Discorsi (Chiabrera)/Discorso I
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DISCORSO I
Intorno alla debolezza della prudenza umana.
Quando il signor Principe mi comandò, che io dovessi ragionare in questo luogo, io di partendomi da lui, volsi la mente, pensando quale dovesse essere la materia del ragionamento. Il corso de' miei studj metteami innanzi alcuna gentilezza di poesia; ma a me già canuto salire qui ghirlandato di freschi fiori di Parnaso, pareami mal convenevole: d'altra parte favellare di alcuna scienza, avvegnachè convenisse alle orecchie vostre, a me non era possibile, non avendone appreso alcuna, Dunque dove rivoltarmi? Quello che per me si poteva, era sconvenevole: quello che a voi conveniasi, a me era impossibile. In tal maniera annojato, o dolente del carico preso, ritornai verso le mie stanze. Quivi sul tavolino era un libretto, e conteneva le canzoni di Pindaro; io lo presi in mano, ed a caso aprendolo lessi i versi, i quali spiegavano questa sentenza: Niuno fin qui ha ritrovato sulla terra certo segnale intorno alle cose di avvenire; ed altri fuor di opinione incontra miserie, ed altri di mezzo alle procelle in un punto è tratto a serenità. Parvemi bello il concetto; ma non badando, io trascorsi alcuni fogli, e mi avvenni in queste parole: Sorge per brevi tempo a' mortali la letizia, ed immantinente trabocca a terra. Siamo giornalieri. Che è essere? e che è non essere? sogno di ombra sono gli uomini. Queste parole mi trassero a sé, e mi misero in mente avvenimenti maravigliosi, e molti ne trascorsi con la memoria; ma come in grandissimo mi fermai sopra l'imperio di Roma, allora che cangiò suo governo. In quei giorni Cesare mal soddisfatto del Senato, se ne venne in Italia, seco menando di Francia un esercito piuttosto di masnadieri, che di cittadini. Cesare era guerriero, maestro di accampare, di ordinare squadre, di espugnare fortezze, di sconfìggere eserciti; sprezzatone de' pericoli, sofferitore de' disagi tra i geli della stagione, e fra gli ardori pronto a perseguitare i nemici, quando anche le fiere s'appiattano e per le leggi delle genti al guerreggiare ponsi intervallo. Contro lui si mossero i Lentuli, i Cornelj, i Marcelli, le cui famiglie avevano il Campidoglio ripieno di belle paline, ed anco lo stesso Pompeo, del quale 'l fine della fanciullezza fu principio di guerre grandissime; i cui trionfi erano tanti, quante le parti del mondo, in cui la fortuna, e la virtù talmente congiungeasi, più di quello, assai, che conviensi agli uomini; ma molto meno di quello, che convenivasi a lui. era conceduto comunemente. Cosi atti Capitani se ne vanno fuori d'Italia, e si ritrovano sotto Durazzo. Quivi di giorno i Pompeiani assaltarono gli avversari, ne rimaneano vincitori (per detto di Cesare) se Pompeo sapeva vincere. Mutasi stanza, e vassi in Tessaglia. Cesare senza armata di mare, povero di vettovaglia, afflitto da scomodi aleggiamenti. Pompeo abbondante di viveri, e copioso di moneta, con l'indugio poteva distruggere l'inimico; e tal vantaggio era conosciuto da lui, non per tanto il disprezza, e fa giornata. Di cavalieri aveva numero maggiore, che l'avversario; di fanti il doppio più. Combattesi, i ed i Pompejani sono sconfitti. Ora se il fare giornata era senza ragioni di guerra, ov'è la scienza di Pompeo magno? Se le sue genti vincono sotto Durazzo, perchè non mostrano in Tessaglia almeno la fronte? Non ci partiamo da questo impero, e veggiamo la seconda volta lo stesso ammirabile avvenimento. Bruto, e Cassio armano contro Augusto, e contro Antonio, ma con maggior