Don Chisciotte della Mancia/Capitolo X
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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO X.
Dei graziosi ragionamenti che passarono tra don Chisciotte e il suo scudiere Sancio Panza.
Lo seguitava Sancio facendo trottare il giumento il più che potesse; ma Ronzinante correva sì presto, che il povero scudiero vedendosi restar addietro, cominciò a gridare che lo aspettasse. Don Chisciotte tirò a sè le redini finchè fu raggiunto dall’affaticato compagno che tosto si fece a dirgli: “Parmi, signore, che noi dovremmo ricoverarci in qualche chiesa, poichè essendo rimasto sì rovinato quell’uomo con cui siete venuto a battaglia, è ben facile che ne sia informata la Santa Hermandada1, e che ci vogliano metter prigione: che se questo accade, noi avremo a sudare un po’ troppo prima di essere scarcerati. — Taci là, disse don Chisciotte; e dove hai tu visto o letto che un cavaliere errante sia stato soggetto alla giustizia per quanti omicidi abbia fatti? — Io non so di omicidi, rispose Sancio, nè mai ho messo mano in vita mia nel sangue di alcuno; so bene che la Santa Hermandada veglia a punire coloro che van facendo zuffe e quistioni, e in altre cose non m’intrametto. — Non ti dar pensiero di questo, rispose don Chisciotte, ch’io ti trarrei dalle mani dei Caldei quando occorresse, non che da quelle della Hermandada; ma dimmi piuttosto: vedesti mai cavaliere sopra tutta la faccia della terra più valoroso di me? leggesti mai nelle storie che altri abbia mostrato più intrepidità nell’attaccare, più coraggio nel persistere, più destrezza nel ferire, più grande astuzia nell’atterrare? — Sia pur vero questo, rispose Sancio, da che io non ho letto giammai storia alcuna, non sapendo nè leggere nè scrivere; ma quello che posso affermare si è che non ho servito in vita mia padrone più ardimentoso di vossignoria; e piaccia a Dio che questo sì grande coraggio non vada a finire in quel modo che dissi poc’anzi. Ora quello di che sono a pregare la signoria vostra si è che prenda cura di medicarsi, mentre veggo che va perdendo sangue da questa orecchia; e giacchè tengo nella bisaccia dei fili e dell’unguento bianco.... — Tutto questo sarebbe inutile, rispose don Chisciotte, se mi fosse dato di avere un’ampolletta del balsamo di Fierabrasse2, chè con una sola goccia avremmo risparmiato il tempo e le medicine. — Che ampolla e che balsamo è questo? disse Sancio Panza. — È un balsamo, replicò don Chisciotte, la cui ricetta ho a memoria; ed è tale che l’uomo non deve più temere che alcuna ferita lo conduca a morire, per grande che sia; perciò quando io n’abbia, e te lo dia, se tu mi vedessi in qualche battaglia tagliato a mezzo, come suole spesso avvenire, altro non hai da fare che prendere quella parte del corpo che fosse caduta per terra, e con molta diligenza, prima che il sangue si rapprenda, congiungerla all’altra rimasta sopra la sella; avvertendo però di commetterle ugualmente e al loro giusto punto: ciò fatto mi darai da bere due gocce del balsamo di cui t’ho detto, e mi vedrai rimesso perfettamente in salute. — Se così è, disse Panza, io rinunzio da questo momento al governo della promessa isola, ed altro non domando in ricompensa de’ miei molti e buoni servigi, se non che la signoria vostra mi dia la ricetta di questo licore prezioso, ch’io credo bene che costerà più di due reali l’oncia; nè altro mi occorre per passare questa sciagurata vita senza fastidii. Ora ditemi quanto si può spendere a comporlo? — Se ne possono far tre bocce, rispose don Chisciotte, con meno di tre reali. — Corpo della vita mia, replicò Sancio, e perchè non si affretta la signoria vostra a farlo, e ad insegnarmene il modo? — Taci, amico, rispose don Chisciotte, chè ti metterò eziandio a parte di segreti di più alta importanza, e ti farò più larghi favori; ma per ora medichiamoci, perchè l’orecchio mi duole assai più del bisogno.
