Dialoghi dei morti/12
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Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
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12.
Alessandro, Annibale, Minosse e Scipione.
Alessandro. Io debbo essere preferito a te, o Libio; chè io sono migliore.
Annibale. No, io.
Alessandro. Dunque Minosse giudichi.
Minosse. Chi siete voi?
Alessandro. Questi è Annibale cartaginese, io Alessandro di Filippo.
Minosse. Gloriosi entrambi: ma di che contendete?
Alessandro. Del primato: costui dice d’essere stato miglior capitano di me: io, e tutto il mondo lo sa, affermo che in opere di guerra superai non pure lui, ma quasi tutti gli altri che furono prima di me.
Minosse. Ciascuno dica sue ragioni: comincia tu, o Libio.
Annibale. Questa sola utilità, o Minosse, io avrò tratta imparando qui a favellar greco, chè nemmeno in ciò costui avrà vantaggio sovra di me. Io dico che degni di gran lode son quelli che da prima essendo niente, giungono a grandezza dalla propria virtù sollevati e fatti meritevoli d’imperio. Io adunque lanciatomi con pochi nella Spagna; ed essendo primamente luogotenente di mio fratello, fui stimato degno di più gran cose, e giudicato primo fra tutti: e divenuto capitano vinsi i Celtiberi, domai i Galati d’occidente, e valicati altissimi monti, scorsi tutte le regioni intorno al Po, rovinai tante città, signoreggiai le pianure d’Italia, venni sino alle mura di Roma, ed in un sol dì uccisi tanti nemici, da misurarne gli anelli a staia, e far ponti su i fiumi coi loro cadaveri. Queste imprese io feci non chiamandomi figliuolo di Giove, non facendomi Dio, nè raccontando i sogni di mia madre, ma dicendo di essere uomo, avendo per avversari capitani espertissimi, combattendo con soldati agguerritissimi; ben altri dai Medi e dagli Armeni, che danno le spalle prima di venire alle mani, e lascian la vittoria a chi pure ardisce di volerla. Alessandro ebbe il regno dal padre, ed egli lo accrebbe e di molto lo dilargò col favore della fortuna. Ma poichè vinse quello sciagurato di Dario ad Isso e ad Arbela, lasciati i patrii costumi, si fece adorare, prese vesti ed usanze dai Medi, e nei conviti si macchiò del sangue degli amici, e li fe’ prendere e menare a morte. Io fui egualmente principe nella mia patria: e quand’ella mi chiamò, perchè una gran flotta minacciava la Libia, subito ubbidii; e tornai privato, e poi che fui condannato, il sopportai con civile moderazione. Questo feci io, ed ero un barbaro, un rozzo della cultura greca: e non cantavo Omero, come costui, non fui ammaestrato dal sapiente Aristotele, ma mi guidavo con la sola buona natura. Ecco le ragioni perchè io dico che sono maggiore di Alessandro. Egli cinse il capo di diadema, e forse pare più bello ai Macedoni, usati ad ammirar queste cose: ma non per questo egli sarà stimato migliore di un prode capitano il quale usò più l’ingegno che la fortuna.
Minosse. Ha parlato di sè non ignobilmente, nè secondo Libio. E tu, o Alessandro, che rispondi a questo?
Alessandro. Io non dovrei rispondere, o Minosse, a questo temerario: che la fama basta ad insegnarti qual re era io, e qual ladrone costui: ma pure vedi s’io di leggieri lo superai. Ancor giovanetto venni al regno, e trovatolo sconvolto, lo ricomposi, e punii gli uccisori di mio padre: dipoi avendo atterriti i Greci con la rovina di Tebe, ed eletto da essi a loro capitano, non istetti contento a difendere il regno de’ Macedoni, e a serbar quello che m’aveva lasciato mio padre, ma avvisando col pensiero a tutta la terra, e non avendo posa s’io non la conquistassi tutta, con pochi prodi entrai in Asia. Sul Granico vinsi grande battaglia: mi vennero a mano la Lidia, la Ionia, la Panfilia, e camminando sempre e vincendo giunsi su l’Isso, dove Dario m’aspettava con un esercito di molte migliaia. Ed allora, o Minosse, voi sapete quanti morti io vi mandai in quel giorno solo: il nocchiero dice che allora non bastò la barca per essi, e che molti composero certe zattere e passarono. E tutte queste imprese io feci mettendomi ai maggiori pericoli, e ricevendo anche ferite. Non ti dirò quel che feci a Tiro e ad Arbela; ma che giunsi sino agl’Indi, feci l’Oceano confine del mio impero, presi elefanti, superai Poro, e valicato il Tanai, vinsi in equestre battaglia gli Sciti guerrieri formidabili: beneficai gli amici, fui terrore ai nemici. Se gli uomini mi credettero iddio, non è a maravigliarsene, perchè mi videro far cose grandi e mirabili. Infine io morii da re, e costui da profugo presso Prusia di Bitinia, e come conveniva al furbo e spergiuro che egli era. Non dirò con quali arti egli vinse gl’Italiani: non col valore, ma con la malvagità, la perfidia, gl’inganni, senza scerner sacro da profano. A me rimprovera la dissolutezza, ed ha dimenticato quel che egli fece in Capua, dove tra i sollazzi delle cortigiane questo mirabil capitano perdè le migliori occasioni di guerra. Io mi volsi all’oriente, non perchè credessi piccolo l’occidente, ma perchè, che avrei fatto di grande a prender l’Italia senza versar sangue, e soggettare la Libia, e tutto il paese sino a Gade? Non mi parvero degne di guerra quelle regioni già domate e soggette ad un padrone. Ho detto. Or giudica, o Minosse: Basti questo poco del molto che avrei potuto dirti.
Scipione. Non prima che avrai udito anche me.
Minosse. E chi se’ tu, o prode, e donde?
Scipione. Io sono l’italiano Scipione, capitano, vincitore di questo Cartaginese, e domatore della Libia in grandi battaglie.
Minosse. Che di’ tu adunque?
Scipione. Che io son minore di Alessandro, ma maggiore di Annibale, perchè io lo vinsi e lo costrinsi a fuggir vergognosamente. Come dunque costui non si vergogna di venire al paragone con Alessandro, al quale neppur io Scipione, che ho vinto lui, ardisco di paragonarmi?
Minosse. Tu parli con senno, o Scipione. Io giudico che Alessandro sia primo, tu dopo di lui, e, se vi pare, sia terzo Annibale, chè infine non è da spregiare.