Del veltro allegorico di Dante/XXIV.
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XXIV. Udito i casi di messer Corso, l’Alighieri fu rincorato dalla fama che pubblicò, aver Benedetto XI, amorevole padre, spedito il cardinale Niccolò Albertini di Prato a Firenze, per placarla coi bianchi e cessare infine la funesta discordia. Giunse il cardinale da Perugia, ov’era la corte; né poco prospera in principio procedé l’opera della pace. Dodici sindachi dei bianchi, fra i quali Baschiera Tosinghi ed alcuni dei Cerchi, ammessi nella cittá crederono di averne fermato i patti con messer Corso Donati e con Rosso della Tosa e dieci altri sindachi dei neri. Dubbio nome si procacciò messer Corso di stare nel mezzo fra le due parti, ed increbbe ad entrambe. Parve leggiadra cosa tra quei parlamenti di rappresentare innanzi al legato le sembianze dell’inferno in sul ponte della Carraia (maggio 1): di qui vanamente alcuno credè che l’esule avesse ritratto il disegno del suo poema. Infine le cose vennero a tale che ogni speranza di pace si dileguò: indarno venuti, ritornarono i sindachi dagli esuli: e il cardinale, forte fremendo, e scomunicando Firenze, ripartí per Perugia il 5 giugno 1304. Due soli giorni mancavano e sarebbe stato compiuto il mese cinquantesimo dal 7 aprile 1300, cioè dal giorno in cui finse il poeta di essere disceso in inferno. «Cinquanta mesi non saranno scorsi, e tu saprai quali siano i dolori dell’esilio»; cosí dicevagli Farinata nel decimo canto (Inf. X, 79-81), e cosí l’Alighieri, serbando con ammirabile precisione le ragioni dei tempi, faceasi profetare la sventura della cacciata del cardinale.
Poco appresso, fuoco esecrabile arse Firenze, appiccatovi da malvagio uomo; e scrisse taluno che Corso Donati fu visto saettar egli stesso l’incendio alle case dei suoi nemici. Benedetto XI, tocco dall’orrido caso, consentí al cardinale di Prato che si richiedessero messer Corso Donati e Rosso della Tosa e Baldo di Aguglione con gli altri reggitori di Firenze per essere sentenziati dell’avere impedito la pace coi bianchi e con empia fiamma guastato Firenze. Ne andarono a corte per difendersi: ma il cardinale di Prato significò in quel mentre per lettere o per messi agli usciti, essere ormai l’ora di congregarsi e di assaltare Firenze: doversi le forze dei bianchi e dei ghibellini rivolgere alla santissima impresa del punire i mancatori della data fede: i piú animosi dei neri trovarsi lungi dall’arsa cittá e divisa dalle parti ed inerme. I ghibellini ed i bianchi non furono pigri: e, reintegrate le amistá coi romagnuoli, coi bolognesi, coi secchi di Arezzo e coi Pistoiesi, fecero il colmo della lor possa.
La memoria dei disastri mugellani, le nuove speranze di migliore successo e l’aura propizia di Roma ricongiunsero il disdegnoso e solitario Alighieri a coloro, dai quali erasi allontanato; ei si crede che ciò fosse avvenuto nel castello di Gargonza in Val d’Ambra sui confini d’Arezzo. I bianchi scelsero capitano Alessandro di Romena nipote di Aghinolfo dei conti Guidi, e Baschiera Tosinghi un dí confinato a Sarzana dall’Alighieri ed ora esule insieme con esso. Eletti dodici commissari sopra gli affari della guerra, crebbero a dieciotto: e conchiusero in San Godenzo con Ugolino Ubaldini da Feliccione un solenne trattato, che ancor si legge quale fu scritto (giugno). Promisero, pena lire duemila, di ristorar lui e gli altri Ubaldini dei danni che avrebbero potuto patire a cagione della guerra fatta e da farsi nei loro castelli, massime in quello di MonteAccianico: gli averi dei promettitori esser pegno e rispondere per la pubblica utilitá di tal guerra. Mino di Radda, Bertino dei Pazzi, Guglielmo Ricasoli, Branca e Chele Scolari, tre dei Cerchi, otto Ubertini e Dante Alighieri; questi furono i commissari. Dante adunque, nell’adoprare contro Firenze, implorò il soccorso di Ugolino da Feliccione, cioè del fratello di quell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, al quale un giorno il poema dovea fruttar tanta infamia.