Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1824)/Libro primo/Capitolo 6

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CAPITOLO VI


Se in Roma si poteva ordinare uno Stato che togliesse via le inimicizie tra il Popolo e il Senato.


N
oi abbiamo discorsi di sopra gli effetti che facevano le controversie tra il Popolo ed il Senato. Ora sendo quelle seguìte in fino al tempo de’ Gracchi, dove furono cagione della rovina del vivere libero, potrebbe alcuno desiderare che Roma avesse fatti gli effetti grandi che la fece, senza che in quella fussero tali inimicizie; però mi è parso cosa degna di considerazione, vedere se in Roma si poteva ordinare uno Stato che togliesse via dette controversie. Ed a volere esaminare questo, è necessario ricorrere a quelle Repubbliche, le quali senza tante inimicizie e tumulti sono state lungamente libere, e vedere quale stato era il loro; e se si poteva introdurre in Roma. In esempio tra li antichi ci è Sparta, tra i moderni Vinegia, state da me di sopra nominate. Sparta fece un Re con un picciolo Senato che la governasse. Vinegia non ha diviso il governo coi nomi, ma sotto una appellazione, tutti quelli che possono avere amministrazione si chiamano Gentiluomini. Il qual modo lo dette il caso più che la prudenza di chi dette loro le leggi; perchè sendosi ridotti in su quegli scogli, dove è ora quella città, per le cagioni dette di [p. 34 modifica]sopra, molti abitatori, come furono cresciuti in tanto numero, che a volere vivere insieme bisognasse loro far leggi, ordinarono una forma di governo, e convenendo spesso insieme nei Consigli a deliberare della città, quando parve loro essere tanti che fussero a sufficienza ad un vivere politico, chiusono la via a tutti quelli altri che vi venissero ad abitare di nuovo, di potere convenire ne’ loro governi; e col tempo trovandosi in quel luogo assai abitatori fuori del governo, per dare riputazione a quelli che governavano, li chiamarono Gentiluomini, e gli altri Popolani. Potette questo modo nascere e mantenersi senza tumulto, perchè quando ei nacque, qualunque allora abitava in Vinegia fu fatto del governo, di modo che nessuno si poteva dolere; quelli che dipoi vi vennero ad abitare, trovando lo Stato fermo e terminato, non avevano cagione nè comodità di fare tumulto. La cagione non v’era, perchè non era stato loro tolto cosa alcuna. La comodità non vi era, perchè chi reggeva li teneva in freno, e non gli adoperava in cosa dove e’ potessero pigliare autorità. Oltre di questo, quelli che dipoi vennono ad abitar Vinegia, non sono stati molti, e di tanto numero che vi sia disproporzione da chi li governa a loro che sono governati; perchè il numero dei Gentiluomini o egli è uguale a loro, o egli è superiore; sicchè per queste cagioni Vinegia potette ordinare quello Stato, e mantenerlo unito. Sparta, come ho detto, essendo governata da un Re, e [p. 35 modifica]da uno stretto Senato, potette mantenersi così lungo tempo; perchè essendo in Sparta pochi abitatori, ed avendo tolta la via a chi vi venisse ad abitare, ed avendo prese le leggi di Licurgo con riputazione, le quali osservando, levavano via tutte le cagioni de’ tumulti, poterono vivere uniti lungo tempo, perchè Licurgo con le sue leggi fece in Sparta più egualità di sustanze, e meno egualità di grado; perchè quivi era una eguale povertà, ed i Plebei erano manco ambiziosi, perchè i gradi della città si distendevano in pochi cittadini, ed erano tenuti discosti dalla Plebe, nè i Nobili col trattarli male dettero mai loro desiderio d’averli. Questo nacque da' Re spartani, i quali essendo collocati in quel Principato, e posti in mezzo di quella Nobiltà, non avevano maggiore rimedio a tenere fermo la loro dignità, che tenere la Plebe difesa da ogni ingiuria; il che faceva che la Plebe non temeva, e non desiderava Imperio; e non avendo Imperio, nè temendo, era levata via la gara che la potesse avere con la Nobiltà, e la cagione dei tumulti, e poterono vivere uniti lungo tempo. Ma due cose principali causarono questa unione; l’una, essere pochi gli abitatori di Sparta, e per questo poterono essere governati da pochi; l’altra, che non accettando forestieri nella loro Repubblica, non avevano occasione nè di corrompersi, nè di crescere in tanto, che la fusse insopportabile a quelli pochi che la governavano. Considerando adunque tutte queste cose, si vede come a’ legislatori di Roma [p. 36 modifica]Roma era necessario fare una delle due cose a volere che Roma stesse quieta come le sopradette Repubbliche, o non adoperare la Plebe in guerra, come i Viniziani; o non aprire la via a’ forestieri, come gli Spartani. E loro fecero l’una e l’altra, il che dette alla Plebe forza ed augumento, e infinite occasioni di tumultuare. E se lo Stato romano veniva ad essere più quieto, ne seguiva questo inconveniente, ch’egli era anco più debile, perchè gli si troncava la via di potere venire a quella grandezza dov’ei pervenne. In modo che volendo Roma levare le cagioni