Delle antiche Relazioni fra Venezia e Ravenna/Capitolo IV

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Capitolo IV.

Ravenna disputata fra Guelfi e Ghibellini dal 1249 al 1253. Secondo Trattato fra Venezia e Ravenna.


I conti di Bagnacavallo prendono Ravenna che torna ghibellina. — Moneta veneziana scoperta nel tesoro della basilica Orsiana. — La moneta ravennate parificata a quella di Ancona nel 1249. — Antiche usanze della Chiesa di Ravenna. — Alle intimazioni del legato pontificio, i Ravennati non aprono le porte. — Sono condannati in denaro per avere appiccato il fuoco alle case del podestà. — Della venuta di S. Pietro martire in Ravenna, e della sua famosa predica nella chiesa di S. Giovanni Battista edificata da un veneto sino dal secolo V. — I Veneziani sebbene guelfi fanno accordi di commercio coi ghibellini di Ravenna. — Secondo Trattato (inedito) fra Ravenna e Venezia che compra il traffico del sale. — Primi uficiali veneti in Ravenna (1251). — Filippo Fontana mandato arcivescovo di Ravenna e paciero in tutta Romagna è raccomandato dal papa all’aiuto dei Veneziani. — Adunanza di nobili Romagnuoli in S. Pietro in Vincoli. Nuove minacce ai ghibellini e loro fiera risposta. — Accordatesi le principali famiglie, Ravenna è pacificata nel 1253. — Stefano figlio del re d’Ungheria marito prima ad una Traversari in Ravenna, poi ad una Morosini, muore povero in Venezia.

I. La storia delle relazioni esteriori di una città malamente può disgiungersi dalla storia municipale, né questa può scompagnarsi da quella della sua Chiesa, laonde ci è forza di dilungarci ogni tanfo dalla prima per addentrarci in queste due ultime.

Ravenna presa dai Ghibellini Ravenna era ritornata in potere de’ guelfi, ma nel settembre 1219 essendo partito il podestà e tutta la guarnigione dei Bolognesi per l’assedio di Modena, il conte Ruggero di Bagnacavallo (da’ suoi contemporanei [p. 238 modifica]chiamato sagace ed astuto uomo, callido, versipelle e subdola volpe) assalita la città tranquilla e sguernita, cacciò Guido da Polenta, e le sue genti (fra le quali erano i ghibellini fuorusciti) rubarono le case del podestà e del giudice. Rivoltasi poscia alla basilica Orsiana, la rapace masna- da ne sconficcò le porte, e penetrata là ov’era il tesoro dell’arcivescovo, vi scoperse tre gran sacchi pieni di danaro. Moneta veneta in Ravenna E toltili a gran fatica (chè non si trovò uomo robusto così da poterne solamente smuovere uno dal posto) nei primi trovarono monete ravennati, nel terzo soltanto monete di Venezia.

Questo fatto potrebbe indicare le frequenti relazioni con la repubblica e come la moneta di Ravenna incominciasse a mancare. Erasi infatti divisato di coniarne di nuova, ed in quell’anno medesimo il podestà di Ancona avea mandato a Ravenna certo Marco da Firenze perchè trattasse col Comune e con l’arcivevescovo della forma e del valore delle nuove monete. E si convenne di unificare la lira ravennate e la anconitana, la quale pareggiò, a quanto sembra, 7, 18, 2, delle moderne lire italiane1. E ben presto il papa conferiva il diritto di battere moneta all’arcivescovo Tederico, il quale poi venne a morte il 28 dicembre del 1250.

A strani casi era costui andato incontro nella sua vita come quegli che era stato legato apostolico e nunzio imperiale in oriente, prigioniero di Federigo nelle Puglie, e che poscia ricondotto con sommo onore alla sua sede, aveva avuto tra mano la somma delle cose di Romagna. Che l’autorità dell’arcivescovo rimaneva tuttavia in grande onore, e gelosamente e furiosamente talora era custodita e difesa dal popolo che spesso ne era autore e dispensatore contro la volontà del papa.

