Discorsi (Chiabrera)/Discorso III
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DISCORSO III
Intorno alla Intemperanza.
Quando ultimamente ragionai in questa nobile raunanza, io consigliato dalla stagione e dalla guerra in che viviamo trattai alcune cose, della virtù della fortezza, e parve il ragionamento essere opportuno. Da questo esempio io sono qui tratto a favellare intorno alla virtù della temperanza; perciocché ella é virtù da trattarsene in ogni tempo e che appartiene ad ogni persona, riguardando essa per una parte alla giovinezza, e per un'altra alla vecchiezza specialmente, perciocché la vecchiezza poco esposta a' diletti di Venere, suole agevolmente traboccare in quelli di Bacco, e la gioventù malamente difendersi da Venere, alla quale volentieri Bacco accompagnasi. Nè io favello di questa virtù, e delli estremi che la guastano per sospingere e ritrovare le SS. VV., perciocché elle non ne hanno per la dio mercé, punto di bisogno; anzi ho preso a trattarne, acciò voi, miei Signori, godiate delle vostre lodi, essendone fatti bei possessori. Ed in ciò non hanno le SS. VV. maestri di bassa qualità; anzi veggiamo il singoiar senno di Omero aver messo le tavole a' re greci cariche non di altra vivanda, che di carne di bue, allora che Agamennone diede loro convito, e quando Achille nipote di Etnico e di Giove raccolse Ajace, Ulisse e Fenice a cena, egli già non trapassò i confini della temperanza; anzi nutrivi con tergo grasso di capra, e con lombo di porcello, onorandosi solamente col mescere alquanto puretto. Bene all'incontro veggiamo, che Achille fatto per Omero adirare contro Agamennone, dopo avere con ingiurie gravi disacerbato lo sdegno, finalmente lo appella per somma villania ubbriaco, e che lasciasse cavalcarsi dal vino. E mi rammento che Eschine ritornando ambasciatore da Filippo di Macedonia, e lodando appo gli Ateniesi la qualità di quel principe, fra l'altre numerò, che egli bevea largamente, e che poteva farlo: ed allora Demostene il quale lo disamava, soggiunse: si fatta loda convenirsi a spugne, e non a re. Dico ancora, che Cicerone nemicissimo di Marc'Antonio, e però raccontatore delle vergogne e vizj di lui, una volta acerbamente rimproverandolo, affermò, che egli alle nozze d'Ippia aveva tanto di vino tracannatosi, che in mezzo al popolo Romano fu costretto recere l'altro dì. E veramente nell'istoria leggiamo, che Cesare crebbe suoi pregi con la sobrietà, ed il Grande Alessandro oscurò sua chiarezza col soverchio della bevanda. Nè voglio tacere, che alla bestialità di Rodomonte, ed al mostro di Polifemo, non giovò punto l'innondarsi di vino. E ciò basii, avendo riguardo alla sobrietà, cd all'astinenza. Ma avendo rispetto alla lussuria, dee l'uomo ben nato difendersene, e ci si propone Ippolito, il quale indegnamente morto per serbarsi puro dalle lascivie della matrigna, ebbe grazia di essere ravvivato, e di tornare a' chiari raggi del Sole. E dicono i poeti con favole, dottrinandoci, che Isione tentando di guastare l'onor di Giunone precipitassi nel baratro dell'inferno, colaggiù confitto ad una rota volubile, non trova riposo giammai. E veramente sappiamo che la castità di Scipione gli pose quasi il freno delle Spagne in mano; ma il troppo dilettarsi negli amori femminili, trasse Troja per colpa di Paride a terra. Essendo dunque la virtù della temperanza di tanta lode, e di tanto giovamento agli amici suoi; ed all'incontro tanto danneggiando, e disonorando, chi l'abbandona, è buon consiglio farsi chiaro delle sue condizioni, ed apprendere ciò, che ella sia. Dico pertanto che ella si volge intorno a' maggiori diletti della nostra umanità, li quali appartengono ai toccamento, e ciò sono Lussuria, e Golosità. Per colpa di gola può l'uomo divenir volentieri ebbro, ed anco può divenir ghiotto; e per lussuria può cadere in diverbi errori. Ghiotto appellasi l'uomo in varj modi; cioè quando per vaghezza della vivanda, non aspetta che lo stomaco chieda il nutrimento, ma egli vi corre incontro, ed ancora quando per adescare l'appetito, procaccia condimenti non usati, ed ancora quando carica il ventre fuor di misura; e quando con dispendio cerea esche di pregio; e quando finalmente per brama di buon sapore, scagliasi adosso al cibo rapidamente ed ingojalo. Si fatti vizj mal convenevoli ad uomo ben nato, emenda la Temperanza, ordinando la maniera di nutricarsi con la norma della ragione, e sì fatta norma chiamasi nelle scuole Astinenza, ed ella é da procacciarsi con studio, e da tenersi molto ben cara. E questo basti intorno al nutricarsi con vivande più, o meno; ma del bere, bassi