua casa? Certo, per avere la pace, quello era il mezzo migliore. E tuttavia le pareva che se ella si fosse trovata al posto di lui, avrebbe operato diversamente.

Intanto, lei stessa non sapeva cosa fare. Provava la medesima irresolutezza, il medesimo terrore per ogni determinazione decisiva.

Il ragioniere, scoraggiato affatto, non si era lasciato più vedere. Nè altri la cercavano dacchè si sapeva dei diversi partiti da lei rifiutati.

Forse pensavano che non volesse maritarsi. Forse la maldicenza allontanava da lei ogni altro giovine. Sentiva così in confuso di essere in una di quelle condizioni che la maldicenza attacca più volentieri.

Non provava alcun desiderio di maritarsi; avrebbe voluto attendere prima l’amore.

Ma se non aveva il coraggio di allontanarsi, di fuggire, di tornare zingara, il solo matrimonio poteva farla uscire da quella casa.

Questo era il problema.

Il nome di Andrea Celanzi le venne al labbro senza alcun motivo apparente. Qualcuno aveva detto intorno a lei che egli le faceva la corte. Non era vero.

No. Era certa che Andrea non pensava a lei. Per altri erano le sue visite.

— Se io fossi il babbo lo metterei alla porta — pensò nella sua severità di fanciulla.

E come tutte le fanciulle anche quando non hanno [p. 133 modifica]alcun interesse diretto, provò un oscuro rancore per quella donna maritata che incatenava un giovanotto.

— Povero babbo! — pensò — tu sei così leale!

Si asciugò una lagrima che scendeva, inavvertita, sulla morbida guancia.

Ora voleva andare in chiesa. Avrebbe sentito meglio la musica e si sarebbe distratta, come tante volte.

Suonava il mezzogiorno. Si ricordò che a quell’ora il Brussieri doveva essere a Milano e ne provò piacere, perchè Annetta avrebbe passata una bella giornata e sarebbe ritornata a casa di miglior umore.

Uscì di camera. Scese al primo piano. Chiamò la cameriera per darle qualche ordine; una donna giovane e che non le voleva male, quella cameriera.

Aveva riattraversato il corridoio e stava per imboccare la scala interna, allorché Paolo Brussieri si trovò dvanti a lei.

Un grido le sfuggì.

— È successa qualche disgrazia?! balbettò impallidendo.

— No...

— Allora... Perchè già di ritorno?

— Nessuno è di ritorno. Io non sono partito. [p. 134 modifica]

— Come?... Non dovevano trovarsi insieme a Milano, a mezzogiorno?

— Sì, ma io non sono partito. Ho mandato un telegramma: affari improvvisi.

— Oh! perchè ha fatto questo?... Annetta piangerà tutto il giorno; ritornerà disperata... E proprio senza cuore, lei!

— S’inganna, signorina; io ho un cuore sensibilissimo. Tanto vero che spasimo per lei.

— Non voglio sentirle queste cose! Ha capito?

— Ma perchè, bellezza mia?... perchè?... Se ti dico che ti adoro, che ho amato sempre te, che non voglio che te... Lascia che ti abbracci, amor mio!...

— Se mi tocca, grido; faccio uno scandalo. Vada!... Io devo uscire.

— No, no. Non mi lascio scacciare io. Ti amo... ti amo. E quando io amo una donna, presto o tardi deve essere mia. Vieni qui, cara...

E cercava di afferrarla alla vita.

— Signor Brussieri, guardi quello che fa. Non sono una ragazza da prendere a questo modo. Anche se sono nata povera, non sono abbietta...

— E chi lo dice? Mi è sfuggita qualche parola sgarbata?... Le domando perdono. Non intendo d’insultarla. Voler bene non è mai stato un insulto, o è l’insulto che devono subire cento volte il giorno tutte le belle ragazze. Via, sii buonina, dammi un bacio, niente altro che un bacio. [p. 135 modifica]

— Basta, signor Brussieri. sono stula! Mi lasci passare.

— No. Voglio un bacio.

— Mai.

— Mai? È la tua ultima parola?

— La prima e l’ultima.

— Vedremo.

Così dicendo l’abbrancò per la vita e cominciò a baciarla furiosamente.

Ma Emma Walder aveva ereditato dai saltatori suoi parenti dei saldi muscoli, e l’apparenza delicata del suo corpo celava una forza straordinaria per una donna, e una meravigliosa elasticità. Non le lu dunque troppo difficile respingere il bellimbusto, sgusciargli di mano, gettarsi nella sala e sbattergli l’uscio sulla faccia.

— Ci rivedremo — le gridò il cancelliere tutto vibrante di desiderio. — Non sempre sarai la più forte.... Cattiva!

E se ne andò più incapricciato che mai.

Scendeva mogio mogio pensando sul serio al mezzo più diretto per unire l’utile al dilettevole: la dote di Annetta e l’amore di Emma.

Quando fu in giardino vide il signor Mandelli che rientrava, e pensò con qualche sgomento a quello che sarebbe avvenuto se il suo futuro suocero fosse rientrato alcuni momenti prima.

Leopoldo s’arrestò un istante, sorpreso di [p. 136 modifica]quell’incontro; ma non sentendosi affatto disposto a discorrere con quell’uomo, a lui così poco simpatico, salutò e fece l’atto di tirar diritto.

Brussieri però dal canto suo stimò necessario di dire qualche cosa. Malgrado la sua boria, aveva una certa soggezione del signor Mandelli.

— Ho perso la corsa — disse. — Un maledetto affare mi ha trattenuto in ufficio. Vado adesso. Ha qualche ordine?

— No.... grazie. Si diverta.

— .... E, scusi, signor Leopoldo, la mamma mi ha raccomandato d’insistere perchè Ella venga al nostro pranzo di quest’altra domenica.... il venticinquesimo anniversario: le nozze d’argento....

Molto imbarazzato e molto seccato, il Mandelli rispose col miglior garbo possibile, che non era sua abitudine di accettare inviti, tanto più che la sua salute delicata non gli permetteva di assistere a pranzi troppo lunghi.

— I pranzi lunghi, li usano in provincia — sentenziò il milanese.

Tuttavia sapendo che quella continua astensione del signor Mandelli dispiaceva ai suoi, perchè la prendevano come una mancanza di riguardo, insistette un poco, con bella maniera.

Leopoldo a sua volta cercò di schivarsi con dei complimenti.

Tutti e due mordevano il freno. Le frasi garbate cominciarono presto a farsi agre; e da una parola [p. 137 modifica] pungente ad una esclamazione ironica, la cosa arrivò al punto che il Brussieri esclamò risentito:

— Sa com’è, signor Mandelli, se la nostra parentela non le garba, noi possiamo benissimo fare a meno della sua.

— Ah! tanto meglio! — esclamò il Mandelli, e voltandosi bruscamente entrò nella casa.