Dopo il divorzio/Parte seconda/Cap. IX
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IX.
1908. In casa Porru, nella «camera dei forestieri», Giovanna rimetteva in ordine certe stoffe acquistate quel giorno a Nuoro. Ella s’era ancor più ingrassata e aveva perduto un po’ della sua aria giovanile, conservandosi però bella e fresca.
Guardava attentamente le tele e le stoffe, voltandole e palpandole con aria preoccupata, come scontenta della scelta fatta; poi le piegava accuratamente, le avvolgeva con giornali e le metteva entro una bisaccia.
Erano i preparativi del suo corredo, giacchè, ottenuto già il divorzio, ella doveva sposarsi presto col Dejas.
Ella e sua madre erano venute appositamente a Nuoro per le compre. Il denaro l’avevano preso in prestito, con gran segretezza, da zia Anna Rosa Dejas, sorella di Giacobbe, una donnina che voleva molto bene a Giovanna perchè aveva aiutato zia Bachisia ad allattarla.
Era nel cuor dell’inverno; ma le due donne avevano coraggiosamente sfidato la noia del viaggio faticoso per recarsi a Nuoro e provvedersi di tela, panno, fazzoletti, stoffe.
Le nozze, puramente civili, dovevano farsi con gran segretezza, peggio che nozze di vedova; ma ciò non importava; zia Bachisia voleva che sua figlia entrasse nella nuova casa provveduta di tutto, come una sposa giovinetta di buona famiglia.
Il paese non aveva finito di meravigliarsi e mormorare per lo scandaloso avvenimento, ma dicevasi che un’altra coppia di sposi pensava già di chiedere di comune accordo il divorzio. Molte persone guardavano di mal occhio le Era, qualcuno mormorava esser Brontu malintenzionato verso Giovanna. Giacobbe Dejas, Isidoro Pane, altri amici, non erano più tornati dalle Era, dopo aver loro fatto delle scene quasi violenti. Giacobbe aveva urlato come un cane, minacciando, pregando; ma zia Bachisia l’aveva messo fuor della porta.
Anche zia Porredda, a Nuoro, sebbene suo figlio avesse patrocinato la causa del divorzio di Giovanna, accolse le amiche con freddezza. Invece il «Dottore», come ella chiamava suo figlio, si mostrò cortese e premuroso verso le ospiti.
E Giovanna riponeva le sue cose lentamente, pensierosa. Ma tutti i suoi pensieri e le sue preoccupazioni erano per quegli stracci: ecco, le pareva che nella tela l’avessero un po’ imbrogliata, il fazzoletto di tibet nero a grandi rose cremisi aveva le frangie troppo corte: in un nastro c’era una macchia. Ah, tutto ciò era ben grave!
Calava la sera, come l’altra volta, ma le cose intorno, e il tempo e il cuore, tutto era mutato. Tutto taceva.
La «camera dei forestieri» ora aveva una bella finestra dai cui vetri penetrava la luce viva e fredda del crepuscolo invernale. I mobili nuovi, ancora odorosi di legno verniciato, luccicavano lievemente di uno splendore biancastro, come velati di brina. La porta dava sulla loggia coperta, dalla quale una scala nuova, di granito, scendeva all’antico cortile. Tutta la casa era stata rinnovata. Il «Dottore» faceva affari. Possedeva uno studio nella parte più frequentata della città; era ricercatissimo tanto in civile come in penale; le cause più indiavolate, i delinquenti più vili, tutte le persone che maggiormente temevano i codici, s’affidavano a lui.
Giovanna finì di ripiegare, avvolgere, riporre le tele, le stoffe, i fazzoletti: la bisaccia era colma da ambe le parti, e la giovine la sollevò e la scosse perchè i pacchi calassero meglio a fondo. Poi si mosse, seria, le sopracciglia aggrottate; uscì e scese lentamente la scala, ficcando le mani entro due brevi aperture che la sua gonna d’orbace, come tutte le gonne dei costumi sardi, aveva sul davanti, dalla cintola in giù.
