<dc:title> Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Cesare Balbo</dc:creator><dc:date>1846</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Balbo, Cesare – Storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, Vol. II, 1914 – BEIC 1741401.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Della_storia_d%27Italia_dalle_origini_fino_ai_nostri_giorni/Libro_quinto/16._Coltura&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20180421094914</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Della_storia_d%27Italia_dalle_origini_fino_ai_nostri_giorni/Libro_quinto/16._Coltura&oldid=-20180421094914
Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni - 16. Coltura Cesare BalboBalbo, Cesare – Storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, Vol. II, 1914 – BEIC 1741401.djvu
[p. 168modifica]16. Coltura. — Nei tre secoli che corsero dal 774 a questo 1073, la
coltura cristiana universale, imbarbarita sotto ai barbari, ebbe un
primo risorgimento incontrastabile da Carlomagno al principio del
secolo nono; si fermò senza progredire, ed anzi di nuovo retrocedette
sotto gli ultimi Carolingi, e tra le contese dei re, regoli e marchesi
lor successori, dalla metá del secolo nono a tutto il decimo: e
ripigliò poi un tal qual moto progressivo nella prima metá, uno certo
e giá rapido in questa seconda metá del secolo undecimo a cui siam
giunti. — L’Italia ebbe poca parte al risorgimento di Carlomagno; tutto
vi fu opera personale di lui e di quell’Alcuino sassone-inglese
[726-804], ch’egli aveva chiamato e tenuto sovente in corte, e tanto
che il vedemmo consigliere forse alla restaurazione dell’imperio. Tra
i due, istituirono nel palazzo una vera academia; i membri della
quale, non esclusi il vecchio e vittorioso imperatore che non sapeva
scrivere, e i suoi figliuoli e forse alcuni di quelli che noi
chiamiamo i «paladini», e non dovevano esser guari piú colti, tutti
quanti preser nomi academici di Davide, Platone od altri; precursori,
piú compatibili allora, di nostre ragazzate del Seicento e Settecento.
Non saprei dire se l’Italia fornisse di questi academici primitivi. Il
piú che si trovi preso da Carlomagno in Italia fu la musica corale, il
canto fermo romano; di che istituí scuole in Francia, e in che,
dicono, facessesi colá poco progresso. Né so s’io mi rida, o s’io
abbia a dar vanto all’Italia di questo antichissimo primato della
musica, il quale solo or ci resta. Direi, che se non fosse solo,
sarebbe da gloriarcene certamente; ma che, finché è solo, piú mi
accuora il difetto degli altri, che non mi rallegra la perseveranza di
questo; e conchiuderei doverci pur esser cara, e poter anche esserci
utile la nostra musica, se da semplice trastullo o da molle
consolazione ch’ella è a’ nostri mali, la sapesse alcuno sollevare a’
virili e virtuosi incitamenti. La musica, certo rozzissima, de’ greci
antichi fu pur da essi tenuta per mezzo politico non dispregevole a
conformare gli animi loro virili; perché non
[p. 169modifica]sarebbe pur tale la
musica tanto progredita? Ad ogni modo, un gran progresso di essa
fecesi in Italia, verso il principio del secolo undecimo, per opera di
Guido d’Arezzo monaco; il quale inventò, non saprei ben dire, e credo
si disputi, se la divisione delle sette note dell’ottava, o la
scrittura di esse che serví d’allora in poi, o se solamente i loro
nomi. — Del resto, poco o nulla produsse l’Italia nei secoli nono e
decimo; e non è se non appunto tra tal mancanza, che restano degni di
essere accennati Agnello, Anastasio bibliotecario ed Erchemperto,
compilatori delle vite degli arcivescovi di Ravenna, de’ papi, e de’
principi beneventani; Liutprando, storico di que’ brutti tempi de’
marchesi italiani in cui operò; e i due anonimi salernitano e
beneventano, continuatori di Erchemperto. I cronachisti, per poveri
che sieno, hanno sugli altri cattivi scrittori questo vantaggio, di
rimanere preziosi per li fatti serbati. Al principio del secolo
undecimo poi, risplende anche in Italia, dove fu monaco in Bobbio, e
poi papa buono fra molti cattivi, quel Gerberto francese, da cui
alcuni contano il risorgimento delle colture, piú o meno progredite
sempre d’allora in poi; e il quale dicono le prendesse dagli arabi di
Spagna, a cui noi dovremmo dunque originariamente quel risorgimento.