apparecchio, i Duci eguali, Bruto, ed Augusto non guerrieri; Cassio, ed Antonio esperti del guerreggiare, vengono al fatto, dell'armi. Bruto meno feroce di Cassio vince, e Cassio fu vinto, tutto che Antonio, cui egli combatteva impaurito, da prima si appiattasse nelle paludi. Di più Cassio non aspettando certezza degli avvenimenti, non cercando lo stato di Bruto, disperando senza cagione si uccise, e mise in gravissimo iscompiglio il compagno. Più avanti; morto Cassio, Bruto con maggiore apprestamento di gente, con maggiore provvedimento di vivanda, con migliori alloggiamenti, era ragione che aspettasse l'autunno vicino, il quale con le pioggie usate avrebbe dispersi gli avversari, accampati in regione paludose; ed egli nol fece. Di più l'armata sua ruppe l'armata d'Augusto sul mare vicino, e per Io spazio di venti giorni a lui non ne giunsero novelle alcune, che giungendo non si sarebbe posto al pericolo della battaglia. Dunque contra ragione fu superato. Non ci partiamo dall'Imperio medesimo, e veggiamo come passò la guerra fra Antonio, e fra Augusto. Vero è che Antonio viensene dall'Oriente armatissimo; veleggia con ottocento vascelli verso la Grecia; seco erano i re di Libia, di Cilicia, di Cappadocia, di Patagonia, di Comagene, di Tracia? Quei di Ponto, di Arabia, di Giudea, di Galazia gli mandarono dell'ajuto. Così sforzato nel mare Jonio si affronta col suo nemico. Erano le speranze di tutti in piede; ciascuno procurava di far sua la vittoria con la gagliardezza della destra e dell'animo; ed Antonio volge le spalle, ed abbandona i suoi fedeli, e vien meno alle sue venture. Essendo più allo a guerreggiare in terraferma, guerreggia sul mare. Sul mare può vincere, e mettesi in fuga. Nè gli bastarono sì fatti errori; ma non si ricorda di centomila pedoni, e di venti mila cavalli, i quali saldi, e franchi sotto il governo di Canidio aspettavano suoi comandamenti. Molte in obblivione tante vittorie da lui guadagnate col consiglio, e col coraggio. Per tal moda perdesi l'imperio dell’Universo; e chi lo perde, perdelo per viltà, e chi lo vince, se lo porta senza prova di prodezza. Ove è Antonio? Ove è la scuola di Cesare? Dona di suo buon grado lo iscettro del mondo a chi non aveva possanza di toglierlo di mano per forza. Non sono eglino casi stranissimi? L'istorico gli narra, ma della ragione por quale avvenissero, non fa parola. Forse non la seppe, forse l'arte sua non gli permise manifestarla, io vago l'intenderla, ne cerco appresso scrittore, il qiale, sa, dee narrarla, o questi sarà Omero. Quando dunque fu la bellezza in pregio cotanto, che l'Europa, e l'Asia stimarono se non esser felice senza il volto di una femmina, si videro a fronte nella campagna di Troja i seguaci di Agamennone, ed i seguaci di Priamo. I Greci erano a numero dieci per uno, e nella guerra ammaestrati più fortemente, anzi venendo alla pugna, venivano cheti, ed attenti al fallo loro; ma i Trojani strepitavano come Gru allora che si affrontano co' Pigmei, tali erano i soldati. Capitano dei Trojani, era Ettore. Questi nella tenzone, dice Omero, era somigliante a Leone, il quale scagliasi male animato contro l'armonio, che nella freschezza di alcuna valle pasturasi, ed egli sbrana una vaccarella, e tutto il rimanente mettesi in fuga. Fra i Greci erano molti, e molto pieni di valore; Ajace, il quale azzuffossi con Ettore, e non fu vinto; Diomede il cui scudo, ed elmo spandeva come lume stella di autunno bene lavata nelle onde dell'Oceano, ed egli non solamente domava gli uomini, ma si mosse una volta contra Marte, ed impiagollo. Taccio