Così per la elezione di Tederico, che fu nell’anno 1228, era nata contesa fra l’autorità del clero ravennate e quella [p. 239 modifica] Della elezione degli Arcivescovi ravennati. del pontefice, ma Raimondo Zocoli allora podestà di Ravenna scrisse a Gregorio IX (che rifiutatosi a confermare la elezione avea ordinato che alcuni cherici venissero a lui per informarlo delle intenzioni degli elettori e dei meriti dell’eletto) supplicandolo a voler confermare questo Tederico uomo provvido ed onesto, scelto concordemente dal clero quasi per ispirazione divina e senza studio di parte, tanto più che tutto il popolo fremeva avendo udito che il papa indugiava a confermare il suo eletto2. E come in questo si vede la dipendenza ed insieme la indipendenza di Ravenna dalla suprema autorità ecclesiastica, così la misura della sua libertà politica e della soggezione all’imperatore si ricava da una lettera di Federigo per la quale due anni innanzi comandava al Comune di rifare i danni a certo Donfollino giudeo, a cui era stato ingiustamente tolto certo olio, mentre Pietro Traversai era podestà di Ravenna3. Ed il papa all’udire che il popolo era sì fortemente commosso, non solamente confermava Tederico, ma concedeva a lui ed ai suoi successori tredici vescovati, diciannove monasteri, quarantaquattro rôcche e qui

Taccio d'Argenta di Lugo e di mille
Altre castella e popolose ville


Usanze della Chiesa ravennate. a lui assegnate insieme a lunga serie di onori e di privilegi. Niuno avrebbe potuto ereditare cimiteri o beni di Chiesa, i vescovi suffraganei nessun rilevante negozio trattare senza licenza dell’arcivescovo ravennate, quando però non ne fossero comandati dal papa o dal suo legato. Da questa bolla si rileva come gli arcivescovi in questo secolo solessero stringere i contratti senza testimoni, dannosa usanza che per l’avvenire è. vietata: è invece [p. 240 modifica]confermata l’altra per la quale solevano farsi precedere dovunque dalla croce e dal tintinnabulo, eccettuando però Roma e dovunque il papa fosse più vicino di tre miglia. E quello che più ancora importa di ricordare si è come il papa nel concedere e nel confermare questi onori, dichiarasse di volere del lutto abolita quella abusiva consuetudine o piuttosto quella abbominevole corruttela per la quale quando un arcivescovo era venuto a morto, i cittadini ravennati prendevano e portavano via tutti i suoi beni mobili quasi a toro appartenessero per diritto di successione, ed impedivano all’arcivescovo eletto di entrare nel palazzo arcivescovile, se prima non giurava di mantenere tutte le antiche consuetudini.

E tutte queste cose si ritrovano nel privilegio papale munito di sigillo di piombo pendente da una funicella di seta gialla. Non ritrovo se poi alla morte di Tederico l’antico costume di spogliare il palazzo fosse continuato. Solo rimane una memoria dei beni mobili della sua eredità, nella quale si ricordano sette cavalli, e pare che l’ottavo fosse già stato involato da un suo famiglio, una cintura col fermaglio di diaspro, altre preziose vestimenta e vari arredi sacri4.

I Ravennati resistono al legato papale, son condannati in denaro e scomunicati II. Udita la presa di Ravenna, il legato pontificio vi accorse col podestà, ma i ghibellini non gli vollero aprire le porte, e tornate vane tutte le minacce, furono dichiarati ribelli alla Chiesa, e condannati a pagare diecimila ed ottocento lire al podestà, al quale aveano arse le case, ed ottocento a Bartolommeo Uberti suo giudice che ancora tenevano chiuso in prigione.

E pure, mentre i cittadini faceansi beffe delle scomuniche, per certo miracolo che si crederono di vedere, si mostrarono commossi di religioso timore.

Era una notte freddissima in sul finire del 1249, e camminando a stento sulla neve che in gran copia [p. 241 modifica]continuava a cadere, un frate domenicano entrava nella tenebrosa città. Famosa predica di S. Pietro Martire. Accolto dai sacerdoti che abitavano presso a S. Giovanni Battista, diceva essere venuto per predicare, e li pregava di darne annunzio con le campane. Si rifiutarono dapprima quei preti dicendo che per lo freddo e per lo impedimento della neve pochissimi sarebbero venuti; ma insistendo il frate, per acchetarlo gli promisero che in sull’alba avrebbero suonato, andasse intanto a riposare dal lungo cammino.