La sera di gennaio era limpida, ma freddissima: sul cielo d’un azzurro vitreo qualche stella argentea pareva tremasse di freddo. Attraversando il cortile, Giovanna vide, dietro i vetri illuminati della stanza da pranzo, il viso bianco e gli occhi ardenti di Grazia, che teneva in mano un giornale di mode. La fanciulla s’era fatta alta e bella: vestiva all’ultima moda, con quelle certe grandi ali di merletto, allora in voga, che si partivano dalla sommità delle spalle, dietro le maniche, costringendo le donne a passar di traverso in un uscio semi-aperto, ma in ricambio assomigliandole a tanti angeli non ancora decaduti.
Grazia vide l’ospite e la salutò con un sorriso, ma non si mosse. L’ospite entrò in cucina. Anche questo ambiente era stato rinnovato: le pareti bianche, i fornelli di mattoni lucidi, una lampada a petrolio pendente dalla volta.
Zia Bachisia non saziavasi di guardare intorno, coi due punti verdi brillanti nel suo viso giallo d’uccello rapace, cerchiato dalla benda nera. Ah, no, essa non era cambiata, la vecchia strega! Sedeva accanto al fuoco, vicino alla serva, una ragazzaccia poco pulita, scarmigliata, che rideva forte mostrando i denti sporgenti. Zia Porredda cucinava e sgridava la serva per quel suo modo di ridere. Ecco, la padrona cucinava e la serva sedeva accanto al fuoco e rideva. Che volete farci? miserie del mondo. Eppoi la brava donna non poteva stare un solo momento in ozio, sebbene ora fosse madre d’un avvocato di grido.
Giovanna si sedette lontana dal fuoco, un po’ curva, sempre con le mani entro le aperture della gonna.
— Ecco — disse zia Bachisia, con accento d’invidia — questa cucina sembra una sala. Tu dovrai far accomodare così la tua cucina.
— Ah, sì — ella rispose distratta.
— Anima mia, sì, sicuro! Comare Malthina è avara, ma bisogna che tu le faccia capire che i denari sono fatti per essere spesi. Ecco, una cucina così! È un paradiso, anima mia; questa è la vita!
— Perchè dite sempre anima mia? — chiese la serva sciocca.
— Se ella non vorrà spendere, padrona! — disse Giovanna. — I denari son suoi. — E sospirò.
La serva rise ancora, ma zia Porredda, che non voleva immischiarsi nei discorsi delle ospiti, si volse severa e le impose energicamente di grattare il formaggio pei maccheroni. La serva obbedì.
— Che hai? — chiese zia Bachisia alla figlia, che sospirava.
— Ah, ella ricorda! Non è possibile che ella non ricordi. Dopo tutto è una cristiana, non è un animale! — pensava zia Porredda.
Giovanna disse rabbiosa:
— Ebbene, ecco, ci hanno imbrogliato. La tela non è buona, il panno è macchiato. Ah, quella macchia!
— Anima mia! — esclamò la serva, imitando la voce di zia Bachisia. E grattava, grattava il formaggio.
Zia Porredda sfogò sopra la ragazzaccia tutta la sua ira, tutto l’orrore che le ospiti le destavano: le diede i nomi che avrebbe voluto dare a Giovanna, la chiamò svergognata, vile, miserabile, ingrata, e minacciava di percuoterla con la mestola. Per la paura la servetta si grattò un dito e scosse in alto la mano sanguinante. In quel momento rientrò zoppicando lievemente il giovine avvocato, avvolto in un lungo e larghissimo soprabito nero, che pareva un mantello con le maniche: il suo piccolo viso roseo e tondo, dai baffetti biondastri, esprimeva una contentezza egoista da bambino lattante.
Domandò subito cosa c’era da mangiare, poi si degnò sedersi presso zia Bachisia, e chiacchierò fino all’ora della cena.
