Della tirannide (Alfieri, 1927)/Libro primo/Capitolo I
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Capitolo Primo
Cosa sia il tiranno.
Il definire le cose dai nomi sarebbe un credere, o pretendere, che elle fossero inalterabilmente durabili quanto essi; il che manifestamente si vede non essere mai stato. Chi dunque ama il vero, dée i nomi definire dalle cose che rappresentano; e queste variando in ogni tempo e contrada, niuna definizione può essere piú permanente di esse; ma giusta sará ogni qualvolta rappresenterá per l’appunto quella cosa, qual ella si era sotto quel dato nome in quei dati tempi e luoghi. Ammesso questo preamboletto, io mi era giá posta insieme una definizione bastantemente esatta ed accurata del tiranno, e collocata l’avea in testa di questo capitolo: ma, in un altro mio libercolo, scritto dopo e stampato prima di questo, essendomi occorso dappoi di dover definire il principe, mi son venuto (senza accorgermene) a rubare a me stesso la mia definizione del tiranno. Onde, per non ripetermi, la ommetterò qui in parte; né altro vi aggiungerò che quelle particolaritá principalmente spettanti al presente mio tema, diverso affatto da quell’altro Del principe e delle lettere; ancorché tendente pur questo allo stesso utilissimo scopo, di cercare il vero e di scriverlo.
Tiranno era il nome con cui i greci (quei veri uomini) chiamavano coloro che appelliamo noi re. E quanti o per forza o per frode o per volontá puranche del popolo o dei grandi, otteneano le redini assolute del governo, e maggiori credeansi, ed erano, delle leggi, tutti indistintamente a vicenda o re o tiranni venivano appellati dagli antichi.
Divenne un tal nome, coll’andar del tempo, esecrabile; e tale necessariamente farsi dovea. Quindi ai tempi nostri, quei principi stessi che la tirannide esercitano gravemente pure si offendono di essere nominati tiranni. Questa sí fatta confusione dei nomi e delle idee ha posto una tal differenza tra noi e gli antichi, che presso loro un Tito, un Traiano, o qual altro piú raro principe vi sia stato mai, potea benissimo esser chiamato tiranno; e cosí presso noi, un Nerone, un Tiberio, un Filippo secondo, un Arrigo ottavo, o qual altro mostro moderno siasi agguagliato mai agli antichi, potrebbe essere appellato legittimo principe o re. E tanta è la cecitá del moderno ignorantissimo volgo, con tanta facilitá si lascia egli ingannare dai semplici nomi, che sotto altro titolo egli si va godendo i tiranni, e compiange gli antichi popoli che a sopportare gli aveano.
Tra le moderne nazioni non si dá dunque il titolo di tiranno, se non se (sommessamente e tremando) a quei soli principi che tolgono senza formalitá nessuna ai lor sudditi le vite, gli averi e l’onore. Re all’incontro, o principi, si chiamano quelli che di codeste cose tutte potendo pure ad arbitrio loro disporre, ai sudditi nondimanco le lasciano, o non le tolgono almeno che sotto un qualche velo di apparente giustizia. E benigni e giusti re si estimano questi perché, potendo essi ogni altrui cosa rapire con piena impunitá, a dono si ascrive tutto ciò ch’ei non pigliano.
Ma la natura stessa delle cose suggerisce, a chi pensa, una piú esatta e miglior distinzione. Il nome di tiranno, poiché odiosissimo egli è oramai sovra ogni altro, non si dée dare se non a coloro, (o sian essi principi, o sian pur anche cittadini) che hanno, comunque se l’abbiano, una facoltá illimitata di nuocere; e ancorché costoro non ne abusassero, sí fattamente assurdo e contro a natura è per se stesso lo incarico loro che con nessuno odioso ed infame nome si possono mai rendere abborrevoli abbastanza. Il nome di re, all’incontro, essendo finora di qualche grado meno esecrato che quel di tiranno, si dovrebbe dare a quei pochi che, frenati dalle leggi e assolutamente minori di esse, altro non sono in una data societá che i primi e legittimi e soli esecutori imparziali delle giá stabilite leggi.
Questa semplice e necessaria distinzione, universalmente ammessa in Europa, verrebbe ad esser la prima aurora di una rinascente libertá. È il vero che nessuna cosa poi tra gli uomini riesce permanente e perpetua; e che (come giá il dissero tanti savi) la libertá, pendendo tuttora in licenza, degenera finalmente in servaggio; come il regnar d’un solo, pendendo sempre in tirannide, rigenerarsi finalmente dovrebbe in libertá. Ma siccome per quanto io stenda in Europa lo sguardo, quasi in ogni sua contrada rimiro visi di schiavi; siccome non può oramai la universale oppressione piú ascendere, ancorché la non mai fissabile ruota delle umane cose appaia ora immobile starsi in favor dei tiranni, ogni uomo buono dée credere e sperare che non sia oramai molto lontana quella necessaria vicenda, per cui sottentrare alfin debba all’universale servaggio una quasi universal libertá.