Della ragione di stato (Settala)/Libro II/Cap. XI.
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Capitolo XI
Quanto sia pericoloso ad un prencipe il patire,
o che s’introduca nuova religione, o che piú d’una si permetta.
Non ha dubbio, se con la memoria vogliamo ricorrere le cose passate, che coll’alterazione e con la mutazione della religione, non si siano alterati consequentemente e mutati i governi. Perciocché la religione è l’asse, al quale necessariamente deve appoggiarsi, se non vuole rovinare ogni stato, e ogni regno: il quale tanto si conserva, per parer di Plutarco nel parallelo di Teseo e Romolo, se non vi si fa nulla che non convenga farsi, quanto se vi si fanno tutte le cose convenienti. E quindi è che i romani, secondo che al libro primo racconta Valerio Massimo, allora che furono trovate quelle due arche, nell’una delle quali mostrava l’epitaffio scritto di fuori che fosse stato il corpo di Numa Pompilio, e nell’altra erano riposti sette libri romani appartenenti all’ufficio de’ pontefici, e altrettanti greci della disciplina della sapienza; serbarono i romani, e i greci, perché stimavano che riguardassero in qualche parte allo scioglimento della religione, furono di autoritá del senato alla presenza del popolo dati al fuoco: perciocché non vollero, come scrive il medesimo, quei savi uomini che si conservasse cosa nella loro cittá che avesse potuto ritrarre gli animi da quel culto, che da religiosa persona si deve agli dèi. Anzi in quelle cose ancora, nelle quali volevano che specialmente risplendesse il decoro della somma maestá, mostrarono di stimar tutti gli altri interessi inferiori alla religione. Claudio, essendo e imperatore e censore, non riprese egli la negligenza de’ ministri de’ suoi tempi, che tanto fossero stati negligenti nel fatto della religione, avendo permesse forastiere religioni e nuovi riti nella cittá? Onde Tiberio, che pure abbiamo dimostrato essere stato tiranno, vedendo in quanto pericolo potesse metter lo stato l’introdurre in esso nuova religione, raffrenò, come scrisse Tacito nel libro secondo degli Annali e Svetonio, le ceremonie e i riti degli egizi e de’ giudei; costretti tutti coloro, che erano immersi in tal superstizione, ad abbruciare insieme con ogni stromento le vesti religiose che solevano portare: avendo rilegato i giovani degli ebrei sotto specie di sacramento nella Sardegna e in altre provincie, dove l’aria era a sofferirsi grave e perniziosa; e gli altri della medesima gente, o che seguitavano i medesimi costumi, cacciati dalla cittá sotto pena di perpetuo esilio, se non avessero obedito. Cosí fece Nerone contra cristiani; e al tempo della republica, nel 327 di Roma, e dopo piú di dugent’anni, dopo essere giá Annibale in Italia, e nel 568 quando sotto pretesto di religione fu scoperto che si commettevano tante sceleratezze, e con leggi e pene straordinarie furono proibite tutte le religioni e riti nuovi e forastieri; aggiorna ancor la causa: perché nissuna cosa è piú atta a sciorre la religione, che dove riti di straniera religione sono ricevuti. E perciò nelle leggi delle dodeci tavole fu vietato aver dèi separati o nuovi o forastieri, se per publico consiglio non fossero stati ricevuti, come scrive Cicerone nel secondo Delle leggi. E perciò Mecenate in quel savio ragionamento, nel quale consegna Augusto come si debba governare nel suo imperio, scritto da Dione al libro LII, quando viene a parlare degli dèi, cosí favella: «I dèi, Augusto, sempre e in ogni luogo in tal guisa adorerai, qual’è della nostra patria il costume, e in tal maniera li farai dagli altri adorare. Gli autori di forastiere religioni castiga severamente, sì per conto delli dèi, — li quali se alcuno disprezza, qual cosa umana non disprezzerá egli? — e sì perché coloro, li quali nuove deitá introducono, molti spingono a servirsi di straniere leggi: onde nascono congiure, radunanze, e conciliaboli, cose che non si confanno punto col principato di un solo». Perciò Driope ateniese fece una legge, per la quale dava la pena della vita, a cui nella religione avesse introdotto nuovi riti; e gli istessi ateniesi condannarono a morte Socrate, perché pareva che volesse introdurre nuova religione. Il che presso chinesi sappiamo esser in uso, dove per legge è stabilito, che in quel regno non vi sia introdotta altra religione che la solita, senza il consenso del re e suo consiglio, e chi altrimenti fa, sia punito nella vita.
