Discorsi (Chiabrera)/Discorso II

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DISCORSO II

Intorno alla Virtù della Fortezza.


Consigliati dalla nojosa stagione del caldo avete, Signori, per molte settimane passeggiato all'aure fresche di Albaro, e di Fassolo, e di san Pier d'Arena; ed ora per le sere del verno volendo ritornare al Liceo, ed all'Accademia, il principe ha commissioni, ch'io riapra le porte; ed io pronto ad ubbidire son qui, e scorto dalle presenti giornate ove viviamo non affatto tranquillamente, ma tuttavia con rumore di guerra mantenuta da Marte non infievolito, favellerò di materia acconcia alla disposizione, che gli uomini dovrebbono avere in questi tempi. Voglio dire, che essendo in guerra, è da trattare quali devono essere i guerrieri: e però brevemente, e fuori di ogni spinoso sentire io voglio correre un'arringo e gentilmente trattare della Fortezza. Questa virtù secondo l'opinione de' maestri si specchia nella morte, e ne’ suoi pericoli, e gli disprezza, ma non già ciascuna morte, ma quella che si incontra nelle battaglie. Ma per direttamente conoscerla in viso, panni bene di palesare le frodi, le quali alcune sue non legittime sorelle te fanno, e trarre loro dal viso la maschera, onde coprono le loro sembianze, ed in lei si trasformano. Alcuna volta dunque l'uomo postosi a a fronte della morte mostrasi franco, perchè noi facendo i cittadini il caricarebbero di biasimo, e la Patria lo castigherebbe; e di ciò i poeti ne fanno chiari, i quali nelle rappresentate battaglie favellano, o fanno favellare, in modo che i lettori si accorgono di ciò. Ecco Omero nel decimoterzo dell'Iliade; andando le schiere greche disperse si rappresenta Nettuno sotto sembianza di Calcante a dare loro vigore, e dice: O amici, a mano a mano cose più indegne voi commetterete, su su pensate al disonore od alla vergogna. Così diceva Nettuno; e perchè ha pari forza la contraria ragione. Il medesimo Omero rappresenta Ettore, il quale nel decimosettimo dell'Iliade fa i suoi valorosi con la speranza dell'onore, e sono queste le sue parole. Chiunque trarrà il corpo di Patroclo ucciso a noi, io compatirò con [p. 376 modifica]lui la metà delle spoglie, e così pareggierassi meco di gloria. Qui noi veggiamo, che confortansi i soldati a combattere con la paura dell'infamia, e con la speranza dell'onore. Altre volte si mostrano gli uomini valorosi, perciocché essendosi essi trovati in altri pericoli, ne sono campali. E però Virgilio nel primo dell'Eneide volendo fare sicuro l'animo de' suoi Trojani, dice loro: Non vi smarrite o compagni, cose più strane avete sofferto con esso me; la rabbia di Scilla, gli scogli di Aceste, e gli antri del Ciclopo: Coraggio, o compagni; ancora gli uomini nei rischi appajono valorosi per ira, la quale eccita gli spiriti: Di ciò danne esempio Virgilio nel secondo dell'Eneide, laddove Polite percosso ed incalzato da Pirro, venne a morire a piedi di Priamo suo Padre, e a così dolente vista Priamo benché vecchissimo, disse parole ingiuriose a Pirro, ed assaltollo con armi cosi spossato come egli era per lo numero degli anni; ma espone Virgilio, che Priamo non se ne ritenne, perocché ira era in lui. Similmente gli uomini non paventano nei pericoli, quando son falli certi che essi pericoli non sono sì gravi come appajono; ed Omero accennò questa dottrina nel libro quarto dell'Iliade. Quivi Apollo facendo arditi i Trojani, i quali temevano di entrare in battaglia, egli dice loro: O Cavalieri Trojani non temete, perché Achille della bene chiomata Tetide non veste armi, ma dimorasi sdegnato dentro delle navi. Mostrasi qui come il pericolo di che paventavano, era minore che essi non lo immaginavano; perocché Achille non era in campo. Torneano, mentre