Poco dopo alcuni cittadini accorrono alla chiesa e dimandano ai preti perchè avessero acceso un gran fuoco sul campanile, ed essi in prima risposero dicendo se mai sognassero, poi moltiplicatasi la gente e le dimande, guardarono, e scorsero una lucida fiamma sull’acuto cono della sacra torre. Stupefatti allora dalla novità del miracolo, dissero che quello era fuoco celeste che annunziava la santità dell’ospite che in quella notte era capitato, che tutti accorressero il dì vegnente ad udirlo. E la mattina comparve in sul pulpito quel Pietro Veronese del quale era già grande la fama, e predicando egli perdono e pace, molti picchiavansi il petto, prorompevano in lacrime ed uscivan dal tempio ad abbracciare il nemico, a restituire il mal tolto, a riparare le offese, sì che per più giorni parea che fosse venuto in Ravenna il regno di Dio. Ma non per questo furono aperte le porte al legato pontificio, non per questo fu più grande il timore della scomunica.

La chiesa di S. Giovanni Battista (detta oggi di S. Giovanni delle Catene) era stata murata a quanto pare nel V secolo da un Badoero profugo dalla Venezia: fu rifatta nel 1683 nel luogo dell’antica, della quale non rimane che il campanile rotondo con quell’antico cono che si credette vedere illuminato da fiamma celeste per la venuta di S. Pietro Veronese, il quale, come è noto, fu poi morto dai ladroni in Lombardia, e col nome di S. Pietro martire, ebbe onore di templi e di altari. La [p. 242 modifica]memoria della crudele sua fine era ricordata ai posteri dalla più bella tela di Tiziano nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo in Venezia dove fortuitamente rimase abbruciata la notte fra il 15 ed il 16 d’agosto 1867.

E questa leggenda, non mi è parsa da tacere poiché senza tener conto del romore che allora facevano questi creduti prodigi, e della commozione che destavano nel popolo, si può giudicar bene di questi tempi, nei quali neppure il sommo studio di religione bastava a lenire la costanza e fierezza degli animi nei civili contrasti.

III. E coi ghibellini che tenevano Ravenna, i Veneziani strinsero nel 1251 una concordia (che fu la seconda a regolare le cose ravennati) nella quale fu stabilito che il podestà, i rettori, il Comune, i cittadini di Ravenna non introdurrebbero, ne permetterebbero che chicchessia per qualunque mezzo, per qualunque pretesto o qualunque via, introducesse in Ravenna sale da Cervia o da altra parte per un anno intero. Che il sale che attualmente si trovava nella città e nel distretto di Ravenna, non potesse in verun modo esser venduto, tranne nell’interno del distretto pel consumo degli abitanti. Che chiunque fosse trovato con un carico di sale proveniente da Cervia o d’altra parte, mentre traversava il territorio di Ravenna, avrebbe perduto il sale, il carro ed i bovi, e se fosse incontrato per acqua, avrebbe perduto il sale e la nave. In ambo i casi sarebbe multato di IO lire ravennati per ogni centinaio di sale. Se non le pagasse, verrebbe condotto e ritenuto nelle carceri del Comune di Ravenna. Se il contravventore non fosse preso, sarebbe bandito in perpetuo, ed il Comune entrerebbe in possesso dei suoi beni.

Il doge ed il Comune di Venezia si riserberebbero il diritto di tenere uno o più nuncii o procuratori in Ravenna per vegliare alla esecuzione di questi patti ed all’adempimento degli obblighi assunti dal podestà e dal Comune di Ravcnua verso quello di Venezia.

[p. 243 modifica]Il Comune di Ravenna si obbligherebbe a prestare secondo il suo potere, ed in buona fede aiuto, consiglio e protezione ai suddetti uficiali veneziani destinati ad impedire il trasporto dei sali nelle acque e nelle vicinanze di Ravenna, contro tutti coloro che li volessero offendere.

