Del veltro allegorico di Dante/LIX.
Questo testo è incompleto. |
◄ | LVIII. | LX. | ► |
LIX. Poco appresso la morte di Dante, mancò Matteo Visconti; la più gran mente che avessero i ghibellini (1322). Cinque figli ebbero il retaggio dei suoi stati e del suo valore, ma non tutti del suo senno: fra essi non tardò ad illustrarsi Giovanni, che divenne arcivescovo di Milano. Intanto il generoso Guido Novello aveva fermo il suo desiderio a volere innalzare magnifico monumento che racchiudesse le ceneri del poeta: ma, essendo ito a Bologna per esercitarvi la carica di capitano, restò solo al governo di Ravenna suo fratello Rinaldo. Allora Ostasio, figlio di Bernardino da Polenta, venuto nella cittá in sembianza di amico trafisse crudelmente Rinaldo (luglio 20); ed escluso Guido Novello, occupò la signoria di Ravenna. Costui, che fu il secondo fra gli Ostasi Polentani, sali a grande stato per l’amicizia di Bertrando Cardinal del Poggetto; il quale molto nella sua legazione si valse dell’opera di lui e di Pino della Tosa. Ma bene le armi dei figli di Matteo Visconti travagliavano il legato, cui tosto sinistra fama chiari della battaglia di Muldorfia (settembre 29), ove Ludovico il bavaro superò e fece prigioniero il suo emulo Federigo, non discaro alla corte di Avignone. Can della Scala, fin dal tempo in cui Federigo avea preso la signoria di Trevigi, erasi allontanato dalla parte di lui e fatto passaggio a quella di Ludovico il bavaro. Ed ecco l’imperio pervenuto alle mani di un principe, cui biecamente i guelfi guardavano, e che i ghibellini cominciarono a lodare come uomo di grandi spiriti e capace di compire le imprese vietate dalla morte ad Arrigo di Lucemburgo.
Ma nell’anno seguente (1323) riusci ai guelfi di Genova di liberarsi dall’assedio; ciò che non tolse a Castruccio degli Antelminelli di rendersi ogni di piú molesto ai fiorentini. Guido ’Tarlati, nuovo signore, dominava in Arezzo; e quantunque ghibellino, era fieramente inimico di Ranieri II della Faggiola. Imposto quindi silenzio agli affetti di parte, ne andò il Tarlati cogli aretini e con quei di Borgo San Sepolcro contro Ranieri (maggio): ma questi, non indegno del valore paterno, si difese cosi virilmente che l’altro ebbe danno e vergogna. Per tale irruzione Ranieri si accontò coi guelfi di Romagna contro gl aretini, e con quelli fra i conti Guidi che seguivano le bandiere dei guelfi. L’anno appresso (1324) in Pisa mancò Ranieri della Gherardesca: e nel seguente (1325) il signor di Ravenna Ostasio II fece uccidere Bannino e Guido IV da Polenta: vile misfatto, pel quale non cessò il micidiale di essere grande appo il Cardinal del Poggetto.
Intanto Can della Scala ristorò la sua guerra contro i padovani (1327); ma poiché vide che Bologna davasi al cardinale del Poggetto egli e i primi dei ghibellini per la comune loro salvezza chiamarono Luigi di Baviera in Italia. Invitato costui giunse a Trento, donde recossi a Milano. Quivi tenne gran parlamento, in cui, oltre i Visconti, apparvero gli ambasciadori di Castruccio Castracani e di Pisa: Guido Tarlati di Arezzo e i Buonaccolsi di Mantova e Can della Scala vennero della persona. In quel tempo cominciò a leggersi molto ed a commendarsi dai ghibellini quel trattato che avea scritto Dante della Monarchia, nel quale per veritá troppo smisurate cose facea dirgli l’amor delle parti e della causa imperiale: dover l’universo mondo appartenere all’imperio dei romani: cosi aver comandato Iddio Ottimo Massimo quando sollevò a tanta grandezza quel popolo; per salvarlo, aver anche oprato prodigi e permesso infra gli altri che animosamente gridassero le oche del Campidoglio. Piú lievi motivi di questi bastavano al Cardinal del Poggetto per condannare alcuno di eresia o anche di negromanzia: né solo ei dannò il libro, ma giá ordinava che le ossa dell’autore si ardessero e si sperdessero ai venti. Opportunamente il levarono da tal pensiero Pino della Tosa ed Ostasio II Polentano: al quale, quantunque si lordo del sangue dei suoi congiunti, vuol nondimeno aversi grata memoria per questo suo atto gentile. Uno dei frati predicatori di Rimini, chiamato Guidone Vernano, scrisse nello stesso anno 1327 un libro contro la Monarchia, e il drizzò a Graziolo de Bambagiolis: il quale libro, poiché risponde a ciascuna delle proposizioni dell’Alighieri, giova non poco ad abbattere l’opinione di coloro che credono, altra essere la Monarchia scritta da esso, ed altra quella cui oggi si attribuisce il suo nome.
