Discorso alle gerarchie del fascismo nel V° anniversario delle sanzioni

Benito Mussolini

1940 Indice:Ateneo Veneto vol. 127 n. 11.12.djvu Discorsi storici Discorso alle gerarchie del fascismo nel V° anniversario delle sanzioni Intestazione 16 dicembre 2021 75% Da definire


[p. 327 modifica]

DISCORSO

ALLE GERARCHIE DEL FASCISMO

NEL V° ANNIVERSARIO DELLE SANZIONI

18 NOVEMBRE 1940 - XIX


Camerati!

Voi comprenderete che non a caso ho scelto questa giornata per convocare a Roma le Gerarchie provinciali del Partito. È una giornata di vittoria per l’Italia fascista, di disfatta per la coalizione societaria dei 52 Stati assedianti.

Il 18 novembre del 1935 appare come una data decisiva nella storia d’Europa. È il primo e ultimo tentativo d’assalto in grande stile sferrato dal vecchio mondo, rappresentato nei suoi egoismi feroci e nelle sue ideologie superate dalla Società delle Nazioni, contro le nuove forze europee, giovani e rivoluzionarie, rappresentate dall’Italia e dalla Germania. Da quel giorno, ha inizio la separazione, l’antitesi, la lotta che doveva, dopo i compromessi di Monaco, accettati dalle democrazie al solo scopo di guadagnare tempo, sboccare nella guerra dichiarata dalla Francia e dalla Gran Bretagna contro la Germania.

Non bisogna mai dimenticare che l’iniziativa della guerra è partita da Londra, seguita con un intervallo di poche ore da Parigi.

Affermo solennemente e senza tema di essere smentito, nè oggi nè mai, che la responsabilità della guerra ricade esclusivamente sulla Gran Bretagna.

La pace poteva essere conservata, se la Gran Bretagna non avesse, con la supina complicità della Francia, iniziato, invece della costruttiva revisione dei trattati, una politica di accerchiamento fatta, non allo scopo di lasciare ai polacchi la tedeschissima Danzica, ma allo scopo di abbattere la rinascente potenza politica e militare della Germania.

La pace poteva essere salvata se l’Inghilterra non avesse rigettato tutti i tentativi di avvicinamento compiuti dalla Germania, la quale si era spinta a firmare un Patto Navale che le faceva una situazione di netta e permanente inferiorità.

La pace poteva essere salvata anche nelle ultime ore dell’agosto 1939, se l’Inghilterra, sotto la pressione dell’Ambasciatore polacco che si era recato al Foreing Office alle 23 del giorno 1° settembre, non avesse avanzato, per aderire alla conferenza proposta dall’Italia, una [p. 328 modifica]condizione assolutamente inaccettabile, perchè umiliante, e cioè che le truppe tedesche, già in marcia, non solo si fermassero, ma retrocedessero alle linee di partenza.

Quanto è accaduto nei mesi successivi noi tutti l’abbiamo vissuto ed è superfluo ricordarlo.

Mai si vide nella storia del genere umano più colossale ondata di mistificazioni e di menzogne come quella scatenata dagli organi governativi e pubblicisti della Gran Bretagna durante le campagne di Polonia, Norvegia, Belgio, Olanda, conclusesi con la disfatta dell’esercito britannico e di quello francese, disfatta, quest’ultima, senza precedenti per le sue immense proporzioni e per la sua quasi impensabile rapidità.

Se la pratica della menzogna è il sistema più idoneo per istupidire e rendere coriaceo lo spirito di un popolo, si può tranquillamente affermare che il popolo di Gran Bretagna ha raggiunto un indiscutibile e insuperabile primato.

La Francia barcollava, ma era ancora lungi dall’essere in ginocchio e nessuno al mondo poteva prevedere che l’esercito, celebrato come il più forte d’Europa, si sarebbe liquefatto come neve al sole quando, il 10 giugno, l’Italia entrò in guerra per tener fede alla lettera ed allo spirito dell’alleanza e per spezzare finalmente le sbarre della sua prigione nel suo mare.

Dopo due settimane era l’armistizio e la Francia abbandonava la lotta che ha ripreso saltuariamente in seguito, ma solo per difendersi dagli attacchi proditori della ex-alleata, come a Orano e a Dakar.

Dal 10 giugno a oggi sono passati oltre cinque mesi di guerra seriamente guerreggiata sui fronti lontani e multipli per terra, per mare, nel cielo, in Europa e in Africa.

Lasciate che io rivolga un saluto pieno di ammirazione agli italiani che hanno in questo momento il privilegio di impugnare le armi.