stimavano, che Achille combattesse, ed era da loro stimato pericolo grandissimo; e fatto loro manifesto che egli per disdegno rimase alle sue tende; e di più cresce loro il coraggio. Tutte queste maniere di fortezze sono false, e vedesi chiaramente, purché si dichiari la natura della vera Fortezza. Che cosa dunque diremo essere la virtù chiamata Fortezza? ella è un abito per lo quale volentieri cheggesi di sofferire le cose orribili per amore della virtù. E qui cose orribili diconsi i pericoli della morte nelle battaglie. Dunque chi muore per fuggire infamia, e castigo non è veramente forte, perchè se non forse il vituperio, e la pena, egli di buon grado si salverebbe. E tanto dicesi di chi confida nei pericoli, perchè altre volte se ne é salvato; perciocché venendo meno la confidenza, egli volgerebbe le spalle. Ne più nè meno avviene nell'uomo adirato; perciocché cessando l'ira, e rimase nel suo slato naturale, perderebbe la franchezza; all'incontro l'uomo veramente forte, senza ninna delle raccontate condizioni, vedendosi in rischio mortale, elegge di morire, e non fuggirà la morte, ma muoverassi volentieri contro i pericoli estremi, purché la cagione di muoversi sia virtuosa. Ora le cagioni degne di incontrare la morte possono essere più di una. Achille fu mosso per la vendetta dell'amico, ed essendogli affermato da Tetide, che egli vendicare Patroclo, e morirsi. È ancora degna cagione difendere la moglie, i figliuoli, e la famiglia; e però Ulisse trovando la casa ripiena di duecento stranieri, da' quali ella si metteva ogn'ora a ruba, fermossi di difenderla, e di sgomberarla, e missosi a pericolo, e fu vincitore. Più avanti, lo scampo, e la felicità de' popoli suoi seguaci spingerà degnamente a perder la vita, l'omo che sia forte. li di più Enea si mosse a peregrinare. Mollo degna cagione che ci si fa di morire, quando si salva la patria. Ecco Decio padre, e figliuolo darsi in voto alla morte per trarre Roma di pericolo. Degnissima cagione si è illustrare la gloria di Dio, e cessare gli oltraggi, che gli si fanno; e però si raunarono tanti principi, e tanti guerrieri in Chiaramonte, e fermatasi la eroe sul Apollo, andarono in Soria, e colà sposero la vita, ed apersero il varco, onde potessero i fedeli adorare la tomba sacratissima. Qui io dico, che questi uomini, e di sì fatte qualità adornali nelle scole, da' filosofi si chiamino Forti, ma nelle accademie, e da' poeti, si appellano Eroi, ed essi sono nelle prose, e nei versi eccelsamente celebrati. Leggasi l'Epitaffio di Lisia, il Menesaeno di Platone, il Panegirico d'Isocrate, e di Senofonte, e tutti hanno adoperato, in maniera, che ogni orecchia è ripiena di nobilissimi nomi. Ma con maggiore rimbombo fanno i poeti volare intorno la memoria degli eroi, e loro tolgono da Lete; e però l'Eternità con sommo studio piglia cura di rischiararli. Qual cuore gentil non arde leggendo i versi di Omero? ed a' canti di Virgilio chi non rimane soavemente incantalo? nè ci lasciano senza dilettosa maraviglia i versi temprati al mormorio non d'Ippocrene, ma del torrente Cedrone, i quali riscaldano i nostri cuori agghiacciati coll'esempio di quelli immortali, che ruppero il giogo alla calpestata Gerusalemme. E per vero dire hanno (secondo la ragione) i possenti di lingua, e d'ingegno, dato tributo di lode a quegli antichi guerrieri, e sarebbe diritto che a' più novelli campioni non si venisse meno delle dovute corone. Non è egli, Signori, se non vogliamo fare oltraggio alla verità, non è Alessandro Farnese da celebrare con sommi titoli? e da porsi a lato ai Latini, ed agli Argivi guerrieri? Quando non si vide egli coperto di piastra? E quando mirossi, discinto di spada? E per quali cagioni poleva insauguinarla più nobilmente? Sue prime