Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
158 | discorso sul testo del poema di dante. |
a dimostrare come Dante, non che aver mai dato al mondo il Poema per lavoro compiuto, intendeva di alterarlo e sottrarre ed aggiungere molti versi fino all’estremo della sua vita. Però dianzi accennai che tutti i testi scritti e stampati derivano da due tre originali smarriti. Or se fosse avverato che l’autore non decretò finito il lavoro, e non lo fe’ pubblico mai, ne risulterebbe emendazione ed interpretazione guidate da storiche norme. Le varianti non s’avranno da opporre ad interpolazioni ed errori altrui tutte quante; bensì parecchie, e le più luminose, al poeta. E in fatti le si dividono, a chi le guarda, in tre specie chiaramente distinte. La prima consiste di accidenti di penna o di stampa, innestati invisibilmente nel testo. La seconda, di glossemi ne’ codici antichi, che sottentrarono spesso alle vere lezioni. La terza, di alterazioni notate dall’autore, intorno alle quali, o si rimaneva perplesso, o la morte gl’impedì di cancellarle da’ suoi manoscritti, per adottare le sole ch’ei s’era proposto di scegliere. Ciascuna di queste tre specie palesa contrassegni tutti suoi proprj, in guisa che le diversità loro risaltano in un subito agli occhi. Ed oltre all’utilità che l’emendazione e l’arte derivano dall’esame della terza specie di varianti, tutte le difficoltà di penetrare nella mente dell’autore non si rimarranno prossime alla impossibilità; e tutte le illustrazioni avranno mèta più certa. Le allusioni a’ fatti degli anni 1318 e 1319, nel principio della prima Cantica, — e del 1314, nel mezzo della seconda, — e del 1313, negli ultimi canti dell’ultima, e cent’altre si fatte, non saranno esplorate più come tracce a ordinare cronologicamente la storia della composizione della Divina Commedia; nè l’inutile disputare perpetuo che deriva da quelle date, ridurrà l’uomo a guardare la lor confusione come fenomeno inesplicabile.
XXVI. Dopo avere narrato il come gli amici di Dante gli fecero capitare dopo l’esilio i sette primi canti dell’Inferno composti in Firenze, il Boccaccio continua: — «Ricominciata dunque da Dante la magnifica opera, non forse, secondochè molti stimarebbono, senza più interromperla, la produsse al fine; anzi più volte che secondo la gravità de’ casi sopravvegnenti richiedea, quando mesi, quando anni, senza potere operare alcuna cosa, mise in mezzo; nè tanto si potè avacciare, che prima non lo sopraggiungesse la morte, che egli tutta pubblicare la potesse. Egli era suo costume, qualora sei otto canti fatti n’aveva, quelli, primachè alcun altro li vedesse, dove che egli fosse, mandarli a messer Cane della Scala, il quale egli oltre ad ogni altro aveva in riverenza; e poichè da lui eran veduti, ne faceva copia a chi la volea: ed in così fatta maniera avendo egli tutti fuor che gli ultimi tredici canti mandati, e quelli avendo fatti e non ancor mandati, avvenne che senza avere alcuna memoria di lasciarli, si morì. E cercato da quelli che rimasono figliuoli e discepoli più volte e in più mesi ogni sua scrittura, se alla sua opera