Don Chisciotte della Mancia/Capitolo VII
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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO VII.
Del secondo viaggio del nostro buon cavaliere don Chisciotte della Mancia.
Quando si recarono da don Chisciotte lo trovarono già fuori del letto che prorompeva nelle solite sue strida e pazzie, menando manrovesci da ogni parte, e tenendo sì spalancati gli occhi come se non avesse mai dormito. Lo abbracciarono e a viva forza lo rimisero a letto; e da poi che si pose un po’ in calma, voltosi al curato, gli disse: “Non v’ha dubbio, signor arcivescovo Turpino, che non ricada a gran vergogna di noi altri dodici Paladini di lasciar cogliere la palma di questo torneo a’ cavalieri cortigiani, mentre noi venturieri colto avevamo nei tre dì antecedenti l’onore della vittoria. — Si dia pace la signoria vostra, signor compare, disse il curato, che piacendo a Dio cambieranno le cose, e quello che oggi si perde si guadagnerà dimani; attenda intanto a risanarsi, chè, per quanto mi pare, ella debb’essere affaticata oltremodo, se pure non è ferita pericolosamente. — Ferito no, disse don Chisciotte, ma sibbene macinato e pesto, perchè quel bastardo di don Roldano mi fracassò a bastonate con un troncone di quercia, mosso da invidia, vedendo ch’io solo mi posso contrapporre alla sua valentía; io per altro non sarò Rinaldo di Montalbano se levandomi di questo letto non gliene farò pagar il fio a dispetto de’ suoi incantamenti; ma intanto recatemi da mangiare, che è quanto mi occorre al presente, e si lasci poi a me la cura di compiere le mie vendette„. Così fu fatto: gli diedero da sfamarsi, dopo di che egli si addormentò di nuovo, lasciandoli tutti sempre più maravigliati delle sue pazzie. In quella stessa notte la serva abbruciò nella corte quanti libri trovavansi per la casa, di maniera che n’arsero molti anche di quelli che meritavano d’essere custoditi perpetuamente negli archivi; ma nol permise il loro destin, nè l’indolenza del revisore, verificandosi così quel proverbio, che talvolta patisce il giusto per il peccatore. Uno de’ rimedi che il curato e il barbiere pensarono intanto di porre in opera per guarire la malattia dell’amico, fu di trasportarlo in un’altra stanza e di murare quella dei libri (affinchè non trovandoli più al suo svegliarsi, tolta la causa, cessassero anche gli effetti), dicendogli poi che un incantatore aveva portato seco la stanza con quanto in essa si conteneva; e tutto ciò fu eseguito con ogni sollecitudine. Dopo due giorni si levò don Chisciotte, e la prima cosa fu di andar a vedere i suoi libri; ma non trovando più la stanza dove l’aveva lasciata, si mise a cercarla per ogni parte. Giunto ove solea essere la porta, tentava il muro colle mani e volgeva e rivolgeva gli occhi dappertutto, senza mai proferire parola; finalmente dopo buona pezza domandò alla serva da qual parte si trovava la camera dove stavano i suoi libri. La serva, già ben avvertita di ciò che dovea rispondergli, disse: “Di quale camera mi parla, e che va cercando, vossignoria? Qua non v’è più camera, non vi sono in questa casa più libri, il diavolo ne portò seco ogni cosa. — Non era il diavolo, no, soggiunse la nipote, ma un incantatore, il quale venne di notte tempo sopra una nuvola dopo la partenza di vossignoria, e smontando da un serpente su cui arrivò cavalcioni, entrò nella stanza, nè so che cosa vi facesse, ma certo è che poco dopo uscì a volo dal tetto, lasciando la casa piena di fumo; e quando noi siamo andate per vedere ciò ch’era seguito, non abbiamo più trovato nè libri nè stanza; e solo ci ricordiamo amendue che quel tristo vecchio nell’andarsene disse ad alta voce di