Don Chisciotte della Mancia Vol. 2/Capitolo III
Questo testo è completo. |
Miguel de Cervantes - L'ingegnoso idalgo don Chisciotte della Mancia Volume secondo (1615)
Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
Capitolo III
◄ | Capitolo II | Capitolo IV | ► |
CAPITOLO III.
Del ridicoloso discorso tenuto tra don Chisciotte, Sancio Panza e il baccelliere Sansone Carrasco.
D
on Chisciotte era rimasto assorto in gravi pensieri aspettando il baccelliere Sansone Carrasco da cui attendeva il ragguaglio di ciò che di lui si narrasse nel libro annunziatogli da Sancio Panza. Non potea persuadersi che la sua istoria avesse veduto la luce del mondo, mentre la sua spada era tuttacia intrisa e grondante del sangue dei nemici ch’egli s’immaginava di avere ammazzati; e se con tutto ciò volava per ogni dove la storia delle grandi sue geste cavalleresche, questo doveva avvenire solo per incantesimo di qualche savio o amico o nemico: amico per ingrandirle ed innalzarle sopra le più segnalate di cavaliere errante; nemico per annichilarle e metterle al di sotto delle più vili che fossero state mai scritte di inglorioso scudiere. Dopo tutto questo andava fra sè stesso dicendo: “Eppur delle imprese degli scudieri non si è mai usato di fare menzione in iscritto; e quand’anche vi fosse una tale istoria, dovendosi riferirla ad errante cavaliere, dovrebbe essere per necessità eloquentissima, alta, insigne, magnifica, veritiera. Lo consolavano un poco queste riflessioni, ma si trovava poi sconfortato pensando che n’era Moro l’autore, poichè avea il nome di Cide, nè dai Mori attender poteasi verità alcuna, essendo tutti imbrogliatori, falsarii e lunatici. Temeva che non si fosse parlato degli amori suoi colla più rigorosa decenza, e che ne avesse quindi a ridondare pregiudizio ed oltraggio alla onestà della sua signora Dulcinea del Toboso: almeno bramava che fosse stata posta in chiaro lume la sua fedeltà e il decoro che aveale gelosamente serbato, sprezzando per tale suo idolo, regine, imperatrici e donzelle di ogni condizione, e infrenando gl’impulsi suoi naturali. Stando così in queste ed in altre molte immaginazioni, giunsero a lui Sancio e Carrasco, il quale molto cortesemente fu accolto da don Chisciotte. Il baccelliere, quantunque si chiamasse Sansone, non era molto alto di statura, ma volpe fina, di colore macilento e di scaltrito giudizio. Contava l’età di ventiquattr’anni, aveva faccia tonda, naso schiacciato e bocca grande: indizii tutti di uomo malizioso e amico delle galanterie e degli scherzi; ed egli ne diede subito una chiara prova allorchè, vedendo don Chisciotte, se gl’inginocchiò dinanzi e gli disse: — Mi dia la grandezza vostra a baciare le mani, signor don Chisciotte della Mancia, che per l’abito di san Pietro ch’io porto indosso, quantunque io non abbia ricevuto che i soli primi quattr’Ordini, giuro che vossignoria è uno dei più famosi cavalieri erranti che sieno stati o possano mai trovarsi in tutta la rotondità della terra. Benedetto sia Cide Hamet Ben-Engeli che lasciò scritta la istoria delle prodezze di vossignoria, e più benedetto ancora sia quel dotto curioso che pigliò la fatica di recarle dall’arabo nel nostro idioma castigliano, affinchè ne avessero le genti universale trattenimento„. Lo fece rizzare don Chisciotte, e così gli rispose: — È egli vero dunque che corre per lo mondo la mia istoria, e che la compose un Moro incantatore? — Tanto è vero, signor mio, disse Sansone, che porto opinione che al dì d’oggi siano già stampati più di dodicimila esemplari di questo libro; e se non crede a me dicanlo il Portogallo e Barcellona e Valenza dove furono impressi. Corre poi fama che