de’ tumulti, levava ancora le cagioni dello ampliare. E in tutte le cose umane si vede questo, chi le esaminerà bene, che non si può mai cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro. Pertanto se tu vuoi fare un Popolo numeroso ed armato, per poter fare un grande Imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi dopo maneggiare a tuo modo; se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per potere maneggiarlo, se egli acquista dominio, non lo puoi tenere, o diventa sì vile, che tu sei preda di qualunque ti assalta. E però in ogni nostra deliberazione si debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e pigliare quello per migliore partito; perchè tutto netto, tutto senza sospetto non si trova mai. Poteva adunque Roma a similitudine di Sparta fare un Principe a vita, fare un Senato picciolo, ma non poteva come quella, non crescere il numero dei cittadini suoi, volendo fare un grande Imperio: il [p. 37 modifica]che faceva che il Re a vita, e il picciolo numero del Senato, quanto alla unione, gli sarebbe giovato poco. Se alcuno volesse pertanto ordinare una Repubblica di nuovo, arebbe a esaminare se volesse ch’ella ampliasse, come Roma di dominio e di potenza; ovvero ch’ella stesse dentro a brevi termini. Nel primo caso è necessario ordinarla come Roma, e dare luogo a’ tumulti e alle dissensioni universali il meglio che si può; perchè senza gran numero di uomini, e bene armati, non mai una Repubblica potrà crescere, o se la crescerà mantenersi. Nel secondo caso, la puoi ordinare come Sparta o come Vinegia; ma perchè l’ampliare è il veleno di simili Repubbliche, debbe in tutti quelli modi che si può, chi le ordina, proibire loro lo acquistare, perchè tali acquisti fondati sopra una Repubblica debole, sono al tutto la rovina sua; come intervenne a Sparta e a Vinegia, delle quali la prima avendosi sottomessa quasi tutta la Grecia, mostrò in su uno minimo accidente il debole fondamento suo; perchè seguìta la ribellione di Tebe, causata da Pelopida, ribellandosi l’altre cittadi, rovinò al tutto quella Repubblica. Similmente Vinegia avendo occupato gran parte d’Italia, e la maggior parte non con guerra, ma con danari e con industria, come la ebbe a fare prova delle forze sue, perdette in una giornata ogni cosa. Crederei bene che a fare una Repubblica che durasse lungo tempo, fusse il miglior modo ordinarla dentro come Sparta o come Vinegia, porla in luogo [p. 38 modifica]forte, e di tale potenza, che nessuno credesse poterla subito opprimere; e dall’altra parte non fusse sì grande, che la fusse formidabile a’ vicini; e così potrebbe lungamente godersi il suo Stato. Perchè per due cagioni si fa guerra ad una Repubblica: l’una per diventarne Signore; l’altra per paura ch’ella non ti occupi. Queste due cagioni il sopraddetto modo quasi in tutto toglie via; perchè se la è difficile ad espugnarsi, come io la presuppongo, sendo bene ordinata alla difesa, rade volte accaderà, o non mai, ch’uno possa fare disegno d’acquistarla. Se la si starà intra i termini suoi, e veggasi per esperienza, che in lei non sia ambizione, non occorrerà mai che uno per paura di sè gli faccia guerra: e tanto più sarebbe questo, se e’ fusse in lei constituzione o legge, che le proibisse l’ampliare. E senza dubbio credo, che potendosi tenere la cosa bilanciata in questo modo, che e’ sarebbe il vero vivere politico, e la vera quiete d’una città. Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le saglino, o che le scendano; e a molte cose che la ragione non t’induce, t’induce la necessità; talmente che avendo ordinata una Repubblica atta a mantenersi non ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a torre via i fondamenti suoi, ed a farla rovinare più presto. Così dall’altra parte quando il Cielo le fusse sì benigno, che la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe, che l’ozio la farebbe o effeminata o divisa; le quali due cose [p. 39 modifica]insieme, o ciascuna per sè, sarebbono cagione della sua rovina. Pertanto non si potendo, come io credo, bilanciare questa cosa, nè mantenere questa via del mezzo a punto, bisogna, nello ordinare la Repubblica, pensare alla parte più onorevole, ed ordinarla in modo, che quando pure la necessità la inducesse ad ampliare, ella potesse quello ch’ella avesse occupato conservare. E per tornare al primo ragionamento, credo che sia necessario seguire l’ordine romano, e non quello dell’altre Repubbliche: perchè trovare un modo mezzo fra l’uno e l’altro non credo si possa; e quelle inimicizie che intra il Popolo ed il Senato nascessero, tollerarle, pigliandole per uno inconveniente necessario a pervenire alla romana grandezza. Perchè oltre all’altre ragioni allegate, dove si dimostra l’autorità tribunizia essere stata necessaria per la guardia della libertà, si può facilmente considerare il benefizio che fa nelle Repubbliche l’autorità dello accusare, la quale era tra gli altri commessa a’ Tribuni, come nel seguente capitolo si discorrerà.