L’esercito, sul fronte alpino e su quello africano, ha dimostrato che la sua tempra è quale noi volevamo: la disfatta degli inglesi nella Somalia britannica è stata totale: come a Dunkerque, così a Berbera gli inglesi sono fuggiti e si sono vendicati rimproverandoci di aver commesso, battendoli, un irreparabile errore strategico.

Le Forze Armate dell’Impero africano, Impero che nelle previsioni nemiche doveva saltare, hanno preso dovunque l’iniziativa e i tentativi inglesi di sobillazione all’interno sono pietosamente falliti.

Anche nella Libia siamo stati noi ad attaccare e la fulminea occupazione di Sidi el Barrani deve essere considerata non una conclusione, ma una premessa.

Gli atti di valore compiuti da ufficiali e da soldati italiani dell’Esercito sui fonti terrestri sono tali da inorgoglire legittimamente la Nazione.

Gli ufficiali e gli equipaggi della Marina compiono silenziosamente e spesso eroicamente il loro dovere sui molti mari e oceani — dall’Indiano all’Atlantico — dove sono impegnati. Essi obbediscono a una severa consegna e duri colpi sono stati inflitti alla Marina nemica. È la Marina che tutela le nostre linee di comunicazione mediterranee e [p. 329 modifica]adriatiche, in modo così efficace che la Marina nemica non è riuscita ad interromperle e nemmeno a disturbarle.

L’Aviazione italiana è sempre e più di sempre all’altezza del suo compito. Essa ha dominato e domina i cieli. I suoi bombardieri attingono le mète più lontane, i suoi cacciatori rendono la vita assai dura alla caccia nemica. Gli uomini sono veramente quelli del nostro tempo: la loro caratteristica è una calma intrepida.

Quanto alle macchine, ne escono al mese dalle nostre officine quattro volte più che prima della guerra: tra poco, colla costruzione in massa dei nuovi tipi, saremo forse all’avanguardia, certamente alla pari colle macchine più moderne degli altri Paesi.

Ma, dopo le Forze Armate, lasciate che io elogi la disciplina, il senso del dovere, la imperturbabile fermezza del Popolo italiano.

Esso accetta con tranquillità le privazioni che conseguono allo stato di guerra, privazioni ancora tollerabili, ma che potranno diventare successivamente più gravi e, guidato dal suo intuito politico millenario, sente che questa è una guerra decisiva; è come la terza guerra punica, che deve concludersi e si concluderà con l’annientamento della Cartagine moderna: l’Inghilterra.

Un forte Popolo come l’Italiano non teme la verità, la esige.

Ecco perchè i nostri Bollettini di guerra sono la documentazione della verità. Noi segnaliamo i colpi che diamo e quelli che riceviamo, gli apparecchi che noi abbattiamo e quelli che il nemico abbatte, le giornate favorevoli e quelle che lo sono poco o niente. Pubblichiamo mensilmente le perdite degli uomini e quelle dei mezzi. Mi sentirei diminuito dinanzi al Popolo e dinanzi a me stesso se adottassi altro metodo, quale quello di coprire o addolcire la realtà, buona o cattiva che sia. Farlo equivarrebbe a diseducare e umiliare il Popolo. Non lo farò mai.

Ho già prescritto nella maniera più categorica ai comandi militari del fronte ed alle autorità civili della periferia di non mandare a Roma, da dove poi debbono essere diffuse, notizie che non siano state rigorosamente e personalmente, dico personalmente, controllate.

A questo proposito voglio ricordare che grida di gioia si sono levate alla Camera dei Comuni quando Churchill ha potuto dare finalmente una buona notizia, quella concernente l’azione compiuta nel porto di Taranto dagli aerosiluranti inglesi.

Effettivamente tre navi sono state colpite, ma nessuna di esse è stata affondata e solo una di esse, come fu annunciato dal Bollettino delle nostre Forze Armate, è stata seriamente danneggiata e il suo ricupero richiederà lungo tempo. Le altre due saranno, a parere unanime dei tecnici, sollecitamente ripristinate nella loro antica efficienza.

È falso, dico falso, che due altre navi da guerra e due navi ausiliarie siano state affondate o colpite o comunque anche leggermente danneggiate.

Segno di cattiva coscienza questo di ingigantire e moltiplicare per sei un successo che noi per primi abbiamo riconosciuto.