Dopo di lui rientrò, rossa, ansante e scarmigliata, la nipotina Minnìa, che andò a buttarsi seduta presso la serva (l’altro bambino era morto da tre anni), vestiva benino, di flanellina rossa e nera, ma aveva le scarpe rotte, le mani sporche. Ritornava da un orto attiguo, ove scorrazzava tutto il giorno; e subito cominciò a confabulare con la serva, confidandole qualche cosa con voce bassa e ansante.
— Anima mia! — rispondeva la serva sullo stesso tono.
Poi rientrò zio Efes Maria col suo faccione di marmo vecchio e le grosse labbra aperte, e volle andar subito a cena. Nella stanza da pranzo scintillavano due alte credenze di legno giallo: l’ambiente era discretamente signorile, con corsie sul pavimento, stufa, ecc. Zia Porredda, coi suoi grossi piedi dalle scarpe ferrate ci si muoveva a disagio: zio Efes Maria non rifiniva di guardarsi attorno con compiacenza; Grazia, alta, elegante, si seccava ogni volta che i parenti penetravano là, ove ella leggeva avidamente la Moda Unica, la Piccola Parigina e la parte mondana, anzichenò immoraletta per i cattivi sogni che fomentava, di un giornale per le famiglie. Ah quegli abiti scollati, ricamati di capelli, quelle giacchette a thait trapuntate d’oro, quelle camiciette con le grandi ali di merletto d’argento e di brillanti chimici simili alla rugiada, ah quei cappelli di frutta, e i lunghi boa di fiori, e le trine per sottane, a trenta lire il metro, e i guanti dipinti, ed i ventagli di pelle umana!... ah come tutto ciò era bello, orribilmente bello, terribilmente bello! Ecco, leggendo quelle cose si provava come un sogno spasimante, tanto erano belle. Dopo aver letto ciò, tutto il resto pareva brutto, e la buona nonna, dal viso di vecchio grasso, e il nonno imponente che si guardava intorno con contadinesca compiacenza, erano semplicemente seccanti.
Come in una sera lontana, zia Porredda entrò portando in trionfo i maccheroni fumanti. E tutti si sedettero attorno alla mensa ospitale.
Zia Bachisia sedette all’ombra delle ali di Grazia, e ricominciò a far le sue meraviglie appunto per quelle ali.
— No, da noi non se ne sono viste mai; già che signore non ce ne sono, da noi. Qui sembrate tutte angeli, le signore...
— O pipistrelli... — disse zio Efes Maria. — Eh, la moda, cari miei! Ecco, una volta, mi ricordo, quando ero bambino, le signore erano grandi e rotonde, che sembravano capanne. Ce n’erano poche allora, signore. La moglie dell’intendente, le dame...
— E poi quella cosa dietro... — interruppe zia Porredda — ah, mi ricordo, pareva una sella. Ebbene, sì, voi non lo credete, in fede mia, ricordo che una volta uno ci si sedette sopra...
— L’ultima volta che venni — disse zia Bachisia — queste ali erano piccine. Ora crescono... crescono...
Grazia mangiava e pareva non udisse nulla.
Il «dottore» mangiava anch’egli a due palmenti e guardava la nipote con quella sua aria di bambino beato, sorridente. Disse:
— Crescono, crescono... Fra poco spiccheranno il volo... — Grazia alzò le spalle, o meglio le ali, e non rispose e non sollevò gli occhi. Ecco, ella trovava insopportabile il suo giovine zio, il suo primo antico sogno: e poco male insopportabile, lo trovava ridicolo, qualche volta.
Tutta la città affermava che zio e nipote dovevano sposarsi: e lui, il «dottore», interrogato non diceva nè sì, nè no.