imprese furono contro le forze Ottomano, allora che videsi in forsi tutto Occidente. Puossi egli l'asta abbassare più degnamente che contra l'orgoglio degl'infedeli. Poscia diede la vita ai pericoli, e consumolla contra la malvagità degli eretici, onde le Fiandre divampavano. Queste fatiche di guerra presero lo spazio di quattordici anni, e maggiore spazio di tempo vorrebbesi per celebrarle. Ma non facendo io uffizio di poeta, nè di oratore; qui mi basta trascorrendo tornarle a memoria. Dunque ad onta de' nemici, sparse a terra le mura della perderebbe la vita sul piano di Troja, solo che egli amazzasse Ettore; egli di buon grado volle città di Mastrich, ed entratovi per forza d'armi, accatastò le membra degli uccisi nemici [p. 377 modifica]alla sembianza di monti. Valse vittoria sì grande a sgomentare i feroci rubelli di Dio; e però nel suo volere si riposero Tornais, Ulste, Assele, Rupermonda, Alosto, Igri, Brugia, Gante, Maline, Venlò, Grave, Enclusa, città per se ciascuna bastante ad esser materia di una guerra compiuta. Ma non ci perdiamo a mirar stelle avendo davanti il lume del Sole. Anversa può dare impaccio a tutte le Muse, e stancare Elicona. Quivi propriamente parlando, e senza iperbole, si posero i fiumi a giogo; quivi fecesi schermo a' fulmini, e contrasto a' tremuoti; e se altrove giammai furono spade guerriere vaghe di sangue furono quivi. Finalmente ammazzati i campioni di Anversa, il Farnese, vincendola di miseria tornolla felice. Fu poi tratto di Fiandra in Francia a colà manifestare l'eroica sua virtù; perciocchè allora non meno feroce eresia quivi guastava la Chiesa di Roma. Che deesi qui dire per me? Dirò ch’ei trasse Parigi dalla gola di orribili mostri, e fecene rimanere digiuno il Navarrese, il quale la vagheggiava siccome sua; nè altro addivenne dell'ampia città di Roano; ed io preveggo con l’animo, che se poeti porranno unqua la mano a questi soggetti, il mondo maravigliando ascolterà nuovo Simoenta, e nuovo Scamandro, carreggiando la Senna Francese co' fiumi di Troja. Ma noi trattando la forma degli Eroi, e figurandola, non saremmo ingrati a noi medesimi, non esprimendo ii nome di Ambrosio Spinola? Questi in gioventù bramoso di gloria, e non ed oggidì gloriosissimo, non comandato da suo Signore; perciocché nato in città libera, non aveva Signore salvo le leggi; ma di suo buon grado volsesi alla guerra; nè fu a sospirigervelo vaghezza di adunare oro; perciocché di ricchezze era abbondantissimo, nè dovea travagliare per farsi chiaro, essendo il suo sangue Illustrissimo; nella dunque commosse il suo animo, salvo il vero desiderio della virtù, e ragionevole brama di vestirsi l'abito della Fortezza, e per tal cammino giungere al tempio d'eroica immortalita; quinci avviossi nelle Fiandre, ove altro incendio di guerra suscitavano le nazioni rubelle del Vaticano, e quivi tutta l'etate fiorita fu da lui spesa in vigilie, in affanni, in pericoli, e nazioni soggiogò, e cittadi raccolse in fede, e de' capitani, e de' duci trionfo, talmente che puossi con verità affermare, che prima, che a general capitano ci fosse eletto, era degno, che si elegesse a simile grado. E ciò chiaramente appare, poichè tanto perfettamente l'esercitò. Egli per esperienza cauto, per valore ardito, per industria felice per tutto questo sempre invincibile; laonde per ecellenza de' suoi meriti interviene, che avvegnachè altamente si tenga ragionamento di lui, non pertanto bassamente si loda, e dando di sè maraviglia a ciascuno, non sente da niuno lodarsi maravigliosamente. Io non pertanto voglio provarmi; ma che dissero? Troppo lunga tela mi farebbero tesse le sue gran prove. Come posso fermare le mie parole su Clitaberga; su Grolo? su Linghe? su Battendone? Mille lingue stancherebbero