E qui (prevedendo il possibile ritorno dei guelfi discacciati nel 1249, dal conte Ruggero e dall’attuale podestà o piuttosto un probabile accordo fra essi e la parte ghibellina, i Veneziani prescrivono al podestà ed al Comune di Ravenna, che se mai entro un anno la fazione dominante fosse venuta ad una concordia coi Ravennati della parte contraria discacciati dalla città, avrebbe loro imposto la inviolabile osservanza di questi patti fino la compimento del termine di un anno, altrimenti ogni pacificazione con la parte avversa sarebbe vietata dai Veneziani, ed impedito il ritorno dei fuorusciti.

Il podestà Guido Filiarardi, conte di Bagnacavallo, giurò questi patti sul vangelo, e ricevette da Gabriele Paulino rappresentante del doge e del Comune di Venezia 2000 lire di moneta veneta, e fu stipulato che le altre 2000 sarebbero pagate dopo il termine di sei mesi a Ravenna od in Venezia, secondo che al doge sarebbe piaciuto5.

È da credere che Ravenna a ciò fosse condotta dalla necessità di danaro, e che quattromila lire venete in un anno sembrassero compensare abbondantemente i diritti ceduti.

Ed in questo trattato si ritrova la prima radice di quel pieno ed intero dominio che Venezia ebbe in Ravenna cento ed ottantanove anni dopo, giacche per esso sei uficiali veneti potevano essere mandati a risiedere nella città: ed oltre la commerciale, la stessa libertà politica apparisce menomata, che i patti con Venezia doveano rimanere inviolati qualunque cosa avvenisse, ed [p. 244 modifica]ogni pacificazione fra le parti, doveva esser nulla ove li offendesse. Venezia ora guelfa, nondimeno foce accordi con la parte ghibellina che dominava in Ravenna, perchè a suo credere poteva mantenervisi per poco.

IV. Ma i ghibellini tenevano invece alta la fronte in tutta Romagna, ohe la più gran parte de’ nobili accostala a Federigo, persisteva nella fede all’impero, ed il dominio della Chiesa era ormai tornato a niente.

Laonde papa Innocenzo il 5 dicembre di quest’anno mandava Filippo Fontana arcivescovo di Ravenna eletto come angelo di pace a sedare le ire nella Romagna, a ricondurre all’obbedienza della Chiesa tutti quelli che Fedirigo II già imperadore e nemico dell’uman genere, avea distratti dal retto sentiero, a scomunicare pubblicamente coloro, che avrebbero resistito alla sua chiamata6. E nello stesso giorno, e con le stesse parole, papa Innocenzio scrive alla signoria di Venezia, forza e speranza della sede pontificia e di tutti i guelfi, raccomandandole l’arcivescovo Filippo, e pregandola di aiutarlo nella santa opera di giustizia e di pace7.

L’uficio di Filippo, tutto politico agli occhi nostri, giudicavasi allora anche religioso: vedremo più innanzi qua! uomo fosse costui: dagli storici è generalmente detto ferrarese, ma la cronaca di frate Salimbene da Parma (che come familiare lo vide assai volte, ed assai volte parlò con esso, talchè ne ha tramandati molti strani particolari), in più luoghi lo dice toscano e nativo di Pistoia. Anzi ricorda in certo luogo come volendo egli persuadere alcuni frati a desinare con lui, dicesse loro almeno dieci volte parlando toscanamente (tuscice loquendo): mo e’ve’nmto e sì ve renvito:

[p. 245 modifica] Di questa origine toscana dell’arcivescovo Filippo ricordata dal Salimbene, non tiene conto che l’Amadesi8.

Il papa, secondo il Tonduzzi, aveva ammonito Filippo che qualora trovasse i cuori de’ signori romagnuoli troppo duri a piegarsi alla sua autorità, ricorresse ai Comuni di Faenza, di Cesena e di Rimini, lo che mostra che queste città erano rimaste guelfe, e lo abilitava ancora ad imporre moderati tributi alle chiese, so mai gli fosse venuto meno il danaro.

Filippo lesse le lettere papali in un’adunanza di molti nobili romagnuoli a S. Pietro in Vincoli, poichè non poteva entrare in Ravenna tenuta da’ ghibellini. Aggiunse le minacce di scomunica per tutti coloro che avrebbero persistito nella ribellione contro la Chiesa, e con vituperevoli parole ricordò l’usurpazione di Ravenna fatta dai conti di Bagnacavallo, intimando loro di restituire alla Chiesa la mal tolta città.