Per un bel poco si parlò di cose inconcludenti; ogni tanto zia Porredda s’alzava di tavola e usciva e rientrava: ogni tanto la conversazione moriva, e un silenzio quasi impacciato regnava. Come l’altra volta si cercava evitare l’argomento che più interessava le ospiti, e queste, dopo tutto, non se ne trovavano scontente. Ma fu la stessa zia Bachisia che, senza volerlo, provocò l’ingrata conversazione, domandando se era vero ciò che tutti affermavano: il matrimonio del «dottore» con la nipote.
I Porru si guardarono l’uno con l’altro, mentre Grazia curvava vie più la faccia sul piatto, — e risero, piano, piano.
Paolo guardò la fanciulla, e disse con ironia non del tutto allegra:
— Eh no! Ella sposerà l’illustrissimo signor sottoprefetto.
Ella sollevò e riabbassò rapidamente la faccia, aprendo le labbra; si videro i suoi occhi lampeggiare e la sua fronte arrossire. — È vecchio! — disse Minnia. — Io lo conosco, sì; passeggia sempre alla stazione. Ih! ha una lunga barba rossa. E il cilindro.
— Ah, anche il cilindro?
— Sì, il cilindro: è vedovo.
— Chi è vedovo? Il cilindro?
— Tu stai zitta — disse energicamente la fanciulla, volgendosi alla sorella.
— No, io non sto zitta! Eppoi è anche un frammassone: egli non battezzerà i figli, non sposerà in chiesa. No, è così! In chiesa non ti sposerà.
— La signorina è bene informata! — disse zio Efes Maria, sempre pulito.
E allora zia Porredda, che ascoltava intenta, e che aveva a stento rattenuto un grido alla parola «frammassone», agitò le braccia e proruppe:
— Sì, un frammassone! Sì, di quelli che pregano il demonio; sì, in fede mia, mia nipote sarebbe disposta a prenderselo lo stesso! Siamo tutti in perdizione. Ebbene, Grazia legge i cattivi libri, i giornali indemoniati, e non vuole più confessarsi. Ah, quei libri proibiti! Io perdo il sonno pensandoci. Ebbene, ecco cosa voglio dire; Grazia legge i libri cattivi: Paolo, lo vedete, quello lì, dottor Pededdu, quello lì ha studiato in continente, dove non si crede più in Dio: sta bene, cioè sta male, ma si capisce un poco perchè queste due creature non credano più in Dio. Ma noi che non sappiamo niente di libri, noi che non siamo stati mai in ferrovia — quel cavallo del demonio — perchè non crediamo più in Dio, nel nostro Signore buono che è morto per noi sulla croce? Perchè, domando io, perchè? Ma perchè? Perchè tu, Giovanna Era, vuoi sposarti civilmente con un uomo, mentre hai un altro marito?
Le parole di zia Porredda caddero intorno, sulla testa degli astanti, come pesanti palle di ferro.
Grazia, che sorrideva per le parole della nonna, giocherellando con pezzetti di pane, sollevò il volto, fattosi serio. Paolo, che intrecciava le punte della forchetta col coltello, sorridendo per le parole della madre, fece un atto brusco, e zio Efes Maria, col viso atteggiato a mascherone tragico, guardò acutamente Giovanna.
Giovanna arrossì, ma disse cinicamente:
— Io non ho marito, zia Porredda mia: domandatelo a vostro figlio.
— Io non ho figlio; quello è figlio del diavolo! — disse la donna, arrabbiata.
Ah, quasi quasi pareva che Giovanna desse la responsabilità dei suoi atti a Paolo, perchè questo aveva patrocinato la causa del divorzio!
Allora tutti risero della stizza di zia Porredda, tutti, compresa Minnìa, compresa la servaccia, che entrava portando il formaggio.
Nonostante la sua collera, zia Porredda prese il formaggio e lo passò gentilmente a zia Bachisia.
— Anima mia, — disse costei, tagliando attentamente una fetta di formaggio (e la sua voce era dolente) — voi siete buona come il pane, ma voi state bene a casa vostra, voi siete ricca, avete una casa che sembra una chiesa, avete un marito forte come una torre (eh! eh! raschiò zio Efes Maria), siete circondata da una corona di stelle, eccole; ed ecco perchè voi parlate così! Ah, se voi sapeste cosa è la miseria; e il pensare di dover mendicare, alla vecchiaia! Capite, alla vecchiaia!
