Della imitazione di Cristo (Cesari)/Libro III/CAPO LII

LII. Che l’uomo non si tenga degno di consolazione; anzi piuttosto meritevole di castigo.

../CAPO LI ../CAPO LIII IncludiIntestazione 21 ottobre 2016 75% Da definire

Tommaso da Kempis - Della imitazione di Cristo (XIV secolo)
Traduzione dal latino di Antonio Cesari (1815)
LII. Che l’uomo non si tenga degno di consolazione; anzi piuttosto meritevole di castigo.
Libro III - CAPO LI Libro III - CAPO LIII
[p. 247 modifica]

CAPO LII.


Che l’uomo non si tenga degno di consolazione;

anzi piuttosto meritevole di castigo.


1. Signore, io non merito la tua consolazione, nè alcuno spirituale ricreamento; e però tu mi fai giustizia a lasciarmi povero e desolato. imperocchè quando pure io potessi gittar lagrime a guisa di mare, non sarei però degno della tua consolazione. Il perchè niente io merito, che d’essere flagellato e punito; il quale gravemente, e assai volte t’ho offeso, e in molte cose peccato. adunque se [p. 248 modifica]io giudico sanamente, non m’è dovuta nè pur la menoma consolazione. Ma tu, Iddio misericordioso e clemente, il quale non vuoi che le tue fatture vadano a male, a manifestar le ricchezze della tua bontà ne’ vasi di misericordia, anche senza alcuno merito proprio, degni di consolare il tuo servo in sopraumana maniera: essendo che le tue consolazioni, non sono come le ricreazioni degli uomini.

2. Or che ho io fatto, o Signore, da dovermi tu dare alcun celeste conforto? io non ho fatto, ch’io sappia, niente di bene; anzi a’ vizi fui sempre inchinevole, e tardo all’emenda. Egli è ciò vero, nè io il posso negare. se io dicessi altramenti, tu mi smentiresti, nè alcuno torrebbe a difendermi. Che ho io altro meritato per le mie colpe, se non l’inferno, e ’l fuoco che non ha fine? Confesso adunque con verità, ch’io son meritevole d’ogni scherno, e d’ogni disprezzo, nè ben mi conviene d’essere annoverato fra i tuoi divoti. E quantunque io ’l senta mal volentieri; nondimeno per amore di verità, io accuserò in faccia mia i miei [p. 249 modifica]peccati, acciocchè io meriti d’impetrare più facilmente la tua misericordia.

3. Or che dirò io, reo e pieno d’ogni vergogna? io non ho lingua da dire altre parole, che pur questa sola: Ho peccato, o Signore, ho peccato, abbimi misericordia: dammi perdono. lasciami alcun poco piangere il mio dolore, prima ch’io vada alla terra dell’ombre, e della caligine della morte coperta. Or che vuoi tu meglio da un reo, e miserabile peccatore, se non ch’egli contrito si umilj per le sue reità? Dalla vera contrizione e umiliazione del cuore, la speranza si genera del perdono, si ricompone la agitata coscienza, si ricovera la grazia perduta, si salva l’uomo dallo sdegno avvenire, e si abbracciano insieme nel santo bacio, Dio, e l’anima penitente.

4. L’umile dolor de’ peccati, t’è, o Signore, accettevole sagrificio, che di gran lunga più del profumo dell’incenso ti sa odoroso. Esso è pure quell’unguento fragrante, che tu hai voluto che fosse versato su i sacri tuoi piedi; poichè il cuor contrito e umiliato, tu nol disprezzasti giammai. quivi è luogo di ricovero dalla [p. 250 modifica]faccia dell’arrabbiato avversario: ivi s’ammenda, e si lava tutto ciò di sozzura, che l’uomo contrasse dondechessia.