l'assedio di Breda. E che dirassi di Ostenda? Ostenda non guerra, ma dottrina di guerreggiare: non assedio, ma scuola di milizia, la quale sforzata per modo tanto ammirabile disperarono i nemici ogni difesa alla loro salute, e gli amici disprezzarono ogni contrasto alle loro vittorie. Ha per tanto goduto Italia a nostro tempo, tali guerrieri in campo, quali se gli formano i maestri in mezzo alle scuole. E se di loro facevasi dono al mondo, quando gli scrittori furono o più grati, o meno oziosi, essi non sarebbero senza epicedj, o senza encomi eccellentissimi. Avrebbero gli istorici descritte le loro vite con altezza di stile, e le loro azioni registrate in carta ad onta del tempo, e dell'umana malignità; e non meno i poeti avrebbero còlti odori sacrati per imbalsamare nomi sì cari, e conservarli intieri per anni non numerabili. Ma noi oggidì dormiamo profondamente, e se amore non ci scuote con sua faretra, amiamo nostro letargo. Cosa amirabile, e quasi abbominevole. L'oro di una chioma, le rose di un viso, l’ostro di due labbra, esercita le celere, sicché ad ogni ora ne assordano, e per l’invitta Fortezza di questi eccelsi guerrieri, non è lingua la qual si snodi! Il loro nascimento più che il nascimento del Sole ha rischiarato, e rischiara il cielo di Italia, e per l'Italia dissi la loro fama in potere di Lete, che la divori? Hanno in battaglia versato il sangue, onde noi siamo onorati, e non si trova, chi per loro onore rinversi inchiostro? Essi diedero di piglio all'armi, e non è chi per loro pigli una penna? Ah cosa da non udirsi! Abbandonare in silenzio una infinita virtù? A torto si nominano i nostri poeti abitatori del Parnaso, ed in vano fanno corte alle Muse. Le Muse figliuole della Memoria eternano nel cielo il nome di valorosi, e comandano in terra a' suoi devoti che lo tengano vivo a forza di canti. Ora con qual viso deono i poeti farsi vedere da esso oro, o loro mostrare la fronte? Io, se non è vanità parlare di sè medesimo, dommi in questo affare, non già meritevole per opra, ma per volontà non reo; che mentre bastommi l'età, feci prova di onorare cantando i valorosi Cavalieri, ed ora ben vecchio faccio querele perchè altri non gli onora. E per certo amerei che le mie parole fossero, come Omero le chiama, alate, e volassero lungo il Sebeto, e sulle rive del Tevere, e d'intorno all'Arno, e per le campagne del Po; e quivi rompessero il silenzio di chi tace, e consigliassero a pentirsi chi canta di vanità. Ma se pertanto non sono bastanti, io mi appago, che elle risuonino per questa sala, piena d'ingegni per sè forti a celebrare la virtù, e destare altrui secondo il dovere a ben celebrarla. Ne crediate, Signori, che di poca cosa si frodino gli uomini forti, temendo privati i loro pregi de' fregi delle scritture. Ma crediate, che se con Cerbero in Val di Tenaro, e con l'Idra in Serna, e col Leone in Nemea fu mestiere della clava di un Ercole, non meno contra l'ozio, e contra le spume attossicate dell'invidia sono richieste prose, e versi dettati dalle Muse, e dal favore di Apolline. Valor tacciuto è [p. 378 modifica]quasi viltà. E solamente consola gii umani sudori per entro le immense fatiche, la speranza di non caduche memorie. Ciascuno averebbe cari i riposi, ed i trastulli, se con la vita si terminasse la fama. Ma la gloria, ove gli eroi si specchiano, fa loro perdere il sonno, e cangiare di buon grado i sollazzi agli affanni, e la quiete alle fatiche ed i diletti alle noje. Non facciamo dunque torto al merito degli uomini grandi, e non lasciamo esser vani i loro desiderj; ma svegliamo i cuori e suscitiamo i spiriti per opera, la quale sia non meno per noi gloriosa, che per gli eroi cantati; e che serberà sempiterno il nostro nome non meno che la loro virtù.