se ne stia facendo una impressione anche in Anversa, e a me pare certissimo, che non si darà nazione nè lingua in cui non si abbia a tradurlo. — Una delle cose, disse don Chisciotte a tal punto, che debbono recare più consolazione ad uomo virtuoso ed eminente, quella si è di vedersi vivente stampato in diversi idiomi, ed arricchito e di celebrità e di buon nome nelle lingue degli uomini: dissi di buon nome, perchè in caso diverso, nessun genere di morte sarebbe peggiore del suo tormento. — Se si tratta di alto nome e celebrità, rispose il baccelliere, vossignoria toglie la palma a tutti i cavalieri erranti; perchè il Moro nel proprio idioma, e il Cristiano nel suo, si diedero la più viva premura di rappresentar molto al naturale la sua gagliardia, lo strepitoso suo coraggio nell’affrontare i pericoli, la sofferenza nelle traversie, la tolleranza sì nelle contrarie vicende come nelle percosse ricevute, e l’onestà e la continenza negli amori platonici di vossignoria colla signora donna Dulcinea del Toboso. — Giammai, replicò allora Sancio, ho inteso chiamare col Donna la mia signora Dulcinea del Toboso, ma Signora semplicemente, ed in questo comincia a sbagliar la istoria. — Questa non è obbiezione di alcuna importanza, rispose Carrasco. — No per certo, don Chisciotte soggiunse; ma dicami la signoria vostra, signor baccelliere: quali sono le mie prodezze di cui si è creduto di far maggior conto in codesta opera? — Variano in ciò le opinioni, rispose il baccelliere, a seconda dei gusti diversi. Alcuni vogliono preferita la ventura dei mulini da vento che sembrarono alla signoria vostra giganti e briarei; altri quella delle gualchiere; questi prediligono la descrizione dei due eserciti che poi erano due branchi di montoni; altri tiene in gran pregio la ventura del morto ch’era condotto a seppellire in Segovia; uno sostiene che va sopra ogn’altra la liberazione dei galeotti; un altro che nessuna sta a petto di quella dei due giganti benedettini colla quistione del valoroso Biscaino. — Favorisca dirmi, Sancio soggiunse: si parla mai della ventura dei mulattieri ianguesi, quando il nostro buon Ronzinante s’invoglio di procacciarsi anche egli avventure? — Nulla, rispose Sansone, ha omesso quel savio: racconta ogni cosa con fedeltà, con esattezza, nè tacque neppure le capriole che fece il buon Sancio sulla coperta. — Io non ho fatto capriole sulla coperta, rispose Sancio, ma per aria, e furono più del bisogno. — A quanto mi figuro, disse don Chisciotte, non vi è storia al mondo che non abbia il suo pro e contra, quelle massimamente che trattano di cavalleria, le quali non possono essere sempre piene di fortunati avvenimenti. — Con tutto ciò, replicò il baccelliere, dicono alcuni che hanno letta la istoria, che avrebbero desiderato di vedere dall’autore poste in dimenticanza le bastonate infinite date in diversi incontri al signor don Chisciotte. — Queste sono verità, disse Sancio, e non potevano essere trascurate da chi racconta. — Poteano per altro tacerle per giustizia, disse don Chisciotte, perchè le azioni dalle quali non viene cangiata od alterata la storia, possono passarsi sotto silenzio quando tendano a mettere in discredito il protagonista: e per mia fede che non fu Enea sì pietoso come cel dipinge Virgilio, nè si prudente Ulisse come ci viene descritto da Omero. — Dice benissimo vossignoria, soggiunse Sansone; ma altro si è lo scrivere poeticamente, altro il farlo storicamente: è lecito al poeta raccontare o cantare le cose non già quali furono, ma quali avrebbero dovuto essere; mentre lo storico in vece ha da scriverle non già come avrebbero dovuto essere, ma quali realmente furono