di Agamennone, di Ulisse, d'Idomeneo. Tutti fortissimi, ed in tal modo i Greci si contavano più a numero, e più prodi; e non pertanto furono finalmente scacciati dal campo, risospinti nello steccato, e quivi non furono bastanti a cessare le fiamme, onde Ettore ardeva le loro navi. Qui dico io; o Omero che tu fossi infermo degli occhi della fronte, hassi per costante, ma bassi per costante non mono che la vista della tua mente era acutissima. Ora come è ciò? È questa cosa verisimile? Molti sono vinti da pochi? Ha meno, feroci i ferocissimi? Qual ragione dai tu? Dàlia, Signori, ed è questa: Tetide Dea marina supplicò Giove, acciò egli onorasse Achille disprezzalo da Agamennone. Giove consentì a quei preghi, ed abbassando le negre ciglia cosparse sopra la testa immortale, chiome molli di ambrosia, e lutto scosse quante elle erano le regioni dell'Olimpo; e per tal modo fece il segno, il quale, nè per froda, nè per impotenza rimane mai salvo adempiuto. Ecco la cagiono, sento che alcuno mi dice: Tu cianci; queste parole sono novelle da veglia. Ove ti dai ad infondere di esser tu? Signori, io non sono tanto sciocco, che non conosca, ove mi sono, ed a chi parlo. Emmi noto ottimamente il vostro sapere, e l'altezza del vostro intelletto; ma se le favole del Poeta vi rassembrano cosa vile, io volgerommi ad immortale scrittura, e d'incomparabile valore, e proverovvi pur ciò. Leggesi nel quarto libro dell'Istoria de' Re, che il Re di Israele, che il Re di Giudea, ed il Re di Edom allegati marciavano contra' Moabiti per lo deserto d'Idumea, e quivi venne loro meno ogni generazione di acqua, e però si stimavano come perduti. Eliseo Profeta promise loro salute, e la dimane la trovarono. Caddero la notte pioggie abbondantemente, e corsero i fiumi rossi come di sangue. I Moabiti, li quali erano in arme, argomentarono, e dissero: Ecco i fiumi corrono sanguinosi, certamente i nimici nostri si sono azzuffati insieme, e tagliali a pezzi; corriamo, ed uccidiamo l'avanzo. Corsero, diedero nei Giudei bene ordinati, e furori spenti. In altro luogo leggiamo che Benaddà Re della Soria assediava, e disertava Samaria, onde regnava fame atrocissima: dice Eliseo: domane sia il grano a prezzo vilissimo. Niuno prestava fede, ma Dio fece sopra il campo de' Soriani immenso rimbombo di cavalli, e di carri, e strepiti infiniti di schiere armate. Dissero i Soriani: gl'Israeliti hanno assoldato Etei, Egizj, e ci vengono addosso; fuggiamo. Preser la fuga, e di qui rimase abbondanza grandissima. Eccovi avverato il detto di Pindaro: Che niuno ha trovato sulla terra certo segnale intorno alle cose future; ma altri fuor di opinione incontra miseria, ed altri in mezzo alle pricelle in un punto è tratto a serenità. E per vero dire, Signori, in ogni luogo, ed in ogni tempo bassi esperienza, che le cose umane sono incertissime. Molte Provincie sono state un secolo piene di tranquillità, e quasi godendosi un secolo d'oro, od avevano gioconde l'albe, e giocondissime le sere, piene di ricchezza, e non impedite di giovarsene. Ma fra nozze, e fra carole menavano loro giornate lieti sposi, o più lieti padri di famiglia. Non temevano di niuno, perchè niuno avevano offeso; speravano tutti amici, perche Lutti erano da loro amati. E repente sorsero odj, e fecersi sentire eserciti non aspettali quasicchè alla maniera di Coleo seminati nascessero di sotterra. Allora le sicurezze si cangiarono in sospetti, ed in pena la tranquillità; tutto fu arme, ogni cosa battaglia; non pertanto uomini montanari, di cui le spade èrano accette, e gli elmi berrettini tessuti