Ma mi pare grande illusione, gran pregiudizio questo dell’origine
arabica della coltura di Gerberto; la quale in gran parte fu teologica
cristiana, e quanto alla parte matematica ed astronomica ed
astrologica, io non so se fosse cosí gran cosa da aver prodotto frutto
di conto allora o poi. Uno scrittor modernissimo attribuisce bensí a
Gerberto l’introduzione delle cifre decimali dette «arabiche»,
attribuita giá a Leonardo Fibonacci; ma appunto il medesimo scrittore
(Chasles) nega che fosse invenzione degli arabi. Il fatto sta, che
questo secondo e vero risorgimento, detto «del mille», non fu se non
del fine di quel secolo undecimo; e fu tutto ecclesiastico, di
ecclesiastici scrittori e d’ecclesiastica coltura; non fu se non come
un episodio, una parte, una conseguenza del gran risorgimento
ecclesiastico che vedemmo incominciare sotto i papi tedeschi, ed
ingrandirsi giá sotto a parecchi italiani, spinti a ciò
probabilissimamente da quel grande intelletto, e massime gran cuore, [p. 170modifica]grand’animo d’Ildebrando, che lo doveva compiere poi. E il fatto sta,
che la parte letteraria di tal risorgimento fu quasi tutta italiana. I
nomi di san Pier Damiano [988-1072], Lanfranco [1005-1089],
sant’Anselmo di Lucca, oltre parecchi altri, e sopra tutti
sant’Anselmo d’Aosta [1033-1109], che fu per due secoli, fino a san
Tomaso, il piú gran teologo e filosofo d’Italia e della cristianitá,
pongono fuor di dubbio questo antichissimo primato della coltura
italiana; e confermano, del resto, ciò che sará forse giá stato
osservato dagli attenti leggitori; che le grandi opere di Gregorio VII
non furono di lui solamente, ma di parecchi insieme, di tutto il
secolo di lui; che Gregorio VII, come tutti gli altri variamente
grandi, non fu grande solitario ma accompagnato; il piú grande fra uno
stuolo di grandi; un grandissimo che non disdegna né invidia gli
altri, ma se n’aiuta. Del rimanente, e tutti questi, ed altri non
nominati, ed Ildebrando stesso, e tutto il risorgimento vennero senza
dubbio dalle numerose riforme di monaci fattesi in questo secolo, da’
monasteri. Ogni cosa ha il tempo suo, e non è cecitá piú nociva ad
ogni retta intelligenza della storia, che non saper veder la grandezza
antica delle cose impicciolite poi. — Finalmente, fu altra parte del
medesimo risorgimento ecclesiastico, il risorgimento di quella che è
sempre primogenita fra le arti del disegno, dell’architettura. Nei
secoli stessi piú barbari, i papi edificarono per vero dire, ed
ornarono chiese in Roma; ma barbaramente allora. All’incontro nel
secolo decimo i veneziani incominciarono San Marco, e fu certamente
grand’opera, principio di risorgimento. Tuttavia fu ancora
architettura bizantina, greca, non nostra, e d’artisti probabilmente
non nostri; come, del resto, quel poco che avemmo allora dell’altre
due arti. Ma è monumento d’arte giá diversa, e che perciò può
incominciare a chiamarsi «italiana», il duomo di Pisa, incominciato da
Buschetto, italiano, nel 1016, finito nel 1092, edificato in gran
parte di ruderi antichi, e in istile che non si può piú dir né romano
decaduto, né longobardo, né greco, né arabo, ma quasi eclectico e giá
originale. Perciocché questo fu fin da principio, nell’arti, come poi
nelle lettere, il carattere dell’originalitá italiana; che ella [p. 171modifica]risultò appunto dallo scegliere e prendere, onde che fosse, ciò che
pareva bello ad ogni volta, senza esclusioni né impegni né quasi
scuola, senza insomma quelle grettezze di nazionalitá che si vanno ora
predicando. Queste non si vorrebber porre nemmen nella politica, dove
son piú dannose; ma caccinsi almeno dalle lettere, o almen almeno
dall’arti, che sono universali di natura loro. — Ad ogni modo e in due
parole, furono notevolissimi due risorgimenti di coltura italiana
nell’etá che or lasciamo; quelli della teologia e dell’architettura;
ed amendue evidentemente ecclesiastici.