Della ragione di stato (Settala)/Libro II/Cap. XII.
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Capitolo XII
Il buon prencipe per niuna causa deve romper la fede data,
ma sempre attendere alle cose concertate e promesse.
Fu stimata cosa tanto odiosa appo i persiani, e tanto indegna non di un prencipe solamente, ma di ciascun altro uomo ancor privato il mancar di fede, o mentire, che niun peccato appo loro fu piú severamente punito, o men compatito e scusato, della bugia e del mancare delle cose promesse, come scrive Senofonte nel terzo dell’Istituzione di Ciro. E certo con gran ragione, perché panni non trovarsi uomo cosí ignorante, che non conosca e veda, la fede esser il principal stromento con il quale gli imperi si stabiliscono, e si rendono immutabili; che è la base della ragion di stato. Imperciocché per mezzo di quella si stabiliscono le compagnie degli uomini, i commerci da lei sono introdotti, i popoli tra loro in amicizia si congiungono, e finalmente senza quella niuno mai si potrá a gran cose incaminare. Pertanto Isocrate ammaestrando il suo Nicocle, di questo principalmente l’avviso, che procurasse con ogni diligenza che alle sue parole piú si desse fede che a’ giuramenti degli altri, perché se bene a tutti conviene servar la fede data, a’ prencipi però e nelle cose publiche molto piú; essendoché, come ci insegnò Cicerone nel terzo Degli uffici, «nissuna cosa piú conserva la republica che la fede, in maniera, che ancora agli inimici si deve servare». Se consideriamo le condizioni del prencipe, quale è quella cosa che meno gli convenga, che la fraude e l’inganno, e che i pensieri suoi non all’umana utilitá, ma al proprio interesse siano volti? Ben disse Agesilao presso Senofonte, che alla grandezza di un re non conviene l’astuzia, e l’inganno, ma la sinceritá, e l’eccellenza di bontá. E questo avanti di lui ci insegnò Salomone al diciassettesimo de’ Proverbi quando disse: Non decet principem labrum mentiens; perché, come disse Tertulliano nel secondo contro Marcione, è cosa da uomo cattivo tesser inganni, perché ciò si può fare senza distruggere la veritá, essendo che la bugia sempre o inganna, o nuoce. Se io volessi qui con essempi, e tolti da’ romani e dalle azioni d’altri prencipi e antichi e moderni, ciò dimostrare, dubiterei di passar i termini, che in questo libro mi sono prefisso: e tanto piú avendo cosí abondantemente ciò fatto il dottissimo Gioanni Chokier nel suo Tesoro degli aforismi politici nel libro secondo.
E se noi non dalli essempi vogliamo ciò cavare, ma essaminar la cosa piú sottilmente, vedremo il mancar di fede, l’ingannare e la bugia esser drittamente contrari alla natura: conciosiacosa che non possa l’umano intelletto, che per suo adeguato e primo oggetto ha il vero, acconsentire, se non quanto egli sotto sembianza è ingannato, al falso. Nondimeno gli uomini e i prencipi, specialmente per un guasto e corrotto uso ricevuto giá tra di loro, par che abbino il mentire per bell’arte: perciocché dicono non potere esser fermo e stabile il loro governo, né altrimenti la loro grandezza e dignitá potersi conservare, se a luogo e tempo non si mischiano degli inganni e delle fraudi. Eccovi che dice Emilio Lepido, presso Salustio ne’ fragmenti: «Niente è glorioso, se non è coperto sotto lo scudo dell’inganno». E questo è quello che presso Seneca disse Egisto: Non intrat unquam regium limen fides, e il medesimo nel Tieste: Ubicumqne tantum honesta dominanti licent, precario regnatur; e quello che scrisse Ciaudiano: Nunc qui foedera rumpit, ditatur; qui servat, eget. E perciò diceva Cicerone nel terzo Degli uffici: «Queste sono le cose che conturbano alcuna volta i prencipi nelle deliberazioni, quando quello, nel qual è violata l’equitá, non è molto grande; e quello che indi si acquista, pare gran bene: e questi tali ancora appoggiano questo lor pensiere sul detto di Giason tiranno de’ tessali: essere necessario, che nelle cose picciole si mostrassero ingiusti que’ prencipi, che nelle grandi volevano osservare la giustizia». Onde Platone nel terzo della Republica ragionando del mentire disse: «Si deve far grande stima della veritá; e certamente agli dèi non giova la bugia, ma agli uomini giova in luogo di medicamento: cioè deve permettersi a’ medici publici, ma agli uomini privati non si deve permettere mai». Dunque a coloro specialmente, se ad alcun’altro, che hanno il governo della republica in mano, conviene il mentire, o per rispetto de’ nemici o de’ cittadini, a commun benefício della cittá. Alla quale autoritá di Platone appoggiati i prencipi crederanno agevolmente, che dove hassi da trattare con nemici, non sia disdetto loro, ma senza offesa della coscienza o dell’onore lo possano fare. O quanto ben disse Isocrate nell’Orazione della pace esser corrotti giá di lunga mano i prencipi da’ suoi cortigiani, l’artificio de’ quali tutto si consuma nell’ingannare. Imperciocché, dicono costoro, essendo la condizion umana sempre stata piena di frodi e inganni, né potendo con candore senza offesa gli uomini praticare insieme; perché vicendevolmente non sará lecito ricompensare con inganni gli inganni, e dove non giova la pelle del leone, ripigliarsi la pelle della volpe? Questo insegnò quella mente volpina del Machiavello, quando scrisse: «A quello, che meglio ha saputo usare la pelle della volpe, è meglio successo». Ma forsi questo tale e i seguaci si appigliano alla sentenza di Eufenio appo Tucidide: «Al prencipe niente è ingiusto, che apporti frutto, e utilitá».