Ma queste parole piene di burbanza uscite dalla bocca di chi non avea certamente forze bastevoli per farle valere, più che lenire indignarono l’animo dei ghibellini, e la loro risposta fu questa: «Guido Foliarardi podestà di Ravenna, Ruggero conte di Ragnacavallo, il Consiglio ed il Comune di Ravenna scrivono a Filippo arcivecovo di Ravenna eletto, che egli non segue la sentenza di Catone, imperocchè non ci avete già invitati alla concordia con umile e decente sermone, ma con inaspettate e sconvenienti minacce.

«Confidate invano nella nostra dappocaggine o nel timore che può incutere il vostro animo indignato. Nè Ravenna è circondata di paglia, ma di forti mura, nè raccoglie pulcini sotto le sue ali, ma guerrieri del cui valore vi daranno novelle i nostri nemici, ec.9.

[p. 246 modifica]Questa carta sembra dell’anno 1252 incirca. Un’altra del 27 dicembre 1253 mostra come i ghibellini si fossero poi piegati a trattare la paco, poichè il Comune garantisce che non sarebbe stato offeso l’arcivescovo Filippo nè gli ambasciatori di San Pietro in Vincoli che doveano venire fino all’ospedale di San Pietro de’ Crociferi o a porta Sisi, per trattare la concordia fra i Ravennati di dentro e di fuori (intrinsequos et extrinsequos)10, ciò è fra i ghibellini dominanti e i guelfi fuorusciti. E la pace fu conchiusa fra le principali famiglie che erano quelle degli Anastasi e degli Onesti che avevano titolo di duchi , dei Sassi, dei Bichi, dei Pochepenne, dei Gennari, dei Frigi, dei Ghezzo, dei Gervasi e specialmente dei Polentani, dei Traversari che erano emule. - Ritornarono i fuorusciti e riebbero i loro beni; furono riordinati o rifatti gli statuti municipali dove in fine del libro IV si dichiarò immutabile l’accordo stabilito fra i procuratori delle fazioni, sanzionato dall’arcivescovo Filippo, per cui erano perdonate a vicenda le rapine e le ingiurie, dal tempo della presa di Ravenna dai conti di Bagnacavallo (Statuti, ccclxvi-viii).

VI. E fu in questi anni che morta Traversara nipote di figlio di Paolo Traversari, Stefano suo marito figlio del re d’Ungheria e fratello per parte di padre di santa Elisabetta, rimase privo dei beni di casa Traversari di cui fin allora avea goduto, e lasciata Ravenna andò a Venezia. - Gli storici ricordano il suo terzo matrimonio con Tommasina Morosini; la cronica di frate Salimbene da Parma suo contemporaneo riporta vari particolari sopra di quest’uomo tanto agitato fra diverse fortune ed aggiunge che morta la Traversari da Ravenna riparò a Venezia dove morì poverissimo in altissima paupertate et stimma miseria ultimum diem clausit11: ma delle [p. 247 modifica]nozze con la Morosini, delle quali non parrebbe potersi dubitare, non fa motto12.

E tanto si ricorda per non tacere alcuno de’ legami anche leggerissimi che congiunsero la storia di Ravenna a quella di Venezia.






Note

  1. Giuseppe Pinzi, De nummis Ravennatibus. Venezia, 1750.
  2. Arch. Arc. Rav. Capsa E, n. 1922; Amadesii, Cronotaxim, III, pag. 179.
  3. Fant., Mon. Rav. III, n. 37. Arch. Arc.
  4. Fant. Mon. Rav., tom. IV, n. III.
  5. Vedi Documento II.
  6. Fant., Mon. Rav., tom. III, pag. 90. Arch. Arc. Rav. Questa lettera è pure riportata dal Rossi, pag. 426-27, con qualche differenza.
  7. Ibid., pag. 87.
  8. Cronotaxim, tom. 11F, pag. 56.
  9. Fant., Mon. Rav. I, tom. III. p. 94. Arch. Arc. Rav. Cap. I, n. 4211.
  10. Ibid. p. 97, n. 4150.
  11. Pag. 52-53.
  12. Vedi Romanin, Storia documentata di Venezia, tom. I, p. 32-1, e Fant. Mon. Rav., tom. V, pag. 460, brevissima cronaca ravennate.