Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte seconda/21

Parte seconda - 21. Ambizione, e Confusione; due principj d'Oscurità, affettata, e naturale.

../20 ../22 IncludiIntestazione 19 giugno 2024 75% Da definire

Parte seconda - 21. Ambizione, e Confusione; due principj d'Oscurità, affettata, e naturale.
Parte seconda - 20 Parte seconda - 22
[p. 120 modifica]

OSCURITA’

21.

Ambizione, e Confusione; due principj d’Oscurità, affettata, e naturale.

Se opinione non fosse affatto lontana dal vero quella che anticamente ebbe si ferma credenza nel volgo, le stelle fisse essere madri e custodi dell’anime, e ognuno mentre vive aver colasù in cielo la sua, di prima, di prima, di mezzana, e d’ultima grandezza e splendore, giusta i gradi della Fortuna che più o meno riguardevole in terra lo rendono; certe anime oscure, certe menti cimmerie, onde avrebbe a dirsi che fossero scese, senon dalle Nuvolose e torbide stelle, che hanno sì poca luce in tanta caligine, che fra le stelle sembrano anzi macchie che stelle?

Queste sono quelle infelici anime Etiopesse, che tranno oscurità dal Sole padre della chiarezza, imparano la confusione dalla Sapienza madre dell’ordine; dal fuoco del sacro Palladio, onde tanto più luminosi sono gl’ingegni quanto più accesi, altro non prendono che l’oscurità e la negrezza de’ carboni; e sdegnando pupille d’Aquila per [p. 121 modifica]occhi di Nottola, all’ora più si stimano uccelli di Pallade, quando sono più notturni.

Indarno adoprerebbe con essi la solita sua conghiettura il savissimo Socrate, che, sapendo la favella essere un’Imagine viva dell’anima, per aver cognizione di chi altri fosse, gli diceva: Loquere, ut te videam. Il loro favellare, il loro scrivere è come disegnare in piano certe mostruose figure di volti, ma sì divisati, e di fattezze sì contrafatte, che occhio non v’è che vi riscontri lineamenti d’umano sembiante, senon là dove in un Cilindro di pulito acciajo di riflesso si mirano. Ingegni infelicemente ingegnosi. Dedali maestri solo di labirinti sì ritorti, sì confusi, che appena eglino stessi truovano filo che ne gli sprigioni.

Ma non è d’una stessa natura ogni oscurità, nè un solo è il principio e la fonte di tutte. Conciosiecosachè una vẻ ne sia fatta ad arte, l’altra avuta dalla natura. Questa difetto d’ingegno, quella effetto d’ambizione: l’una degna di compassione, l’altra di biasmo.

Opinione accettata dal volgo è, ogni oscurità essere argomento d’ingegno, e l’altezza d’un grande intendimento misurarsi da essa si bene, come già da novecento stadj d’ombra si rintracciò la sublimità della mole del monte Ato. La Natura aver date all’oscurità della notte le stelle, e a quella degl’ingegni la Sapienza. Dio medesimo negli Oracoli suoi essere stato tutto caligine: e l’eccessiva luce in cui abita, in cui si vede, aver nome di tenebre, perchè sì fattamente lo mostra, che in un medesimo lo nasconde. Non altro essere stato lo stile de’ più savj Antichi, le cui menti sublimi, i cui ingegni d’alti pensieri, quasi montagne d’ertissimo giogo, tenevano quasi sempre fra le nebbie e fra le nuvole il capo. I loro scritti tanto più sicuri alla pescagione, quanto più torbidi; tanto più abili ad iscoprire carbonchi e diamanti di sodissime e chiarissime verità, quanto avevano più folte le tenebre.

Così ingannato il volgo da una falsa apparenza di verità, ammira sempre più quello che meno intende. 11 limpido, il chiaro, quantunque profondo, perchè l’arriva coll’occhio, nol cura: un palmo d’acqua torbida, perchè [p. 122 modifica]non può con lo sguardo penetrarvi all’imo, giudica essere un’abisso di sapienza. Così ancor nelle Lettere,

          Alba ligustra cadunt, vaccinia nigra leguntur.

Quindi alcuni prendono per ambizione d’ingegno affettazione d’oscurità, e con l’arte di non farsi intendere pretendono di farsi adorare. Si mutano in più forme che Protei, per uscir delle mani di chi li tiene, sì che non li conoscano per quel che sono. Inventano più geroglifici dell’Egitto, perchè si creda esservi un midollo di soda verità sotto una corteccia di finti misterj. Ogni loro periodo è un nodo Gordiano, che promette un’Imperio a chi lo scioglie. Confondono le parole più di quello, che già fossero le foglie della Sibilla disordinate dal vento; e lasciano, che i miseri creduli vi cerchino dentro gli Oracoli, accozzandole in sensi, che a gli Autori mai non caddero in pensiero.