aver fatto tutto quel danno che poi si vedrebbe per l’inimicizia che portava al padrone di quei libri e di quella stanza, e soggiunse che si chiamava il savio Mugnatone. — Frestone4 avrà detto, replicò don Chisciotte. — Non so dire, riprese la serva, se si chiamasse Frestone o Fritone e posso soltanto affermare che in tone terminava il suo nome. — Così è per lo appunto, disse don Chisciotte: è costui un savio incantatore, mio grande e dichiarato nemico. Egli mi odia perchè la sua negromanzia gli fa prevedere che io debbo col tempo combattere in singolare tenzone con un cavaliere da lui protetto, e vincerlo senza ch’egli lo possa salvare. Per questo egli a tutto suo potere procura di farmi dispetto; ma io gli dico che mal potrà contrastarmi, nè opporsi a quello che il cielo ha ordinato. — E chi ne dubita? disse la nipote. Tuttavolta chi obbliga mai vossignoria, signor zio, a impacciarsi in siffatte brighe? Non sarebbe miglior consiglio di restarsene pacificamente in casa anzichè andar pel mondo a cercare miglior pane che di frumento, senza riflettere che tanti e tanti vanno per lana e tornano spelacchiati? — O nipote mia, rispose don Chisciotte, quanto v’ingannate! prima che alcuno mi tratti come voi dite, pelerò il mento a quanti mai si figurassero di torcermi pur un capello„. Si tacquero ambedue le donne, vedendo ch’egli già avvampava di sdegno. Fatto sta, che per quindici giorni don Chisciotte rimase in casa tranquillo, senza dar segno veruno di ricadere ne’ suoi primi vaneggiamenti; e in que’ giorni s’intrattenne parlando molto piacevolmente col curato, col barbiere e co’ suoi compari, sostenendo però che il mondo aveva soprattutto bisogno de’ cavalieri erranti, e che in lui risuscitasse l’antica cavalleria. Qualche volta il curato si opponeva, qualche altra gli menava buoni i suoi detti, perchè se diversamente si fosse regolato, non sarebbesi giammai accordato con lui.
Intanto don Chisciotte venne sollecitando un villano suo vicino, uomo dabbene (se pure così può dirsi di chi è povero) ma con poco sale in zucca. Tanto gli disse, e tanto lo persuase a furia di promesse, che il povero villano si determinò di andarsene con lui e di servirlo in qualità di scudiere. Gli dicea fra le altre cose, che si disponesse a tenergli dietro di buona voglia, perchè poteva talvolta accadergli che un girar di mano lo rendesse signore di un’isola, ed egli ve lo lascerebbe governatore. Con queste e altre tali promesse Sancio Panza (così chiamavasi quel contadino) abbandonò la moglie e i figliuoli, e si dedicò a servire il vicino suo da scudiere. Si diede gran pensiero don Chisciotte per ammassare danari, e vendendo una cosa, impegnandone un’altra, e manomettendole tutte, ne raccolse una quantità conveniente. Si provvide d’una rotella che domandò in prestito ad un suo vicino, e rassettata il meglio che potè la sua rotta celata, avvisò il suo scudiere Sancio del giorno e dell’ora in cui divisava di mettersi in viaggio, affinchè si provvedesse di tutto ciò che credeva potergli occorrere, raccomandandogli specialmente che portasse con sè un pajo di bisacce. Rispose Sancio che lo farebbe, e che anzi pensava di menarne seco un suo bravissimo asino, perchè non era atto a camminar molto a piedi. Riguardo all’asino stette un poco dubbioso don Chisciotte, cercando di ridursi nella memoria se mai cavaliere errante si fosse fatto seguire dallo scudiere asinalmente, nè gli sovvenne d’alcun esempio: pur si decise di permettergli che lo conducesse, con animo di accomodarlo d’una più onorevole cavalcatura, togliendola al primo scortese cavaliere in cui s’imbattesse. Fece provvista di biancheria, e di tutto ciò che potè avere alla mano, a tenore