Il signor Churchill avrebbe potuto, per completare il quadro, dare ai suoi onorevoli qualche indicazione sulla sorte toccata al «Liverpool» [p. 330 modifica]e al «Kent», e su quella delle altre grandi unità silurate recentemente nel Mediterraneo centrale o nel porto di Alessandria da sottomarini o aerosiluri italiani.

La nostra entrata in guerra ha dimostrato che l’Asse non era e non è una vana parola. Dal giugno ad oggi la nostra collaborazione con la Germania è veramente cameratesca e totalitaria. Marciamo fianco a fianco.

Questa unione di due Popoli diventa sempre più intima e si estende a tutti i campi della loro attività militare, economica, politica, spirituale. L’identità di vedute per quanto riguarda il presente e il futuro è perfetta.

I miei incontri col Führer non sono che la consacrazione di questa completa fusione delle nostre concezioni. Quando io mi incontro col Führer non vedo soltanto in lui il Capo creatore della grande Germania, il Comandante di eserciti che ha visto confermate dalla vittoria le sue geniali concezioni strategiche, talora ritenute più che audaci temerarie, ma anche, e vorrei dire in particolar modo, il suscitatore del movimento nazionalsocialista, il rivoluzionario che ha risvegliato il Popolo tedesco, lo ha fatto protagonista di una nuova concezione del mondo, grandemente affine a quella del Fascismo italiano.

L’identità di vedute è il risultato di questa premessa rivoluzionaria, scaturisce dall’incontro di due Rivoluzioni che sono, e nel campo internazionale e in quello sociale, appena all’inizio del loro cammino.

Tutto quanto riguarda gli sviluppi del Patto tripartito, a occidente o nel Bacino Danubiano, è seguito di comune accordo; così per quanto riguarda la posizione avvenire della Francia.

È ormai chiaro che l’Asse non vuole fare una pace di rappresaglia o di rancori, ma è altresì inteso che talune rivendicazioni devono essere soddisfatte.

Tali rivendicazioni più che legittime, potevano essere oggetto di discussione anche prima della guerra, se non ci si fossero opposti i ridicoli e tragici, ad un tempo, Jamais. Quando si accennò a toglierli era ormai troppo tardi. L’Italia aveva già scelto, sin dal maggio 1939, la sua via. I dadi erano gettati.

Ma appunto per il loro carattere di legittimità, le nostre rivendicazioni dovranno essere accolte senza compromessi o soluzioni provvisorie, che noi, fin da questo momento, in maniera categorica, respingiamo.

Solo dopo questo totale chiarimento sarà possibile, nell’orbita della nuova Europa, quale sarà creata dall’Asse, di iniziare un nuovo capitolo nella storia, che fu così agitata, dei rapporti fra Italia e Francia.

È superfluo confermare che, come l’armistizio, così la pace sarà comune, cioè sarà la pace dell’Asse.

A consacrare la fraternità delle armi italo-germaniche ho chiesto e ottenuto dal Führer una diretta partecipazione alla battaglia contro la Gran Bretagna con velivoli e sottomarini. Aggiungo subito che la Germania non aveva bisogno del nostro concorso. Il valore dei suoi combattenti di terra, di mare, di cielo, la sua potenza industriale, la [p. 331 modifica]sua capacità organizzativa e tecnica, il rendimento della sua mano d’opera sono elementi ben noti. Le cifre di produzione di aeroplani e di sottomarini raggiunte dalla Germania sono veramente eccezionali ed in continuo progresso. Ciò nonostante, io sono grato al Führer di avere accettato la mia offerta: nulla più del sangue versato in comune, o del sacrificio in comune sopportato, rende solidi e duraturi i rapporti fra i popoli, quando siano animati da una lealtà assoluta e da una identità di interessi e di ideali. Sono sicuro che i nostri aviatori e i nostri sommergibilisti faranno onore alla nostra bandiera.

Dopo un lungo pazientare abbiamo strappato la maschera ad un Paese garantito dalla Gran Bretagna, un subdolo nemico, la Grecia. È un conto che attendeva di essere saldato. Una cosa va detta, e forse non mancherà di sorprendere taluni inattuali classicisti italiani: i greci odiano l’Italia come nessun altro popolo. È un odio che appare a prima vista inspiegabile, ma è generale, profondo, inguaribile, in tutte le classi, nelle città, nei villaggi, in alto, in basso, dovunque. Il perchè è un mistero. Forse perchè Santorre Santarosa andò dal natio Piemonte a morire ingenuamente ed eroicamente per la Grecia a Sfacteria? Forse perchè il garibaldino forlivese Antonio Fratti ripetè lo stesso gesto di sublime ingenuità 70 anni dopo cadendo a Domokos? Interrogativi. Ma il fatto esiste.