Ma perché vado io ricercando nell’antichitá essempi? A’ tempi nostri pur troppo l’abbiamo visto e provato. La Fiandra ce lo mostra, dove per causa di mutazione di religione la piú longa guerra, che al mondo sia stata, pur ancora s’incrudelisce, e dove buona parte di quella provincia ribellata dal suo natural signore, si ha piantata in signoria separata; sappialo dire la Francia, nella quale, dopo introdotti i nuovi errori di Calvino, tante turbolenze, e cosí sanguinose guerre si sono viste. Che non si è visto di mutazione di stato, e di sedizioni e ribellioni in Alemagna, Austria, Polonia, Ungaria, Boemia, Svezia, e altre provincie? Ad ogni novitá adunque nella religione bisogna che il prencipe quanto prima facci resistenza, e che ancor l’autore o castighi o bandisca. Né è vero quello, che questi novatori gridano, dover esser libera la coscienza; e la fede dover esser persuasa, non commandata, né sforzata. Perché questo è vero ne’ popoli infedeli, che non devono esser sforzati a battezzarsi, ma altrimenti si ha da procedere con quelli, che con noi giá sotto una medesima religione si sono congiunti. Benissimo a questo proposito sant’Agostino contra Petiliano nel libro secondo al capo LXXXII. Alla fede è vero che nissuno deve esser forzato, ma tutto si deve rimettere alla severitá o misericordia di Dio, che con suoi flagelli suol vincere la loro ostinazione. È forsi vero, che perché i buoni costumi con il nostro libero arbitrio si eleggono, i mali costumi ed i vizi non si debbano castigare con la severitá della legge? Ma però la disciplina del castigar il vivere vizioso pare esser fuori di tempo se non sará ito avanti lo sprezzo del ben vivere. Pertanto, se si sono fatte leggi contra voi eretici, per quelle voi non sete sforzati a far bene; ma ben vietato il far male. Il che osservarono gli etnici stessi, li quali tanto fecero capitale della loro religione, ancor che falsa, che a forza d’arme se la ritennero sincera: anzi severamente castigavano i ritrovatori e introduttori di nuovi dèi e nuovi riti della religione. Il Turco, che però signoreggia despoticamente, ne’ paesi de’ cristiani acquistati da lui non forza alcuno a mutar religione, o lasciar la fede cristiana giá impressa negli animi de’ sudditi: ma, per la regola giá scritta di ragion di stato, non vuole che si innovi cosa alcuna nella religion cristiana; e non solo con leggi austere proibisce introdursi eresie, o di Lutero o di Calvino o altro; ma né anco vuole, che levato il scisma greco, s’introduca universalmente la fede e riti della fede cattolica romana. Anzi il permettere che s’innovi o che si alteri negli stati la religione, è cosa non solamente perniciosa a’ prencipi che legittimamente governano, ma può mandar in rovina eziandio gl’istessi tiranni. E perciò mi pare, che possiamo ormai conchiudere, che ’l tiranno, benché nel cuor suo non ritenga vestigio alcuno né di religione, né di pietá, anzi sia, come io credo, ateista; dee nondimeno per buon ragion di governo procurare, che nello stato i suoi popoli abbraccino, e ritenghino tutti, il medesimo culto, e la medesima religione.