Del veltro allegorico di Dante/LVIII.

LVIII.

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LVII. LIX.

[p. 113 modifica]LVIII. Cresceva intanto la stima di Guido Novello per Dante Alighieri, cui si crede che avesse quegli affidato una solenne legazione appo i veneti; della quale per veritá non si hanno certissimi documenti. Ma, quando pareva che la contraria fortuna volesse placarsi, finiva nel 14 settembre 1321 una vita che fu travagliata da tante sciagure. Il pubblico lutto, le lagrime dei Polentani e degli altri amici onorarono la funebre pompa: e sulle spalle dei piú illustri uomini di Ravenna fu recato al sepolcro il corpo del poeta divino. Tardi pentita pianse Firenze; Giovanni di Virgilio compose l’elogio sulla tomba di Dante: Ferreto da Vicenza e i migliori poeti d’Italia inviarono i loro versi a Guido Novello. Questi con tenera cura li raccoglieva, e col canto altrui consolava il proprio dolore. I tredici canti, maestoso fine del Paradiso, furono drizzati a Can della Scala dai figli stessi dell’Alighieri: cosi, per attestato di Giovanni Boccaccio, narrava Pietro Giardini, uomo di gravi costumi, che serbò sempre santa riconoscenza e pietosa venerazione per la memoria di Dante.

Gli ultimi due protettori, ai quali l’Alighieri ebbe ricorso, Pagano di Aquileia e Guido Novello, furono guelfi. E fuori dubbio l’amichevole opera di questi signori, massime del secondo, fecero sperare al poeta in sul cadere dei giorni suoi che venisse finalmente il tempo di rientrar senza infamia in Firenze. Con virile animo Dante obbliò le ingiurie fatte alla sua persona, e tacque sempre di Cante Gabrielli. Non riguardò alle parti, ugualmente dannando i guelfi ed i ghibellini: ma, credendo i tristi piú numerosi che i buoni, dilettossi piú di punire i rei che non di premiar le virtú. L’ira gli fece talora [p. 114 modifica] velo all’intendimento; e talora, si come avvenne di Clemente V, mutò il giudizio da lui profferito intorno alla stessa persona. Iracondo ed altero ben ei sapeva quanto sopravanzasse il rimanente degli uomini; però questi si vendicavano: ma egli, vagheggiando la fama, vieppiú s’innalzava sul secolo. Quale il piú codardo fra i vizi abborriva l’adulazione; fu spesso giusto e generoso coi nemici, ma non di rado riusci molesto e grave alla rinomanza degli amici, o di coloro che gli fecero cortesia. Quindi gli si vuole prestar fede piú facile, se di taluno ei faccia l’elogio: per giudicare dirittamente di coloro che ei biasima, miglior guida è la storia. Nei nostri giorni tengono alcuni, che i giudizi di Dante abbiansi a considerare come se provenissero dalla giustizia stessa di Dio; e che il poeta gli avesse pronunziati, scevro affatto da ogni passione. Con questo pensano di esaltar l’Alighieri: lode superstiziosa e piena di pericolo, dalla quale non havvi che un solo passo all’irriverenza. Egli è agevole per l’opposto il conoscere, o che la bile di Dante il piú delle volte gli partorí eloquenza sublime, o che non era possibile ad un uomo afflitto da tante sventure il serbar sempre quel modo, il quale forma la pace o la gloria degl’ingegni mezzani. Tuttavia non per ira contro la patria ei dettò i libri non finiti e piú volte da esso rimaneggiati á&WEloquio volgare, nei quali riprovò i dialetti d’Italia e specialmente il toscano; tranne solo quel di Bologna. Non minori cagioni di sdegno contro Bologna che contro Firenze poteano muovere l’Alighieri; ei dunque gli sembrò così che il favellar di quella fosse piú leggiadro dell’altro: ciò prova quanto siensi le cose cangiate dopo la morte di lui, e come l’autoritá di Dante sia inutile oggi per decidere le quistioni sullo stato attuale della lingua italiana. L’Alighieri fu fervido cristiano: dalla religione vivissima dell’autore il sacro poema ritrasse le maggiori fra le sue tante bellezze. Libero dalle crudeltá e dalle paure di una malvagia coscienza, non discese giammai l’AIighieri dalla difficile altezza ove la sciagura e l’onore lo avevano collocato: raro e forse unico esempio di un ingegno che piú nobilita l’uomo, e di una rigogliosa natura che meglio patisce o fa cose forti.