senz’alterare un punto solo la verità o con mutazioni o con aggiunte. — Se è obbligo che questo signor autore Moro racconti il vero, disse Sancio, egli è indubitato che dee fra le bastonate del mio padrone far menzione anche di quelle da me ricevute, mentre non furono a sua signoria macinate giammai le spalle senza che fosse pesto anche a me tutto il corpo: nè è da farsene maraviglia, perchè, come dice il medesimo mio padrone, le membra hanno da partecipare nel dolore della testa. — Tu sei un furbo, Sancio volpone, rispose don Chisciotte; e in verità che non ti manca memoria quando ti giova l’averla. — Se anche mi sforzassi, disse Sancio, a volermi dimenticare delle bastonate ricevute, non mel permetterebbero le lividure ancora fresche fresche sulle mie costole. — Taci, Sancio, don Chisciotte soggiunse, e non interrompere il signor baccelliere, chè io lo prego di seguitare a mettermi al fatto di tutto quello che di me si dice nella riferita mia istoria. — E di me ancora, disse Sancio, chè dicono che sono uno dei suoi principali personagli. — Personaggi (soggiunse Sansone) e non personagli dovete dire, amico Sancio. — Oh! mancava anche questo altro rinfacciatore di bocaboli, soggiunse Sancio: seguiti pure ad emendarmi che non la finiremo mai più. — Dio non mi dia bene, rispose il baccelliere, se voi non siete il secondo personaggio di quella istoria: ed avvi taluno cui vanno a sangue i vostri ragionamenti anche più di quelli di ogn’altro ivi introdotto, tuttochè vi sia chi vi taccia di soverchia credulità nel tenere per vero il governo di quell’isola promessavi dal signor don Chisciotte qui presente. — Splende il sole per dar luce anche alle più riposte muraglie, disse don Chisciotte; e quando Sancio sarà avanzato in età, mercè la sperienza degli anni diverrà più accorto e più idoneo di quello che presentemente non sia per esercitare la carica di governatore. — Oh povero me! soggiunse Sancio, se non sapessi governare un’isola cogli anni che ho indosso, non ne sarei più capace se vivessi gli anni di Matusalemme: il male si è che questa benedetta isola è stata trattenuta non si sa dove, non già che manchi a me buona testa per governarla. — Rimettiti nel Signore, disse don Chisciotte, che fa tutto per lo bene e per lo meglio, non movendosi foglia di arbore senza il voler di Dio. — E questo è vero, disse Sansone, chè se Dio vorrà non mancheranno a Sancio mille isole da governare, non che una sola. — Ho veduto una qualche volta, disse Sancio, dei governatori che, a quanto mi pare, non valgono la suola delle mie scarpe, e con tutto ciò si rende loro ogni omaggio, e sono serviti in argento. — Questi tali, replicò Sansone, non sono già governatori d’isole, ma di altri più manuali governi; chi è destinato a reggere isole dee per lo meno sapere gramatica. — Di grama mi par di sapere qualcosa, ma di tica confesso che non me ne intendo punto nè poco; ma lasciando l’affare del governo nelle mani di Dio, il quale disporrà di me a suo beneplacito, soggiungo, signor baccelliere Sanson Carrasco, che mi piace moltissimo che l’autore dell’istoria abbia fatto menzione di me in maniera che le cose da lui narrate intorno alla mia persona non sieno tali da infastidire i lettori. Da vecchio cristiano che sono, e da buono scudiere vi giuro che se avesse colui detto cose di me meno che proprie ci avrebbero sentiti i sordi! — Questo sarebbe far miracoli, rispose Sansone. — Miracoli o non miracoli, rispose Sancio, guardi ognuno come parla e come scrive delle persone, e non dia di piglio alla penna per raccontare fantasticamente e a suo capriccio i fatti altrui. — Una delle accuse apposte a quella istoria, disse il