di lana. Saltarono dalla boscaglia come numi salvatichi, ed ammorzarono l'ardimento de' soldati, ed appianarono l'orgoglio de' Capitani. Che più? animali lentissimi, cioè a dir buoi misero le ali, e dileguarono come cervi; e per tal modo rimase zoppo un esercito, il quale già cui desiderio divorava la vittoria. Averanno nostri successori di che rammentarsi con dolcezza, e vederassi che a Marte sono non men rari i Litorani, che gli Alpegiani. É vero che rivolse stagione di pena; ma la gloria non si espone a' vili, ed a' neghittosi. Disperdersi le ricchezze, ma si raunarono gli onori. Si videro aprire sepolcri, ma si videro alzare trofei. Diranno le Istorie, da cui non si scompagna la verità, che nostri nemici furono superbi, mentre ci videro non apparecchiati, il diranno; ma che le madri nelle paterne magioni gli raccogliessero come vincitori con lieto sembiante, noi diranno. Che alle vergini figliuole si raunassero ampiezza di dote con saccheggiati tesori, che alle donne amate si fregiasse la bellezza con preziose rapine non lo diranno. Abbandonarono le proprie spoglie invece di predare le altrui, e la rattezza, che mostrarono bravi nel venire la raddoppiarono paventosi nel tornarsene. Aratori, ed uomini di campagna trovarono per balze e per monti usberghi sparsi, scudi, e cimieri, ed aste. E fuori de' nostri confini, non si portarono tutti gli stendardi, ed alcuni arsenali sospirarono le loro Galere. Ora se i Duci avversi rimanessero afflitti, io nol so; so che con noi non rimase nè tristezza, nè melanconia; quinci macchine di metallo ammirabili per grandezza, non meno che terribili, crearono rimbombo di tuoni festosi nella voce de' popoli, ed arnesi destinati a pompa di trionfo per l'inimico, divennero nelle nostre mani testimonianza della sua fuga; quinci ai nostri Signori crebbesi pregio di senno, ed ai sudditi guadàgnossi titolo di fede: e quinci finalmente dalla cima de' nostri monti si sgombrarono nembi, ed orrori, ed alle nostre riviere tornò l'usata tranquillità; e portai modo noi vedemmo gli orgogliosi guerrieri atterrarsi, e fra loro speranze infelici chiudersi il varco d'Italia a Ceri eserciti, quando erano in carriera per calpestarla. Non sono queste somiglianti alle maraviglie di Farsaglia? non a quelle di Troja lungo lo Scamandro? non a quelle veracissime di Giudea? e come avvennero; e perché? Dirollo colle parole del buon Davitte, e come un poeta Greco mi mise in questo discorso, cosi voglio che un poeta Ebreo me ne tragga fuori. Che dice egli? dice che chiunque nel Signore ripone le sue speranze è quasi rupe di Sionne; che mai non abbatterassi l'abitator di Gerusalemme. Montagne lo circondano, e l'istesso Dio fa sentinella intorno ai popoli suoi. Dio chd avvalla, e che sublima; che assenna le vostre sciocchezze, ed avvalora le fievolezze; che uccide, e che ravviva secondo sua volontà. Chi dunque fia forte fra gli uomini in terra? Chi saprà farsi caro al Ciclo, chi vittorioso? il diletto all'alto Monarca degli eserciti? che noi per noi medesimi siamo giornalieri, siamo, e non siamo; e finalmente, come cantò Pindaro: Sógno di ombra sono gli uomini. Signor Principe ho adempito il vostro volere, e da questa seggia discendo pieno di vergogna. E veramente io non sono avvezzo a somiglianti azioni, e male si fa ciò, che non si apprese a fare, lo ho menata la mia vita fra le solitudini del Parnaso, e la frequenza di questi luoghi si nobili mi conturba. Sarà alto di gentilezza manifestare il vostro comandamento fattomi, acciò l'ubbidienza mi sottragga al sospetto della biasimevole, presunzione.