del consiglio già ricevuto dall’oste. Finalmente ordinata ogni cosa, Panza senza dire addio alla moglie ed a’ figliuoli, e don Chisciotte senza accommiatarsi dalla serva e dalla nipote, si partirono una notte dal loro villaggio, non veduti da alcuno, e tanto si affrettarono a camminare che all’apparire del giorno si tennero per sicuri di non essere raggiunti quand’anche alcuno avesse voluto seguirli. Viaggiava Sancio Panza sopra il suo giumento a guisa d’un patriarca, colle bisacce in groppa e la borraccia all’arcione, e con un gran desiderio di vedersi governatore dell’isola che gli avea promessa il padrone. A don Chisciotte parve bene di battere la strada stessa che avea tenuta nel suo primo viaggio, cioè la campagna di Montiello, scorrendola ora con assai minore disagio, perchè, essendo di prima mattina, i raggi del sole non lo ferivano in faccia, nè gli davano noja. In questo, Sancio Panza gli disse: “Badi bene la signoria vostra, signor cavaliere errante, di non porre in dimenticanza l’isola che mi ha promesso, ch’io saprò governarla per grande che possa essere„. Al che rispose don Chisciotte: “Hai da sapere, amico Sancio, che fu usanza degli antichi cavalieri erranti di fare dei loro scudieri governatori delle isole o regni da loro conquistati, ed io sono risoluto che non si perda per me così lodevole consuetudine. Ho divisato anzi di superarla; e dove gli altri attendevano che i loro scudieri giungessero alla vecchiaja dopo avere sostenuti i più penosi travagli per decorarli d’un titolo di conte o per lo meno di marchese di qualche vallone o provincia d’assai poco momento, potrebbe accadere, se noi viviamo, che fra sei giorni io conquistassi un regno da cui fossero dipendenti altri regni, e giudicassi a proposito di coronarti re d’uno di essi; nè credere impossibile questa cosa, poichè vicende sì prodigiose e impensate intravengono a noi cavalieri; con poca fatica, se la fortuna mi arride, io sarò forse per darti cosa di gran lunga maggiore di quella che ti prometto. — A questo modo, rispose Sancio Panza, s’io diventassi re, mercè uno di questi miracoli annunziati dalla signoria vostra, per lo meno la mia diletta Giovanna Gutierre arriverebbe ad essere regina, e infanti i figliuoli miei. — E chi potrebbe dubitarne, rispose don Chisciotte? — Io sono che ne dubito, replicò Sancio Panza; perciocchè, anche quando piovessero i regni dal cielo in terra nessuno potrebbe star bene in testa a Giovanna Gutierre. Sappia, signore, che non vale due soldi come regina; per contessa potrebb’essere il caso! ma seguane ciò che il ciel ne dispone. — Raccomandala al Signore, o Sancio, rispose don Chisciotte, ch’egli la beneficherà nel modo che potrà tornarle di maggior suo vantaggio; ma non tenerti così da poco da non meritare almeno un grado di governatore. — Non mi terrò per tale, no, signor mio, rispose Sancio, e tanto più trovandomi per vostra bontà con siffatto padrone, che saprà darmi tutto quello che mi starà bene e che potrà essere adattato alla mia capacità.
Note
- ↑ Al tempo del Cervantes conoscevansi due poemi di questo nome sulle vittorie di Carlo V; l’uno di Girolamo Sampere, Valenza 1560; l’altro di Giovanni Ochoa de la Salde. Lisbona 1585.
- ↑ El Leon de Espana, poema in ottave di Pedro de la Vacilla Castellanos, sugli eroi ed i martiri dell’antico regno di Leone. Salamanca 1586.
- ↑ Los hechos del emperador. È questo un altro poema (Carlo famoso) in onore di Carlo V, composto da don Luigi Zappata, non già da don Luigi de Avila, come si legge nel testo per errore o dell’autore o del tipografo.
- ↑ Cervantes avrà scritto Fristone, nome del mago che abitava la foresta della Morte, e supposto autore del Belianigi.