Discorso sul testo della Commedia di Dante/XXVI
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XXVI. Dopo avere narrato il come gli amici di Dante gli fecero capitare dopo l’esilio i sette primi canti dell’Inferno composti in Firenze, il Boccaccio continua: — «Ricominciata dunque da Dante la magnifica opera, non forse, secondochè molti stimarebbono, senza più interromperla, la produsse al fine; anzi più volte che secondo la gravità de’ casi sopravvegnenti richiedea, quando mesi, quando anni, senza potere operare alcuna cosa, mise in mezzo; nè tanto si potè avacciare, che prima non lo sopraggiungesse la morte, che egli tutta pubblicare la potesse. Egli era suo costume, qualora sei otto canti fatti n’aveva, quelli, primachè alcun altro li vedesse, dove che egli fosse, mandarli a messer Cane della Scala, il quale egli oltre ad ogni altro aveva in riverenza; e poichè da lui eran veduti, ne faceva copia a chi la volea: ed in così fatta maniera avendo egli tutti fuor che gli ultimi tredici canti mandati, e quelli avendo fatti e non ancor mandati, avvenne che senza avere alcuna memoria di lasciarli, si morì. E cercato da quelli che rimasono figliuoli e discepoli più volte e in più mesi ogni sua scrittura, se alla sua opera avesse fatto alcuna fine, nè trovandosi per alcun modo i canti residui; essendo generalmente ogni suo amico corruccioso, che Iddio non l’aveva almeno al mondo tanto prestato, che egli il piccolo rimanente della sua opera avesse potuto compire, dal più cercare, nè trovandoli, s’erano disperati rimasi. Eransi Jacopo e Pietro, figliuoli di Dante, de’ quali ciascuno era dicitore in rima, per persuasione d’alcuni loro amici messi a volere, quanto per loro si potesse, supplire la paterna opera, acciocchè imperfetta non rimanesse. Quando a Jacopo, il quale in ciò era più fervente che l’altro, apparve una mirabil visione, la quale non solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dove fossero li tredici canti; li quali alla Divina Commedia mancavano e da loro non saputi trovare. Raccontava un valentuomo Ravegnano, il cui nome fu Pietro Giardino, lungamente stato discepolo di Dante, che dopo l’ottavo mese dopo la morte del suo maestro, era vicino una notte all’ora che noi chiamiamo mattutino, venuto a casa il predetto Jacopo, e dettogli: — sè quella notte, poco avanti a quell’ora, avere nel sonno veduto Dante suo padre vestito di candidissimi vestimenti e d’una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui, il qual gli pareva domandare: se egli viveva? e udir da lui per risposta di sì: ma della vera vita, non della nostra. Per che oltre a questo gli pareva ancora domandare: se egli aveva compiuto la sua opera anzi il suo passare alla vera vita? e se compiuta l’aveva, dove fosse quello vi mancava, da loro mai non potuto trovare? A questo gli pareva la seconda volta udire per risposta: sì, io la compiei; e quinci gli pareva che lo prendesse per mano, e menasselo in quella camera ove era uso di dormire quando in questa vita viveva; e toccando una parete di quella, dicea: egli è qui quello che tanto avete cercato; e questa parola detta, a un’ora Dante e il sonno gli pareva che si partissono. Per la qual cosa affermando, sè non esser potuto stare senza venire a significargli ciò che veduto aveva, acciò che insieme andassero a cercare nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente avea segnato nella memoria, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la qual cosa, restando ancora gran pezzo di notte, mossisi; ed insieme vennero al dimostrato luogo, e quivi trovarono una stuoja confitta al muro, la quale leggermente levatane, vidono nel muro una finestra da niuno di loro mai più veduta nè saputa che la vi fosse; ed in quella trovarono alquante scritture tutte, per la umidità del muro, tutte muffate e vicine a corrompersi, se guari state vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole, videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati. Per la qual cosa lietissimi, quelli riscritti, secondo l’usanza dello autore, prima li mandarono a Messer Cane della Scala, e poi alla imperfetta opera li ricongiunsero, siccome si conveniva. In cotal maniera l’opera compilata in molti anni si vide finita1.»
Note
- ↑ Boccaccio, Vita di Dante, pagg. 64 e seg. Parma.