a fare alcuna parola, perciocché intorno al vino sori misure, e dismisure, e da lui dannosi delle lodi, ed anco de' biasimi. Ci si dice da una parte che il vino rende i cuori lieti, e che al dolente egli dee presentarsi, ed a coloro i quali hanno t'animo in amaritudine. Dall'altro lato noi sentiamo, che egli, bevuto largamente suscita ire e ci fa riottosi, e adduce disavventure. Dicesi che aguzza l'ingegno e rinfranca gli spiriti, e che però Omero ne fosse vago; e che Ennio si domesticasse con lui. E perché io non favello ad uditori severi, ed in luoghi sacrali, ma in Accademia e all'orecchie leggiadre ed usate a cose gentili, io non voglio lacere alcuni detti. Anacreonte confessò ne’ suoi versi, che lavandosi di vino egli addormentava ogni noja. Ed Alceo ad alta voce cantò: che a disgombrare le pioggie e lo tempeste del verno, fa mestiere di mescere con larga mano. Ed il grandissimo Pindaro disse che il brindare con rugiada d’uva spumante dentro una coppa d'oro, onorava tutto il convito delle nozze. Ma non pertanto il modo è richiesto, e vuolsi fuggire vergogna, ed è da rammentarsi la battaglia de’ Centauri e de' Lapiti accesa per l’ardore del vino. Ma io ormai getto l’ancora, e diro che dall'ubbriacarsi è buono consiglio prender guardia, perciocché l’ubriachezza è colpa che ci fa odiosi a Dio, e però dobbiamo ricorrere alla Temperanza, ed essa ci metterà per lo diritto sentiero con la scorta della Sobrietà. Ho favellato abbastanza di quel diletto, il quale fassi agli uomini sentire col leccamento del gargatolo. Ora è da dire del diletto il quale sentiamo col toccamento di lutto il corpo negli amorosi abbracciamenti. In sì fatti diletti si può, e suolsi peccare; e qui non è da farsi lungo sermone, ma è da ricorrere alla Temperanza, la quale con pochi ammaestramenti ci fa lodevoli. Non potendo, Signori, il particolar uomo conservarsi senza nutrimento, ella gliele concede, finché il vivere onestamente si conservi: e non potendo i particolari uomini perpetuamente durare, acciocché nella specie almeno non vengano manco, consente l'uso della femmina, e fuori di questo proponimento non lascia trascorrere l’appetito. Ma la bellezza ed il pregio della Temperanza risplenderà, se pigliamo a riguardate la sozzura e la viltà degli estremi fra’ quali ella risiede che già non troverebbe scusa Goffredo, siccome colui gli appone, nella terribile arsura, onde si distruggeva l’esercito, se egli si fosse adagiato a mensa mescolando l’onda fresca al vin di Creta. E ne la farebbe condannare l’atto egregio di Davitte, quando gli fece rifiuto dell'acqua attinta della cisterna di Bettelemme, e da lui molto desiderata; e noi ben possiamo dirittamente affermare, che non da eroi, ma da vili uomini fecero quei cavalieri, i quali si resero alla bella delle reine infedeli, ed arsero ai raggi delle femmine saracine. Ed al Conte di Anglante avvenne secondo il diritto, quando egli fu scemo del senno, e forsennato errossene per lontanissime contrade. Nè maggior gloria acquistassi il figliuolo di Anione; perciocché egli abbandonasse il suo signore, e lasciasse Parigi in pericolo, e cangiasse la patria, e la difesa della religione agli occhi ed alle sembianze di Angelica; nè meno oscurò sua grandezza Tancredi, il quale per femmina non battezzata lasciossi da mal desiderio privare di belle virtù, e mal forte a sofferire il perduto diletto sforzossi di perdere la vita similmente. E Rinaldo non lasciò esempio da seguitarsi ai principi Estensi, che per quanto leggiamo non meno godea nel labirinto di Armida, che sotto le mura di Gerusalemme; ed il giardino di quella perfida maga non gli era men caro, che tutti i cipressi di monte Sionne. Ma se quei baroni non commisero questi falli, siccome dobbiamo darci ad intendere, infamia è dei poeti, i quali contro ragione e contro verità gli infamarono; e certamente di qui non viene loro la ghirlanda del lauro. Oh sono pure ingegni ammirabili? ed io affermo che perciò sono degni di più riprendersi, perché la loro somma eccellenza traggo i lettori ad errare; e possono esser forniti d’intelletto sovrano, siccome io credo, ma poeti ben costumati non sono in ciò. Ne noi dobbiamo mettere il piede nella loro scuola. Bella cosa per certo udir Ruggiero starsi lungo un ruscelletto vestito di spoglie ricamate per mano della concubina, e con gemmato monile sul petto, e tutto cosparso di odori sommergersi col pensiero nel diletto delle godute bellezze, né ad altro pensare; e dimorassesi agramente a suo talento tra i pericoli della guerra; ed era più bella cosa vedere Rinaldo colà per un nuovo mondo specchiarsi negli