— Brava! — disse Paolo. — Datemi un coltello pulito.
— Questo non importa, Bachisia Era! — replicò zia Porredda. — Voi diffidate della divina provvidenza, appunto perchè non credete più in Dio. Cosa ne sapete voi se mendicherete o sarete ricche? Non tornerà Costantino Ledda?
— Mendicherà anche lui! — disse freddamente zia Bachisia.
— Eppoi Dio sa se tornerà! — osservò brutalmente l’avvocato, prendendo il coltello che la serva gli porgeva per la punta.
Si sapeva che Costantino era malato, si diceva anzi fosse tisico.
Per parer commossa, e forse lo era, Giovanna nascondeva il viso fra le mani: due volte disse, eccitata:
— Del resto, se io sposo soltanto civilmente, è perchè... — e si interruppe.
— Ebbene, dillo pure! — esclamò Paolo. — Sposi soltanto civilmente perchè i preti non ti vogliono sposare religiosamente. Essi non capiscono, non arrivano a capire, come non arrivate a capire voi, mamma Porredda! D’altronde, che cosa è il matrimonio? È un vincolo fatto dagli uomini, e che conta soltanto davanti agli uomini. Il matrimonio religioso è nullo...
— È un sacramento! — gridò disperata zia Porredda.
— ... È nullo — proseguiva Paolo — come, del resto, un giorno sarà nullo anche il matrimonio civile. L’uomo e la donna devono unirsi spontaneamente, dividersi quando non vanno d’accordo. L’uomo...
— Ah, tu sei un animale! — gridò zia Porredda, sebbene non fosse quella la prima volta che suo figlio parlasse così. — È il finimondo, questo. Ah, Dio è stanco, ed ha ragione. Egli ci castiga e farà venire il diluvio: già, ho sentito dire che c’è il terremoto.
— Il terremoto c’è sempre stato — osservò zio Efes Maria, che non si sapeva se propendesse dalla parte della moglie o da quella del figlio. Forse intimamente propendeva per la moglie, ma non voleva dimostrarlo per non scapitare nella stima del figlio «letterato».
Paolo tacque, già pentito di quello che aveva detto; voleva troppo bene a sua madre per farla arrabbiare inutilmente.
Giovanna si tolse le mani dal volto e parlò, con dolcezza umile:
— Ecco, quando ci siamo sposati, con quel disgraziato, ci siamo sposati soltanto civilmente, e se egli non veniva arrestato, chi sa quando avremmo celebrato il matrimonio religioso. E perciò non eravamo marito e moglie? Nessuno diceva niente, e Dio, che vede le circostanze della vita, non si offendeva...
— Ma vi ha punito! — disse zia Porredda.
— Questo sta a vedersi — strillò zia Bachisia, che cominciava a schizzar fiele. — O per questo o per la morte di Basilio Ledda.
— In tal caso avrebbe castigato soltanto Costantino...
— Ebbene? — disse la strega dagli occhi verdi trionfanti. — Non vuol dire che il castigo di Giovanna mia è finito, se Dio le manda la fortuna di sposarsi ad un giovine che le vuol bene, che le farà dimenticare ogni dolore sofferto?
— E ricco! — osservò zio Efes Maria. E non si sapeva se parlasse sul serio o per sarcasmo.
Giovanna aveva perduto il filo del suo discorso, ma volle concludere lo stesso, con voce dolce ed umile:
— Ah, zia Porredda mia! voi non sapete! Dio vede i cuori: Egli mi perdonerà, se vivrò in peccato mortale, perchè la colpa non sarà mia. Io vorrei ben sposare religiosamente, ma non si può.
— Perchè sei già sposata ad un altro, figlia del diavolo!
