Duemila leghe sotto l'America/XXVI. Il lago Titicaca
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | XXV. L'assassino di Smoky | XXVII. Conclusione | ► |
CAPITOLO XXVI.
Il lago Titicaca.
Se il carbone di alcune miniere sviluppa dei gaz mefitici che compongono la così detta mal’aria, se quello di altre sviluppa l’ossido di carbone che provoca delle esplosioni, quasi sempre però limitate, vi è pur quello che sviluppa il gaz detonante o grisou. E questo è il più terribile di tutti. Si trova sempre nelle miniere il cui carbone contiene molto bitume e materie volatili. È una combinazione di idrogeno e di carbonio e quando esce produce uno scoppiettio, che, come si disse, ricorda quello delle acque gazose che sfuggono dalle bottiglie.
Basta allora la rottura di una lampada, un zolfanello acceso, una semplice scintilla per provocare una esplosione delle più spaventevoli. Nulla resiste a tale meteora. Lo scoppio si propaga colla rapidità del lampo per tutta la miniera; rovescia le montagne di carbone, ribalta i carri, sfonda le chiuse, solleva le impalcature, accieca o uccide sul colpo i minatori, spegne le lampade, s’innalza nei pozzi e il torrente di fuoco esce all’aperto con una spinta formidabile. La sua violenza è tale che la temperatura s’innalza tanto da cangiare istantaneamente il carbone delle miniere in coke. E come se ciò non bastasse si espande per tutta la miniera un’atmosfera irrespirabile che asfissia i disgraziati minatori che lo scoppio aveva risparmiati.
Prima dell’invenzione della lampada di sicurezza Davy, tali catastrofi avvenivano di sovente. Ogni anno parecchie centinaia di minatori vi lasciavano la vita.
C’era allora un uomo appositamente incaricato di provocare le esplosioni. Si chiamava il fireman (l’uomo del fuoco), oppure il penitente per la somiglianza del suo abito con quello degli ordini religiosi. Questo minatore, con un capuccio sulla testa, una maschera sul viso, una coperta di lana o di cuoio attorno al corpo e una lunga pertica in mano munita sulla cima d’una fiaccola, si inoltrava nelle gallerie invase dal grisou col viso contro terra per mantenersi nello strato d’aria respirabile1 e provocava le esplosioni che talvolta riuscivano per lui fatali. Quando il grisou di tutte le gallerie era scoppiato, i minatori scendevano nella miniera senza correre alcun pericolo.
Ma accadeva talvolta che non si accorgessero subito della presenza del terribile gaz ed allora accadeva lo scoppio che uccideva quanti uomini lavoravano nelle gallerie.
La lampada dell’assassino, spezzatasi nel cadere, aveva provocato una simile esplosione nella caverna contenente i tesori degli Inchi, già invasa dal grisou sfuggito dalla frana prodotta dallo scoppio della mina.
Sir John, appena il torrente di fuoco uscì dalle gallerie, si levò prontamente in piedi dietro la colonna che in parte lo aveva protetto. I suoi capelli erano stati arsi, le sue mani erano coperte di scottature, i suoi calzoni e la sua giacca abbruciavano. Senza levarsi dalla bocca il tubo che gli forniva l’aria respirabile, si sbarazzò prima di tutto della fiaschetta di polvere che da un istante all’altro poteva scoppiare, poi della giacca e dei calzoni. Ciò fatto girò all’intorno uno sguardo.
Sette od otto colonne giacevano a terra in frantumi; dei massi di carbone, incendiati dal torrente di fuoco, abbruciavano innalzando sempre più la temperatura che l’esplosione aveva già resa ardente; le lampade si erano spente e a dieci passi da lui, l’un accanto all’altro, stavano Burthon, O’Connor e Morgan.
Pallido, col cuore stretto, si avvicinò ai disgraziati compagni. Avevano i volti arsi, gli occhi spenti, le vesti in fiamme. Si chinò sopra di loro; non respiravano più e i loro cuori non battevano più. L’esplosione e l’aria irrespirabile li avevano uccisi.
Un rauco urlo lacerò il petto dell’ingegnere, e quell’energico uomo, forse per la prima volta in vita sua, scoppiò in singhiozzi.
Si inginocchiò accanto agli sventurati e stette alcuni minuti cogli occhi fissi su quegli orribili volti.
Il calore fortissimo che sviluppavano i massi di carbone che continuavano a bruciare lo costrinse ad alzarsi. Rimanere qualche tempo ancora in quel luogo non era prudente. Bisognava che partisse e subito.