Sancio trasse allora dalle bisacce fili ed unguento, ma quando s’accorse don Chisciotte che la sua celata era rotta stette per perdere il cervello, e posta mano alla spada, e alzando gli occhi al cielo: “Fo giuramento, disse, a Dio e a’ suoi santi Evangeli di condurre la vita come il marchese di Mantova quando giurò di vendicare la morte del nipote suo Baldovino, cioè di non sedere a mensa preparata, nè di coabitar colla moglie, ed altro che ora non mi sovviene, ma che tutto ripeto però coll’intenzione, finchè io non prenda vendetta di colui che mi oltraggiò così indegnamente„. Sentendolo parlare in tal guisa, Sancio gli disse: “Badi la signoria vostra, signor don Chisciotte, che se il cavaliere adempì i comandi che ebbe da lei, di presentarsi cioè dinanzi alla signora Dulcinea del Toboso avrà fatto ogni suo dovere, nè merita ulterior pena, purchè non diventi reo di nuova colpa. — Tu parli e giudichi assai rettamente, rispose don Chisciotte; e quindi annullo il giuramento per ciò che risguarda il prender vendetta di lui, ma lo faccio e di nuovo il confermo quanto al condurre la vita che ho detto, finchè mi riesca di togliere a forza un’altra celata simile, e del pregio di questa, a qualche cavaliere: nè ti dar a credere, o Sancio, che sia questo un mio capriccio; chè anzi m’uniformo all’esempio di molti altri, poichè accadde il medesimo appunto a Sacripante per causa dell’elmo di Mambrino. — Deh, non si perda la signoria vostra in questa sorta di giuramenti che fanno gran danno alla salute, replicò Sancio, e recano molto pregiudizio alla coscienza: e poi ella favorisca dirmi: se corressero per avventura molti giorni senza ch’ella trovasse cui togliere la celata, che cosa faremo allora? Vorrà ella servire al giuramento a dispetto di tanti inconvenienti e disagi, come sarà il dormire vestito ed alla scoperta, ed altre mille penitenze contenute nelle proteste di quello sciocco vecchio del marchese di Mantova, che ora la signoria vostra vorrebbe avvalorare? Rifletta, mio signor padrone, rifletta che queste strade non sono battute da uomini armati, ma soltanto da vetturali e da carrettieri i quali non portano celate, anzi non le hanno nemmeno sentite nominare in tutto il corso della loro vita. — In ciò t’inganni d’assai, disse don Chisciotte, perchè noi non andremo più di due ore per questi crocicchi di strade senza incontrarci in armati più numerosi di quelli che andarono all’assedio di Albracca e alla conquista di Angelica la bella. — Sia pur così, disse Sancio, piaccia a Dio che la cosa termini in bene, e che giunga il tempo di guadagnare quest’isola che già mi costa sì cara, e poi voglio morire subitamente. — Te l’ho già detto, o Sancio, che non te ne devi pigliar fastidio, perchè quando mancasse un’isola, resta il regno di Danimarca o quello di Sobradisa, che ti calzeranno a proposito come anello al dito, ed hai gran motivo di rallegrartene essendo essi posti in terraferma: ma rimettiamo queste cose a suo tempo, e guarda se nelle tue bisacce hai di che possiamo rifocillarci ambidue, poi andremo in traccia di qualche castello in cui passare la notte, e poter fare il balsamo di cui t’ho parlato; perchè ti giuro in coscienza che mi sento gran dolore all’orecchio. — Ho qua una cipolla, un po’ di formaggio e qualche tozzo di pane, disse Sancio; ma questi non sono cibi adattati a sì valoroso cavaliere com’è vossignoria. — T’inganni a partito, rispose don Chisciotte: sappi che i cavalieri erranti si recano ad onore di non mangiar mai in un mese, e quando mangiano pigliano tutto ciò che vien loro offerto; della qual cosa tu saresti ben assicurato se avessi lette tante storie quante ne lessi io. Nè mai vi ho trovato notizia che i cavalieri erranti mangiassero, se non per caso, e in alcuni sontuosi banchetti ai quali erano invitati: negli altri giorni se ne stavano affatto digiuni, quantunque però non sia da credere che potessero passarsela senza mangiare e senza servire agli altri bisogni della vita, perchè in fatto eran uomini come noi; ma egli è da tenersi per fermo, che viaggiando nella maggior parte della loro vita per foreste e per deserti e senza cuoco, l’ordinario loro cibo fosse di rustiche vivande, appunto come quelle che tu adesso mi offri; di maniera che non ti rincresca di ciò che a me aggrada, nè ti pensare di cambiar l’ordine delle cose nel mondo, nè di far uscire l’errante cavalleria fuor dal suo centro. — Perdonimi la signoria vostra, disse Sancio, chè siccome io non so nè leggere nè scrivere, come altra volta le ho significato, non ho cognizione delle pratiche della professione cavalleresca; quindinnanzi farò provvista nelle bisacce d’ogni sorta di frutte secche per vostra signoria ch’è cavaliere, e per me, che nol sono, provvederò altre cose animali e di maggiore sostanza. — Non dico, replicò don Chisciotte, che sia obbligo de’ cavalieri erranti di non mangiare se non le frutte che tu vai nominando, ma voglio inferire che il loro più consueto nutrimento debba consistere in quelle, e in certe erbe da essi e da me ben conosciute, e che si trovano per le campagne. — Per verità, è molto opportuna la cognizione di siffatte erbe, perchè mi figuro che verrà qualche giorno in cui bisognerà approfittarne„. Così dicendo cavò dalle bisacce le cose già dette, e mangiarono amendue in buona pace e compagnia. Desiderosi poscia di cercare ove alloggiar quella notte, terminarono prestamente il loro povero ed asciutto desinare, e montati di nuovo a cavallo, affrettaronsi di giugnere a qualche paese prima che annottasse: ma col tramontare del sole mancò in essi la speranza d’arrivare dove desideravano, e trovandosi prossimi ad una capanna di caprai, pensarono di passar la notte in quel sito. Quanto spiacque a Sancio altrettanto invece si rallegrò il suo padrone di poter dormire a cielo scoperto; parendogli che ogni volta che ciò gli avveniva, fosse, come a dire, un guadagnarsi una buona prova della sua cavalleria.
Note
- ↑ Santa Hermandada o Santa Confraternita era una giurisdizione con tribunali e guardie o famiglia, incaricata principalmente di punire i malfattori.
- ↑ Fu costui (dice la Storia di Carlo Magno) un gigante re d’Alessandria, figliuolo dell’ammiraglio Balano, conquistatore di Roma e di Gerusalemme, pagano o saracino. Era gran nemico d’Oliviero da cui ebbe ferite mortali, e nondimeno ne guariva poi subito bevendo alcune gocce di certo balsamo guadagnato alla conquista di Gerusalemme. Dicevasi che fosse lo stesso balsamo di Giuseppe d’Arimatia, con cui fu inbalsamato il Salvatore. Ma finalmente poi Oliviero tolse a Fierabrasse quel miracoloso rimedio, dopo di che il fiero gigante trovatosi vinto e costretto ad arrendersi, ricevette il battesimo e morì convertito.