Il bavaro di Lombardia passò a Pisa: quivi, alla sua presenza, Castruccio ebbe con Guido Tarlati gravissima disputa e piena di contumelie (settembre 6), per le quali oltremodo infiammato il vescovo di Arezzo lasciò il campo imperiale. Non aveva egli oltrepassato la Maremma, quando malattia ferocissima il rapi ai vivi (ottobre 6), e concedè la dominazione di Arezzo al suo fratello Piero Sacconi.
Ranieri II della Faggiola non fu degli ultimi che raggiunsero il bavaro. E pervenuto costui a Roma nell’anno seguente (1328), Ranieri l’accompagnò insieme con Castruccio Castracani, e coi principali ghibellini. Ranieri fu dichiarato senatore di Roma; di questa carica da Carlomagno infino allora i piú gran monarchi erano stati ambiziosi, quantunque ora fosse cessata l’antica possanza di essa. Ma Castruccio, richiamato dagli affari della Toscana, lasciò il bavaro in Roma (agosto 4); il quale in breve fu obbligato anch’egli di abbandonar quella cittá per ritornare a Pisa, e nel viaggio ricevè la nuova che quegli era spirato nel colmo dell’etá e della gloria (settembre 3). Sette giorni dopo la morte di Castruccio, Cane Scaligero fu eletto signor di Padova, stanca ormai di guerra si lunga: Ferreto allora scrisse un poema in lode degli Scaligeri, che ancor si legge non senza utilitá per la storia. Coll’aquisto di Padova sembrò a Giovanni Villani che la profezia di Michele Scoto avesse avuto l’effetto. Infine il bavaro si trasse in Pisa (settembre 21); quivi declinando giá le sue cose, fece varie concessioni ai suoi fedeli e massimamente a Ranieri II senator di Roma: confermando le donazioni fatte ad Uguccione, il di cui castello della Faggiola nuovamente dichiarò essere posto nel distretto e nella diocesi di Monte Feltro (1329 febbraio 14).
Non contento Can della Scala del vedersi padrone di Padova desiderata, ed intollerante di qualunque riposo, di nuovo mosse le armi contro la cittá di Trevigi (luglio 4). E l’ebbe a patti; e, non altrimenti che in Padova, vi fu ricevuto magnitícamente. Ma qui era segnato il termine della sua prosperitá e della vita: improvviso malore il tolse dagli uomini, compiuto appena ch’egli ebbe il suo anno trigesim’ottavo. Principe certamente magnanimo e generoso: pur la fortuna superò in esso le altre sue qualitá, e mettendo in vista le buone seppe celar le meno lodevoli. La gloria delle sue armi abolí la memoria non dirò del dappoco Alboino, ma dell’amabile Bartolommeo; le di cui pacifiche virtú furono si care al popolo veronese. Giovanni Villani, quantunque scrivesse in quegli anni medesimi, non conosce altro successore di Alberto della Scala, se non Cane Grande: tolta di mezzo fino la menzione di Bartolommeo e di Alboino. Lo stesso nome di Grande si credè che gli fosse stato conceduto dalle sue vittorie sui padovani: ciò è falso, né altro gli procacciò nella sua piú tenera infanzia siffatto nome, se non un sogno di sua madre; del quale, oltre la testimonianza di Ferreto lodatore del figlio, fanno irrevocabile prova i monumenti degli Scaligeri. Piú avventuroso Can Grande, per breve ricetto conceduto a Dante Alighieri, fu giudicato colui al quale costantemente avesse il poeta rivolto il pensiero, ponendo in esso principe tutta la speme del ritornare in Firenze. Ma si è veduto quanto poco i fiorentini avessero badato allo Scaligero, e di quali aiuti scarsissimi fosse stato egli soccorritore ad Arrigo VII in Pisa, e ad Uguccione della Faggiola in Monte Catini. Erano quelli nondimeno i giorni pericolosi, nei quali non solo trattavasi di Firenze, si veramente di tutta quanta ella era la causa dei ghibellini, Can Grande fu poscia l’autore dello scisma imperiale, avendo abbracciata la causa non giusta di Federigo scelto da due soli elettori: e quando in Genova rabbiosamente si combattea per la salvezza delle parti, lo Scaligero non sospese le sue guerre municipali, e non fece alcuno sforzo in Liguria per mostrarsi degno del nome datogli di capo dei ghibellini. Né Ferreto (appo il quale ogni fatto di Cane Grande ottiene mirabili elogi) né altro istorico afferma, che Cane avesse coltivato le lettere: di qui raccogliesi che la corte di Verona fu piú amica delle pompe che conoscitrice o premiatrice del merito; quindi le ostentazioni grandissime non bastarono all’Alighieri per lungamente piacersi di quella, e trovarvi lo stesso conforto che in casa dei Malaspina. E finalmente, per terminar di mettere in mostra la fortuna dello Scaligero, giova ricordare come questa converti a prò di esso le lodi, che Dante avea detto di Uguccione della Faggiola.