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della ragion di stato - ii 81


suo familiare, che prometteva a’ romani d’ucciderlo con veneno, se gli davano condegno premio. Il qual fatto celebrò il nostro sant’Ambrogio nel terzo Degli uffici al capo decimoquarto con queste parole: «Questo fatto veramente fu illustre: che per virtú avendosi posto in guerra, non volessero vincere con frodi e tradimenti. Poiché non mettevano nella vittoria l’onestá; essendo che mala giudicavano quella vittoria, che con frodi fosse acquistata». Questo medesimo per questo osservò Sesto Pompeio, quando, sotto sua fede avendo ricevuto nella sua nave Ottavio e Marco Antonio, Mena liberto gli disse nell’orecchia che uccidesse l’un e l’altro, che cosí restava padrone di tutto l’imperio romano; negò ciò mai essere per fare, acciò non si dicesse di lui esser mancator di parola, e aver rotta la fede. Ma oltre un numero infinito d’altri, che potrei addurre, ci rende bellissima testimonianza il fatto di Marco Attilio Regolo co’ cartaginesi, il quale per non mentire non si guardò di rimettersi la seconda volta nelle mani d’un suo nemico e crudelissimo tiranno. E perciò avendo avuto riguardo a questa candidezza e a questa integritá di vita e di costumi, ebbe ragione Valerio Massimo di dire: «Quella curia (cioè romana) piú meritare di esser chiamata tempio della fede, che concilio de’ mortali». Onde per tutti questi rispetti mi pare di poter conchiudere, che ’l mentire disdica in questa guisa ad ogni prencipe, anzi che a’ tiranni ancora; e se ben talora il mentir aggiuti il lor malvagio governo, alla fine suole apportargli l’ultima rovina.

Capitolo XIII

Non convenire al prencipe l’esser troppo libero; e che la diffidanza, dissimulazione e secretezza molto sono profittevoli alla conservazione dello stato.

Se bene in questo luogo non mi son preso a formare il prencipe buono, e le virtú delle quali deve esser ornato; non devo però tralasciare di proporre quelle cose, che deve avere,

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