baccelliere, si è che il suo autore vi ha inserita una novella intitolata il Curioso indiscreto, non perchè sia dispregevole e priva di buon senso, ma perchè mal si conviene in quel luogo, non avendo punto che fare colla storia di sua signoria il signor don Chisciotte. — Io rinnegherei me stesso, replicò Sancio, quando vedo a questo modo immischiati i cavoli con le sporte. — Oh adesso sì ch’io sostengo, disse don Chisciotte, che non sia stato un savio l’autore della mia istoria, ma sì bene qualcuno di questi ignoranti cicaloni che senza verun proposito si accingono a scrivere, esca quello che vuole uscire: e si può rassomigliarlo ad Orbaneja, il pittore di Ubeda, che interrogato di quello che dipingesse, rispose: quello che verrà fuori; ed una volta dipinse un gallo sì sconciamente, che bisognò scrivervi sotto con caratteri gotici: questo è un gallo. Così per appunto accadrà della storia mia cui sarà necessario appiccare un buon commento perchè sia intesa. — Non vi sarà questo bisogno, rispose Sansone, perchè ha il merito di tanta chiarezza che non v’è mai un passo difficoltoso. L’hanno tra le mani i fanciulli, dai giovani è letta, è intesa dagli adulti, ne fanno elogio i vecchi, ed è infine sì trita e nota e divulgata presso ogni sorta di gente, che appena s’imbattono in un magro ronzino, e subito gridano: ecco là Ronzinante; e i paggi specialmente sono coloro ai quali più che ad ogni altro va a sangue la sua lettura. Non havvi anticamera di signore dove non si trovi un don Chisciotte: uno lo piglia se un altro lo lascia, e se lo rubano dalle mani; e per dire tutto in un fiato procura questa istoria il più dilettevole e innocente trattenimento che fin ora si sia trovato, non riscontrandovisi mai neppure per ombra una licenziosa parola od una proposizione meno che cattolica. — Se fosse scritta altrimenti, disse don Chisciotte, potrebbe tacciarsi a buon diritto di menzognera; e gli storici che non si attengono alla verità, meritano di essere dati alle fiamme come i fabbricatori di monete false. Non posso poi immaginare per qual motivo l’autore si sia condotto ad inserirvi novelle straniere alla narrazione, quando le cose spettanti a me gli potevano bastar a dovizia. Egli dovea attenersi al proverbio: della paglia e del fieno ecc., e in verità che col solo manifestar i miei pensamenti, i miei sospiri, le mie lagrime, gli onesti miei desiderii e le mie ardite prodezze, aveva largo campo di comporre un volume molto maggiore, o di tale grandezza da equivalere nella mole alle opere tutte scritte dal Tostato1. In somma io penso, signor baccelliere mio, che per comporre storie o libri di qualsivoglia natura, siavi d’uopo di un gran giudizio e di maturo discernimento: e che sia proprio unicamente di alti ingegni lo scrivere opere graziose e leggiadre. Il più difficile personaggio di una commedia è quello di chi fa la parte dello sciocco; perchè non deve essere uno stolto da vero chi si propone di parer tale. La storia è come una cosa sacra: debb’essere vera; dov’è la verità v’è Iddio Signore quanto alla verità: ciò null’ostante vi sono taluni che scrivono libri sine fine, e li cavano dal loro cervello sì spensieratamente come se fossero paste fritte. — Non trovasi, disse il baccelliere, libro sì sciaurato che in sè non contenga qualche cosa di buono. — Non mi oppongo, soggiunse don Chisciotte, ma sovente accade che taluno che godea un’alta riputazione per i suoi scritti finchè li tenne presso di sè, la perdette poi nel darli alle stampe, o se non altro la oscurò di assai. — Questo nasce, riprese Sansone, perchè si conoscono i difetti dei libri tostochè si può fare su di essi matura ponderazione; e tanto