Si spinse verso il fondo della caverna per vedere se Carnot era ancora vivo. Il miserabile giaceva fra due enormi massi di carbone accesi, già mezzo arso, irriconoscibile.
Tornò indietro inorridito, si inginocchiò ancora presso i suoi disgraziati compagni come se sperasse di ritrovare in quei corpi un soffio di vita, poi rinchiuse in una bisaccia le sue note, la sua bussola, alcuni viveri, si munì di una lampada e fuggì inoltrandosi in una galleria che saliva rapidamente.
Corse parecchio tempo come un pazzo, poi si arrestò dinanzi ad un largo crepaccio pel quale entrava un fascio di luce.
Si liberò del tubo di cauciù e aspirò una boccata d’aria fresca, vivificante.
— Dove sono? si chiese. O miei poveri compagni!... Poveri compagni!...
Poi si precipitò verso quel crepaccio, lo attraversò e si trovò su di una rupe tagliata a picco, su una vasta distesa d’acqua azzurrina cinta da colli verdeggianti e da superbe catene d’altissimi monti.
— Dove sono?... Dove sono?... ripetè.
Guardò l’ampia superficie d’acqua, le cui onde venivano a infrangersi contro la rupe con muggiti prolungati. In lontananza, alcune barchette, colle vele sciolte al vento, bordeggiavano; più lontano apparivano dei punti bianchi aggruppati sull’estremità di un’isola che pareva molto grande; e ancor più lontano si vedevano altre isole e dei picchi aguzzi, verdi alla base, giallastri o azzurri verso la metà, bianchi come se fossero coperti di neve, sulla cima.
Degli uccelli giganteschi volavano con incredibile velocità al disopra di quelle acque dirigendosi verso quelle lontane catene di monti.
Guardò la rupe su cui trovavasi. Era poco vasta, alta quindici o venti piedi, ed appoggiata al fianco di una montagna tagliata proprio a picco. Salire la montagna era assolutamente impossibile; scendere nel lago non era cosa difficile, ma le sponde non permettevano di approdare.
— È anche a me serbata la morte? mormorò con voce triste. È proprio vero che i tesori degli Inchi portano sfortuna?... Ah! Smoky, quale eredità hai tu lasciato!... Povero Morgan, povero Burthon! povero O’Connor!...
Due lagrime scesero sulle scarne gote dell’ingegnere e un singhiozzo gli lacerò il petto.
Ad un tratto giunsero ai suoi orecchi delle voci umane. Si trascinò sull’orlo della rupe e guardò.
Un gran canotto, girato un promontorio formato dalla montagna, si avvicinava rapidamente. Lo montavano sette uomini, sette indiani dalla pelle rossiccia. Sei erano semi-nudi e remavano, il settimo, coperto da una lunga e bianca veste stretta ai fianchi da una fascia rossa, stava seduto a poppa. Aveva dei braccialetti d’oro ai polsi, dei grandi orecchini rotondi agli orecchi e una penna rossa fissata in una pezzuola che gli girava attorno al capo.
— Aiuto! gridò sir John. Aiuto!...
I sette indiani alzarono la testa. Quattro di essi lasciarono subito i remi e raccolti i fucili che stavano in fondo al canotto li puntarono su di lui gettando urla di rabbia.
Il capo che stava seduto a poppa e che aveva impugnato una scure, con un gesto imperioso fece abbassare i fucili e indirizzò all’ingegnere alcune parole in una lingua sconosciuta.
— Che vuoi? chiese sir John in ispagnuolo.
— Chi sei? domandò allora l’indiano nell’istessa lingua.
— Un povero bianco che chiede aiuto. Che lago è questo?
— Il Titicaca.
— Sono nel Perù adunque?
— L’hai detto. E che fai lassù?
— Te lo dirò. Ricevimi nel tuo canotto e ti darò un regalo.
— Scendi, bianco.
Sir John si strappò di dosso i pochi stracci che lo coprivano, si legò ai fianchi la bisaccia di pelle contenente le sue note, la sua bussola e il suo cronometro e si gettò nel lago. Con quattro bracciate raggiunse il canotto.
Un indiano alzò su di lui una scure pronto a fendergli il cranio, ma il capo gli arrestò il braccio e aiutò l’ingegnere a salire nella barca.
— Non temere, gli disse poi.
— Dove mi conduci? chiese sir John.
— Al mio villaggio, rispose il capo mostrandogli un punto biancastro che spiccava sulla vetta di un monte.
Poi fece un gesto. Gli indiani ripresero i remi e il canotto si rimise in viaggio dirigendosi verso le sponde settentrionali del lago.
Note
- ↑ Il grisou tende sempre ad alzarsi.