Altre volte fanno comparire i loro concetti come le Deità in Teatro, avvolte in un gruppo di nuvole. Mostrano una piccola particella di qualche aggiustato discorso, per fare con essa credito al rimanente, che in una torbida piena di confusi pensieri si perde. Leggere gli scritti di costoro, pare che sia pescare Calamai, accortissimi pesci, che da gli occhi e dalle mani altrui maliziosamente s’involano, intorbidando il chiaro dell’acque con ispargervi una nuvola di certo negro umore di che son pieni. Così la lor penna al pari di questi pesci,

     Naturam juvat ipsa dolis, et conscia sortis,
     Utitur ingenio1.

Oh quante volte non istà nulla sotto, dove altri crede esservi grandi misterj! Già che ordinaria usanza di costoro è coprire, come Timante, col velo, quello, per cui esprimere non hanno nè ingegno nè arte che basti.

Con ciò par loro d’essere novelli Eracliti (cui cognomen Scotinon fecit orationis obscuritas2), se d’essi ancora si dica ciò che degli scritti dell’altro disse Pitagora3: Opus ibi esse Delio natatore. Gareggiano con Apolline Delfico d’autorità e di credito, se, come lui, [p. 123 modifica]neque dicant, neque abscondant, sed indicent solum4.

Ma l’altra oscurità, più infelice che rea, è difetto di natura, non vizio di volontà. E questa in alcuni è effetto di povertà e scarsezza d’ingegno, in cui la virtù formatrice, quasi in un ventre di seno troppo angusto, non può unire senza confondere, non può dar luogo alle parti senza storpiare il tutto. In altri è cagionata da una troppo fervida mente, ne’ cui focosi pensieri, come ne’ repentini incendj, si leva molte volte più fumo che fiamma.

Questi son quegl’ingegni veramente di fuoco, attivi, e spediti di loro intendere, sì che in un solo gitto di mente co’ velocissimi pensieri lampeggiando a guisa di folgori, a mille cose riflettono, mille nuove cognizioni acquistano. Felici, se potessero metter peso alle lor fiamme, e freno al loro fuoco: ma come le fiere più veloci di corso stampano le vestigie più confuse, essi, affatto intesi alle cose che veggono, nulla veggono della maniera d’esprimere ciò che la mente, tal volta con ispecie astrattissime, quasi in un momento intese. E di più, tanto meno abili all’ordinare, quanto più fecondi nel rinvenire, espongono, o favellando o scrivendo, non un parto, ma molti semi; ed essi stessi dipoi raffreddati e quieti (quando il giudicio più vale a discernere) non sono abili alla riforma di quello, per cui è mancato all’ingegno col caldo ancora il lume.

E queste sono, quanto a me pare, le due viziose oscurità, l’una colpa di genio ambizioso, l’altra difetto o di povero o di torbido ingegno. Una terza ve n’è, che chiamano Oscurità, ed è veramente; ma oscurità dell’ingegno di chi non intende, non dell’Autore che non iscriva o parli sì che da uomini di mezzano intendimento non possa agevolmente comprendersi.

Se si discorre con certe prime e universali massime, onde come da veri loro principj altre dipendenti si traggono, fin che ad una particolare materia si cala (che è la più nobile e sublime d’ogni altra forma di saggio discorso), facendo come i Falconi, che con grandi volte e raggiri prendono la salita, onde d’alto si buttano alla [p. 124 modifica]preda: se si traveste la Sapienza con finti si ma acconci ritrovamenti, che, a guisa di vestimenta rassettate attorno, e cuoprano e mostrino ciò che nè celar si vuole nè publicar si dee; costume, che Sinesio5 chiama perantiquum atque Platonicum: se si fa tal volta esente la penna dal disegnar per minuto ogni cosa alla stesa, e alcune se ne mettono in iscorcio, sì che e tutte si veggano e non occupin luogo: se si compone sì come dipingeva Timante, in cujus omnibus operibus, disse Plinio6, intelligitur semper plus quam pingitur; et cum ars summa sit, ingenium tamen ultra artem est: condannano d’oscurità, e dicono con Tertulliano, che per intendere e penetrar tali cose non lucernæ spiculo lumine, sed totius Solis lancea opus est. E non s’avveggono, che non i componimenti hanno bisogno di luce, ma gli occhi loro di collirio; poichè sono come di quella scimunita Arpaste di Seneca7, che divenuta quasi repente cieca, non dubitando se essere come prima veggente, ajebat domum tenebrosam esse.

Ma perchè per rimedio di quella oscurità, ch’è capace d’ammenda, non può darsi avviso più importante della Distinzione e dell’Ordine, che sono padre e madre della Chiarezza; hollo io fatto nelle particelle seguenti: benchè con traboccamento della penna forse troppo abbondante, in riguardo di quel solo che questa materia richiedeva.

Non però fuor di proposito, nè senza utile: essendomi riuscito disporre alcuni avvisi, che dalla scelta dell’argomento sino all’ultima correzione mi son paruti giovevoli a più ordinatamente, più facilmente, e più felicemente comporre.

´

Note

  1. Claud. de Sæpis.
  2. Seneca ep. 12.
  3. Laert. in Pythag.
  4. Heracli. apud Sto. 5.
  5. L. de insomnis.
  6. Lib. 35, c. 10.
  7. Seneca, epist. 50.