occhi della perfida incantatrice: ed a lei apprestare lo specchio per affinare le bellezze, onde ella lo disonorava. Questi esempi, Signori, mettonmi nella memoria ciò che di somigliante io, negli anni miei giovanili ho veduto, peregriandò per varj paesi. E dirollo non per mal dire, che io non ne ho vaghezza, nè per emendare, che io non ne ho possanza, ma per tirare il ragionamento a fine, e vagliano le parole quanto elle possono valere. Dico dunque aver veduto uomini canuti, che ad onta degli anni vogliono apparire con negro pelo, e rubellando alle insegne della grave età, pigliano soldo fra schiere lascive; ed ho veduto giovani tutti aspersi e molli di odori, nati più da lontano che l’Arabia non è, mostrarsi con manti trapunti listarianiente e bizzarramente di varj colori. Mostrano le dita coperti di pelle addobbata, e le maniche roversciate oltra il gomito, quasi aspirando a vanto di candidezza. Sui calzari fioriscono rose di seta, ed alle orecchie traforate appendonsi fiocchi di perle. Vassi con colli inlaidati di amito, e con le tempie caricate di ricciaja; e voglia Dio non le guancie sian tinte di puttanesco belletto. I padri e le madri guarniscono di ornamenti femminili i fanciulletti in tempo, che essi per gli anni possono venire adoperati da femmina; e poi cercasi per le piazze, i ciurmatori recano cose strane da mirare? E che cosa più strana non con gli occhi mirare, ma con la niente pensare si può? A ragione dunque giace l’Italia come scaffa di fiume, esposta ad ogni varco di stranieri, e gli Italiani sono quasi spiche sull’aja battuti dall’orgoglio barbarico. Io veramente qui affermo l’intrinseco mio conforto, veggendo le nostre riviere e la maestra città non macchiata di questa pece, e se non tersa affatto, almeno macchiatene leggiermente. E non dobbiamo vergognarsi, Signori, di essere nati tra scogli, ed avvezzi a duramente menare la vita, se già non è, nè fu vergogna per noi, che nostre armate giungessero a’ confini del Mediterraneo, e varcassero gli spazj non misurabili dell’Oceano. Sparta non si mantenne settecento anni contra nemici con la forza delle delizie; ed i Romani quando metteano il mondo a giogo non si addobbavano, nè teneramente si profumavano. Ora io faccio ritorno a mia materia. Dirà alcuno; che monta l'abito? all'opere si da da guardare. E vero che deonsi guardare le opere, una gli arnesi hanno loro favella, ed alcuni modi rendono testimonianza de' costumi. Sentano le SS. VV. Umano quando a posta di Virgilio egli lodava i Latini ed avviliva i Trojani. Non ha, dice egli, non ha qui Ulisse, nè figliuoli di Ateo: siamo gente avvezza, a' disagi. Appena nati ci tuffiamo nell'acqua gelata. Trascorrere boscaglie, domare poliedri, scoccare strali è arte di nostra gioventù. Sempre il ferro ci si vede in mano: nè per vecchiezza infievoliscono gli animi. Gli elmi ci cuoprono la chioma canuta, e ad ogni ora ei giova predare, e godiamo delle rapine fatte sopra i meno valorosi di noi. A voi son care le cotte splendenti di porpora, e che per fregi gialleggino e per ricami. Il cuor vostro è rubato dalle carole, e vi pavoneggiate fra le maniche delle giubbe; e sulla testa fiocchi vi pendono dalle mitere. Castratelli di Frigia, via via per le pendici del Diadimo; colà vi chiamano i cembanelli, ed i frutti di Berecinzio. Badate a quelle tresche, e non vi prenda vaghezza in battaglie, mestiero degli uomini. Cosi favellava, o piuttosto dava sentenza Virgilio tra' Latini e' Trojani. Direte, adunque bassi da vestire e di governare il corpo sudiciamente?... Non per certo; anzi secondo luoghi e tempo vuoisi apparire nobilmente. Nella Eneide noi leggiamo, che Evandro andava da Enea, ed andovvi cinto di spada peregrina, e guarnito gajamente con pelle di pantera; c Pallante suo figliuolo uscì del palazzo con armi dorate, e con sopravvesti di porpora. E di Camilla ci si rappresenta la pompa, allora che conduceva sue schiere alla rassegna; e non tace punto che ella si avvolgeva di ostro, ed i capelli aveva rannodati in oro. E fa motto della faretra, e non meno dell'asta, come di arnesi tutti peregrini. Ed Omero racconta che Agamennone sorgendo di letto, vestissi onorataniente; ma più pienamente fa menzione de' suoi guernimenti, allora che egli esce a dare battaglia. Assai esemplj potrebbonsi mettere innanzi, ma non fa mestiere; e basta dire che la Temperanza ed ogni altra virtù è allogata tra due estremi, li quali sono da vituperarsi; ma la virtù si alloga per mano della ragione, con la quale si ha debito riguardo sopra le operazioni; e di questo forse in questo luogo altra volta terrassi ragionamento.