Della ragione di stato (Settala)/Libro II/Cap. XIII.
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Capitolo XIII
Non convenire al prencipe l’esser troppo libero; e che la diffidanza, dissimulazione e secretezza molto sono profittevoli alla conservazione dello stato.
Se bene in questo luogo non mi son preso a formare il prencipe buono, e le virtú delle quali deve esser ornato; non devo però tralasciare di proporre quelle cose, che deve avere, e che si richieggono in lui per conservar il suo stato immediatamente: che questa ò la ragion di stato, che ora tratto. E tre cose principalmente in ciò nel prencipe ricerco: la secretezza de’ suoi pensieri, la diffidanza e la dissimulazione. E quanto allo star cupo ne’ suoi affari, se ben si è stabilito dover il prencipe fugir gli inganni e le frodi; non deve però portar il petto tanto aperto, e mostrarsi altrui tanto libero nelle cose che egli ha da fare, che ciascuno possa tanto agevolmente penetrare i suoi pensieri: anzi stimo, che egli debba sí fattamente tenerli celati, che né anco ad un linceo sia agevol cosa il penetrargli. E perciò è necessario, che egli abbi solerzia specialmente e sagacitá, le quali sono parti, che non si scompagnano mai dalla prudenza. Onde Numa Pompilio, volendo mostrare, come io credo, di quanta importanza fosse la segretezza al governo delli stati, e mantenergli: propose, tra gli altri dèi da adorare, una dea a’ romani sotto ’l nome di Tacita. E perciò chiamò Valerio Massimo la taciturnitá ottimo e sicurissimo vincolo di amministrar le cose. Onde interrogato Cecilio Metello da un centurione giovane del suo esercito, ciò che egli fosse per fare; gli rispose, che s’egli avesse creduto, che la camicia che portava fosse stata consapevole del suo pensiero, la si sarebbe tratta e datala al fuoco. Ed Antigono a Demetrio suo figliuolo, che giovanetto ancora aveva ricercato di saper da lui il tempo del mover l’esercito, sdegnosamente riprendendolo rispose: — E che? temi di avere ad esser tu solo, che non oda il suono della tromba? — Non lodo però nel prencipe l’andar tanto secreto, che voglia all’improvviso assaltare lo stato altrui, e prendere qualche cittá, o luogo di quello, che si destina per nemico, senza dargliene contezza, come si suol fare d’alcuni prencipi a’ nostri tempi. I romani mandavano avanti li feciali, che, proposta la causa, intimavano la guerra. A’ tempi inferiori si mandavano gli araldi a questo effetto, e si riputavano a vergogna mover guerra all’improvviso a chi ogn’altra cosa pensava; e noi non riprenderemo il nuovo nostro modo di romper la guerra all’improvviso a chi mai pensò tal cosa, per coglierlo senza difesa? Per la qual cosa terminerò la presente materia con questa conclusione: che tanto merita il prencipe biasimo nel mentire, e nell’opprimere gli altri nascostamente, e nel mancar della parola, quanto egli è degno di lode nel coprir con solerzia, e con sagacitá i suoi pensieri.
Compagna della secretezza è la dissimulazione, le quale è quella che apre la fronte, e copre la mente, che pure non è disdicevole al buon prencipe; se crediamo al buon Isocrate nell’orazione A Nicocle, quando disse: «Simulare e dissimulare, quando il tempo la richiede, non disdice al re, ma questo solo nelle cose publiche; perché nelle private deve in ogni modo esser dal prencipe bandita. E quello, perché avendo da dar udienza a tanti, e sentir tante cose per poterle spedire, e non iscoprire i suoi pensieri e disdegni, molte cose bisogna che simuli ancora mal volentieri, e molte dissimuli con dolore». Questa dissimulazione fu familiare a Sigismundo imperatore, che spesso solea dire: — Chi non sa simulare, non sa regnare. — E Agesilao cosí prudente capitano de’ Lacedemoni, come scrisse Senofonte nelle sue lodi, soleva dire che di maniera si era usato, che avendo paura si mostrava tutto gioviale, e nelle cose prospere timidissimo. Grande artefice della dissimulazione scrive Dione Cassio nel libro diciasettesimo che fosse Tiberio, del quale scrive cosí: «Mai di fuori mostrava che cosa desiderasse, e usava ragionamenti in tutto lontani da quello che aveva nell’animo: negando tutto ciò che desiderava; mostrando di acconsentire a quelle cose, che aveva in odio; si mostrava scorucciato, quando non abborriva tal cosa; fingeva di esser con quiete d’animo, quando era tutto sdegnato; mostrava misericordia verso coloro, che pure egli aveva condannati a qualche supplicio; si mostrava sdegnoso contro quelli, a’ quali pure perdonava; guardava gli inimicissimi con volto piacevole, e gli amicissimi con faccia piú presto sdegnosa. E finalmente giudicava non esser bene, che l’animo del prencipe fosse da alcuno conosciuto: ed era solito dire che l’animo del prencipe conosciuto era causa di moiti e gravi mali; e per lo contrario il dissimulato apportare piú e maggiori comodi». La simulazione ancora, pur che sia senza bugia, esser utile per conservar gii stati, si potrebbe provare con l’esempio di Giuditta con Oloferne, e di Giuseppe con i fratelli.
Hovvi da principio aggiunta la diffidanza: questa ci insegna a creder poco e dubitare assai; perché essendo il mondo pieno di frodi, insidie, e perfidie, quella ci ammaestra a non inciamparvi. Benissimo diceva Seneca: Persuasio magnimi ad malum ducit cito; si quidem nocendi aditum praestat fides. E Teognide: Res mihi fracta fide, res diffidendo retenta. Perché diceva Quinto Cicerone, nella Petizione del consolato, i nervi e la forza della sapienza essere il non credere troppo facilmente; e perciò diceva Lisandro, che il principe deve esser e leone e volpe: quello per metter paura a’ nemici, e questo per schifare le loro insidie. Scrive Filostrato, che essendo ricercato Apollonio Tianeo dal re di Babilonia, in qual maniera potesse regnare con sicurezza, rispondeva: — Se tu onorerai molti, e a pochi crederai; — e veramente è cosí: conciosia che per il piú quelli che negociano con principi sono cupi, astuti, ingannatori; e perciò diceva Archita tarentino, che siccome non si trova pesce senza spine, cosí è difficil cosa trovar uomo, che non abbi qualche cosa dello spinoso e del fraudolente. Bisogna però che ancora nella diffidenza vi sia modo e misura, perché, molto ben diceva Seneca, il creder a tutti e a nissuno, l’uno e l’altro è vizio.