più si vanno scrutinando quanto è più grande la fama degli autori che gli hanno composti. Gli uomini chiari per sommo ingegno, i grandi poeti, gli storici illustri, o sempre o per lo più, sono invidiati da quelli che attendono solo a scardassare le opere altrui senz’aver essi dato mai una pagina sola alla luce del mondo. — Ciò non dee recar maraviglia, disse don Chisciotte, essendovi molti teologi non atti alla predicazione, ma esperti a conoscere gli errori e i mancamenti di quelli che predicano. La cosa cammina per lo appunto come voi dite, o signor don Chisciotte, soggiunse Carrasco; ma io vorrei che tali censori fossero più indulgenti e meno scrupolosi, e non istessero ad appuntare qualche macchiuzza nel chiarissimo sole di quell’opera della quale mormorano: che se aliquando bonus dormitat Homerus, pongano mente al molto tempo in cui stette desto l’autore per dare la sua fatica alla luce colle minori macchie che avesse potuto: e forse potrebbe anche esser che quello che ad alcuni suona male, fosse alcuna ombra aggiunta per accrescer il bello, come que’ nèi che talvolta rendono più gustosa la vaghezza di un viso. Tengo dunque per fermo che molto avventura chi espone uno scritto alla critica del mondo, essendo impossibile comporlo tale da render soddisfatti e contenti quelli tutti che lo leggeranno. — Il libro che tratta della mia persona, disse don Chisciotte, pochi avrà per certo appagato. — Anzi al contrario, lo interruppe Carrasco; chè siccome stultorum infinitus est numerus, così infiniti sono quelli che l’hanno assaporato. Non è mancato però chi ascrisse a difetto di memoria dell’autore l’essersi dimenticato di far sapere chi fosse il ladro che rubò il leardo a Sancio; perocchè ci racconta che l’asino fu rubato, e poi di lì a poco vediamo che Sancio lo vien cavalcando senza che se ne sappia il come2. Lo accusano similmente di avere omesso di dar conto dell’uso fatto da Sancio di quei cento scudi che trovò nel valigiotto in Sierra Morena, i quali scudi non sono più rammentati; mentre molti bramerebbero sapere che cosa Sancio ne fece o come li consumò: e questo dicono ch’è uno dei principali difetti dell’opera„. Sancio rispose: — Io, signor Sansone, non mi sento voglia d’investigar o di rifare conti... oh Dio! mi coglie in questo punto uno svenimento da cui se non posso ripararmi con un po’ di buon vino vecchio corro a rischio di ammalarmi o di crepare: oh vi so dire che ne ho un barile a casa di perfetto ai vostri comandi, ed intanto penso di andarvi, chè la mia cara moglie mi aspetta: quando mi sarò ristorato lo stomaco tornerò qua e darò a vossignoria e a tutto il mondo quegli schiarimenti che più vorranno così rispetto alla perdita del giumento come all’impiego dei cento scudi„.
Senz’aspettare altra risposta od aggiunger parola, se n’andò Sancio a casa di filo. Don Chisciotte pregò vivamente il baccelliere che stesse a far penitenza seco, e il baccelliere accettò l’invito e restò. Si aggiunse al pranzo consueto un paio di piccioni, e a tavola si ragionò di cose toccanti la cavalleria. Carrasco secondò l’umore di don Chisciotte. Finito il desinare dormirono un pochetto; Sancio intanto tornò, e fu ripigliato l’interrotto ragionamento.
Note
- ↑ Don Alonzo de Madrigal vescovo d’Avila dello el Tostado (l’abbrustolito) morì ancor giovine nel 1450: nondimeno lasciò ventiquattro volumi in foglio di opere latine, quasi altrettanti di opere spagnuole, oltre parecchi lavori inediti.
- ↑ Il ladro fu Gines di Passamonte. La dimenticanza in cui cadde il Cervantes risguarda il fatto e non l’autore di esso: si dimenticò di aver detto che a Sancio era stato rubalo l’asino. Vedi P. I. cap. XXXIII.