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fra venezia e ravenna | 245 |
Di questa origine toscana dell’arcivescovo Filippo ricordata dal Salimbene, non tiene conto che l’Amadesi1.
Il papa, secondo il Tonduzzi, aveva ammonito Filippo che qualora trovasse i cuori de’ signori romagnuoli troppo duri a piegarsi alla sua autorità, ricorresse ai Comuni di Faenza, di Cesena e di Rimini, lo che mostra che queste città erano rimaste guelfe, e lo abilitava ancora ad imporre moderati tributi alle chiese, so mai gli fosse venuto meno il danaro.
Filippo lesse le lettere papali in un’adunanza di molti nobili romagnuoli a S. Pietro in Vincoli, poichè non poteva entrare in Ravenna tenuta da’ ghibellini. Aggiunse le minacce di scomunica per tutti coloro che avrebbero persistito nella ribellione contro la Chiesa, e con vituperevoli parole ricordò l’usurpazione di Ravenna fatta dai conti di Bagnacavallo, intimando loro di restituire alla Chiesa la mal tolta città.
Ma queste parole piene di burbanza uscite dalla bocca di chi non avea certamente forze bastevoli per farle valere, più che lenire indignarono l’animo dei ghibellini, e la loro risposta fu questa: «Guido Foliarardi podestà di Ravenna, Ruggero conte di Ragnacavallo, il Consiglio ed il Comune di Ravenna scrivono a Filippo arcivecovo di Ravenna eletto, che egli non segue la sentenza di Catone, imperocchè non ci avete già invitati alla concordia con umile e decente sermone, ma con inaspettate e sconvenienti minacce.
«Confidate invano nella nostra dappocaggine o nel timore che può incutere il vostro animo indignato. Nè Ravenna è circondata di paglia, ma di forti mura, nè raccoglie pulcini sotto le sue ali, ma guerrieri del cui valore vi daranno novelle i nostri nemici, ec.2.