— Ma se questo è come morto, ditemi voi? Se questo non può aiutarmi a vivere! Se gli uomini della giustizia, che sono istruiti e sentono le necessità della vita, sciolgono il matrimonio civile, perchè gli uomini di Dio non potrebbero sciogliere il matrimonio religioso? Possibile che non la capiscano? Anche quel prete Elias Portolu che è da noi, che è tanto buono, voi lo conoscete, — che parla come un santo e non s’arrabbia mai, ebbene anche lui dice: no, no, no! Il matrimonio deve essere soltanto sciolto dalla morte! — E andate a farvi benedire, allora, se non comprendete la ragione! Vivere bisogna, sì o no? E quando non si può vivere, quando si è poveri come Giobbe? Quando non si ha lavoro, non si ha nulla, nulla, nulla? Ma ditemi voi, zia Porredda, e se in me fosse stata un’altra donna? E se non ci fosse stato il divorzio? Ebbene, che sarebbe accaduto? Il peccato mortale; sì, allora sarebbe accaduto il peccato mortale!
— Il peccato mortale! E poi la miseria, nella vecchiaia — ripetè zia Bachisia.
La serva portò la frutta: uva passa nera e lucente, pere raggrinzite gialle come foglie d’autunno.
La vecchia padrona porse il cestino delle frutta alla vecchia ospite, e la guardò con indicibile sguardo di compassione. Ecco, tutta la sua collera, il suo sdegno, il suo disprezzo cadevano davanti alla vile debolezza di quelle due donne. Disse mentalmente: — San Francesco bello, perdonatele perchè sono ignoranti, perchè sono selvatiche e vili.
Poi disse con voce raddolcita:
— Siamo vecchie, Bachisia Era: ed anche tu diventerai vecchia, Giovanna Era. E ditemi una cosa, ora. Cosa c’è dopo la vecchiaia?
— La morte.
— La morte. Sicuro, c’è la morte. E dopo la morte cosa c’è?
— L’eternità — disse Paolo, ridendo piano, piano, mentre mangiava l’uva passa come un bimbo goloso, accostandosi il grappolo alla bocca e strappando gli acini coi piccoli denti.
— L’eternità. Sicuro, c’è l’eternità. Perchè te ne vai Minnìa? resta lì... (Ma la ragazza, annoiata, andò via). Cosa dici tu, Giovanna Era, c’è o no l’eternità? Bachisia Era, c’è o no?
— C’è — risposero le ospiti.
— C’è, ma voi intanto non pensate all’eternità.
— È inutile pensarci... — disse Paolo, alzandosi e pulendosi la bocca col tovagliuolo. Egli doveva andarsene; s’era indugiato troppo per quelle due donne che, dopo tutto, lo interessavano soltanto perchè dovevano ancora pagarlo.
— C’è gente che mi aspetta nello studio, c’è gente. Ci rivedremo; voi non partirete.
— Domani mattina all’alba...
— Macchè! Voi resterete... — diss’egli con voce indifferente, indossando il suo immenso soprabito: e quando egli ebbe indossato il soprabito, zia Bachisia lo fissò coi suoi occhietti verdi e pensò che il piccolo dottore, con quel paludamento, pareva una magìa, cioè una di quelle figurine ridicole eppur terribili che le maliarde fabbricano a scopo di magìa.
Egli andò via, e dopo di lui uscì dalla camera anche la signorina Grazia, che non aveva mai parlato durante la cena, e zio Efes Maria si accomodò di traverso sulla sedia, accavalcò le gambe e cominciò a leggere la «Nuova Sardegna».
In cucina s’udirono le ragazze ridere forte: e fra le tre donne, che mangiavano tre pere, regnò un grave silenzio. Qualche cosa pesava su di loro; sì, anche su zia Porredda che con la sua intuizione primitiva sentiva che l’anima delle selvatiche ospiti e l’anima dei suoi civili discendenti era ammorbata dallo stesso male.