Su questo odio, che si può definire grottesco, si è basata la politica greca di questi ultimi anni; politica di assoluta complicità con la Gran Bretagna. Nè poteva essere diversamente, dato che il re è inglese, la classe politica inglese, la borsa, nel senso figurato e nel proprio, è inglese.

Questa complicità, estrinsecata in molti modi che a suo tempo saranno irrefutabilmente documentati, era un atto di ostilità continua contro l’Italia.

Dalle carte trovate dallo Stato Maggiore Germanico in Francia, a Vitry la Charité, risulta che sin dal maggio la Grecia aveva offerto ai franco-inglesi tutte le sue basi aeree e navali.

Bisognava por fine a questa situazione. È ciò che si è fatto il 28 ottobre, quando le nostre truppe hanno varcato il confine greco-albanese.

Le aspre montagne dell’Epiro e le loro valli fangose non si prestano a «guerre-lampo», come pretenderebbero gli incorreggibili che praticano la comoda strategia degli spilli sulle carte. Nessun atto o parola mia, o del Governo, e di nessun altro fattore responsabile l’ha fatto prevedere.

Non credo che valga la pena di smentire tutte le notizie diramate dalla propaganda greca e dai suoi altoparlanti inglesi. Quella Divisione Alpina «Julia» che avrebbe avuto perdite enormi, che sarebbe fuggita, che sarebbe stata polverizzata dai greci, è stata visitata dal generale Soddu, il quale, a visita ultimata, così mi ha telegrafato il 12 novembre: «Recatomi stamane visitare Divisione Alpina «Julia», devo segnalarvi, Duce, la magnifica impressione riportata di questa superba unità fiera e salda più che mai nei suoi granitici alpini».

C’è qualcuno tra di voi, o camerati, che ricorda l’inedito discorso [p. 332 modifica]di Eboli, pronunciato nel luglio del 1935, prima della guerra etiopica? Dissi che avremmo spezzato le reni al Negus.

Ora, con la stessa certezza assoluta, ripeto assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia. In due o in dodici mesi poco importa. La guerra è appena incominciata.

Noi abbiamo uomini e mezzi sufficienti per annientare ogni resistenza greca. L’aiuto inglese non potrà impedire il compimento di questo nostro fermissimo proponimento, nè evitare agli elleni la catastrofe che essi hanno voluto e dimostrato di meritare.

Pensare o dubitare qualche cosa di diverso significa non conoscermi. Una volta preso l’avvio, io non mollo più sino alla fine. L’ho già dimostrato e, qualunque cosa sia accaduta, accada, o possa accadere tornerò a dimostrarlo.

I 372 Caduti, i 1081 feriti, i 650 dispersi nei primi dieci giorni di combattimento sul fronte dell’Epiro saranno vendicati.


Camerati!

In quest’ora storica veramente solenne, che allinea, nel contrasto e nell’intesa, i Continenti, il Partito — difensore e continuatore della Rivoluzione — deve intensificare al massimo tutte le forme della sua attività.

Allo scoppio della guerra un certo rallentamento delle attività del Partito fu in relazione al fatto obiettivo della partenza di tutti i gerarchi. Ora non più.

Non c’è e non ci sarà una mobilitazione generale. Le classi richiamate sono due. Ce ne sono ancora disponibili una trentina. Abbiamo alle armi un milione di uomini; ne possiamo chiamare, in caso di necessità, altri otto.

In queste condizioni, il Partito deve riprendere la sua funzione con immutato crescente rigore, impegnando strenuamente la sua battaglia sul fronte interno, sul piano politico, economico, spirituale, sul piano dello stile.

Il Partito deve liberarsi e liberare la Nazione dalla superstite zavorra piccolo-borghese, nel senso più lato che noi diamo a questo termine; deve mantenere e accentuare il clima dei tempi duri; andare, più e meglio di prima, verso il Popolo, tutelandone la salute morale e l’esistenza materiale.

Certo pacifismo a sfondo cerebraloide e universalistico va attentamente vigilato e combattuto. È sfasato almeno per quanto riguarda questa epoca di ferro e di cannoni.

Nient’altro esiste e deve esistere all’infuori dello scopo supremo, per il quale siamo in armi. Fra germanici e italiani siamo un blocco di 150 milioni di uomini, risoluti e compatti e piantati dalla Norvegia alla Libia nel cuore dell’Europa.

Questo blocco ha già nel pugno la vittoria.

Benito Mussolini