Ma quanto sia perniciosa questa cosí fatta opinione, e quanto pestifera, lo mostrò Senofonte, quando disse: «Io non penso, che il prencipe possa possedere ricchezze piú buone e piú oneste della virtú, della giustizia e della fede». Per tanto non veggo come possano essere iscusati coloro che hanno ardire di dire, che per ragion di stato il buon prencipe, dove si interessi l’utilitá sua o il ben publico, possa mancar di parola, e con finte promesse ancor giurate ingannar non solo l’inimico, ma anco l’amico; non potendovi esser utilitá, dove l’onestá e la virtú non è congiunta. Onde gli ateniesi non accettarono per buona la proposta di Temistocle di abbrugiare l’armata de’ lacedemoni, dicendo, che non essendo ciò onesto, né anco utile poteva essere. E chi ciò non tiene per vero, dice Cicerone nel terzo Degli uffici, non potrá mai esser uomo da bene. Ma che si doverá dunque credere d’un prencipe, che coll’integritá della vita e con la fede deve agli altri soprastare? Odasi quello, che Tucidide nel quarto ne scrisse: «L’inganno in tutti è cosa brutta, ma a quelli, che son posti in maggior dignitá, è bruttissima; anzi, — disse, — è piú brutta, che l’aperta violenza: perché, — soggiunse, — la violenza si fa in vigor della potenza, che ha concessa la fortuna; ma gl’inganni, e le frodi vengono dall’insidie d’ingiusto proposito». Però con Silio Italico si può gridare
Ne rumpite foedera pacis, |
Perché se il prencipe si trova legato di fede, e con giuramento al nimico, potrá forsi romper quel nodo, per dar luogo all’interesse? Per certo doverá conservarlo stretto, per non offender mentendo la propria dignitá e la coscienza. Onde noi veggiamo che i romani, che di senno non furono punto inferiori ai greci, ma di religione e pietá e di valore eziandio nell’armi di gran lunga gli avanzarono, ebbero in tanto onore sempre la veritá e il servar la fede promessa, e tanto aborrirono i tradimenti, che per non macchiarla non guardarono di posporle mai la propria utilitá. Esempio ne sia la lettera scritta dal senato a Pirro re digli epiroti, nella quale l’avvisano del tradimento di Nicia suo familiare, che prometteva a’ romani d’ucciderlo con veneno, se gli davano condegno premio. Il qual fatto celebrò il nostro sant’Ambrogio nel terzo Degli uffici al capo decimoquarto con queste parole: «Questo fatto veramente fu illustre: che per virtú avendosi posto in guerra, non volessero vincere con frodi e tradimenti. Poiché non mettevano nella vittoria l’onestá; essendo che mala giudicavano quella vittoria, che con frodi fosse acquistata». Questo medesimo per questo osservò Sesto Pompeio, quando, sotto sua fede avendo ricevuto nella sua nave Ottavio e Marco Antonio, Mena liberto gli disse nell’orecchia che uccidesse l’un e l’altro, che cosí restava padrone di tutto l’imperio romano; negò ciò mai essere per fare, acciò non si dicesse di lui esser mancator di parola, e aver rotta la fede. Ma oltre un numero infinito d’altri, che potrei addurre, ci rende bellissima testimonianza il fatto di Marco Attilio Regolo co’ cartaginesi, il quale per non mentire non si guardò di rimettersi la seconda volta nelle mani d’un suo nemico e crudelissimo tiranno. E perciò avendo avuto riguardo a questa candidezza e a questa integritá di vita e di costumi, ebbe ragione Valerio Massimo di dire: «Quella curia (cioè romana) piú meritare di esser chiamata tempio della fede, che concilio de’ mortali». Onde per tutti questi rispetti mi pare di poter conchiudere, che ’l mentire disdica in questa guisa ad ogni prencipe, anzi che a’ tiranni ancora; e se ben talora il mentir aggiuti il lor malvagio governo, alla fine suole apportargli l’ultima rovina.