Del veltro allegorico di Dante/I.
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I. La discordia fra l’imperio ed il sacerdozio che aveva diviso l’Italia in guelfi ed in ghibellini, spento Federigo Augusto nel mezzo del tredicesimo secolo, mutò natura e concepí altri furori. Non piú si combatteva in Italia per alcune particolari dottrine; ma coi vecchi nomi dell’imperio e della Chiesa parteggiava ciascuno per quella che credeva essere la sua privata indipendenza, sotto l’una delle due forme del reggersi a comune ovvero ad ottimati. Se il vicino avea sembiante di guelfo, e l’altro facevasi ghibellino: i signori erano in guerra con le cittá, i cittadini fra loro. Allorché si pattuiva la pace, i signori davansi a quelle in accomandigia: ricominciata la guerra, si le famiglie di essi come gli abitanti delle cittá il piú sovente si partivano in due. La fazione oggi preponderante di un luogo ne andava in esilio dopo alcun tempo, e perdea le sostanze: vincitrice indi a poco bandiva gli emuli a vicenda, ed abbatteva le loro case. I podestá, nobili appo i guelfi, nobilissimi appo i ghibellini, ed eletti tra i forestieri aveano a breve tempo l’amministrazione suprema delle cittá non comprese nel reame di Ruggieri; talora in una sola furono due, il primo dei guelfi, l’altro dei ghibellini: per porre modo alla possanza dei podestá, erasi creato l’officio di capitano del popolo.
Innocenzo IV dei conti Fieschi di Genova sedea nel trono pontificale: uomo di vasti spiriti e di molte lettere. Mentre le dissensioni degli Orsini e dei Colonnesi laceravano Roma, ei governò con fermezza la Chiesa universale non che lo stato matildico della Campagna romana, del patrimonio di san Pietro, e del ducato di Spoleti. Dei molti figli che sopravissero a Federigo II, Corrado fu re dei romani e Manfredi principe di Taranto; i bolognesi ne avevano fatto prigioniero un altro, Enzo re di Sardegna. Manfredi tenne in prima il regno di Puglia e la Sicilia nel nome di Corrado; poscia nel suo, allorché questi mancò: ed escluse dalla normanna successione Corradino di Svevia, figliuol di Corrado. Il valore dei cavalieri, l’ingegno dei poeti e dei piú antichi scrittori della favella italiana ornarono la corte di Manfredi: risplendé questa di propria e fausta luce in Europa: ma non meno che il padre sembrò Manfredi pericoloso e grave ai pontefici. Le belle regioni della Marca di Ancona e della Romagna, contenute giá nelle due Pentapoli e nell’Emilia, vicino a cessare l’imperatore, cessarono dallo zelo che avevale animate per la sua causa. Fano, la Cattolica e Pesaro vennero ai guelfi, non altrimenti che Rimini: questa dal circostante castello di Verrucchio tolse per suo podestá Malatesta capo di essi, e figlio di Malatesta dei Malatesti. Cesena e Bertinoro si ridussero similmente a parte di Chiesa; lo stesso fece la non lontana Polenta, insigne per aver dato il nome ai Polentani. Costoro insieme cogli Onesti, progenie dei re lombardi, primeggiavano in Ravenna tra i guelfi: dopo molte sciagure, vi dominarono. Forlì guidata dagli Ordelaffi restò ai ghibellini, e diè la mano ai prossimi conti di Carpigna, della Faggiola e di Monte Feltro, abitatori ghibellinissimi degli Appennini che dividono la Toscana dalla Romagna. Faenza ed Imola ondeggiavano incerte fra le due italiche sette. Bologna da lunghi anni era guelfa: quasi pegno di odio all’imperio, ella costruiva magnifica prigione per l’infelice re di Sardegna; e con duri comandi premeva Modena ghibellina. I marchesi Estensi di Ferrara, del pari guelfi che Bologna, prosperavano per consigli fedeli di Aldigerio degli Alighieri Fontana, dalla famiglia del quale nominossi un di quella di Dante. Gl’imperiali avevano Reggio: i guelfi Parma e Piacenza. Nondimeno Piacenza si arrese a quelli nell’anno stesso della morte di Federigo II, ed a gran dispetto dei signori di Correggio che godevano in Parma dei primi onori.
Mantova mal sapea sottostare ai deboli conti di Casalodi: cui giá la ghibellina famiglia dei Buonaccolsi apprestavansi ad insidiare. Ezzelino di Onara ovver di Romano, ferocissimo signor di Padova e genero di Federigo II, tolta la cittá di Feltre alla casa di Camino, avea conquistato Vicenza e il tratto migliore della Marca trivigiana, rivolgendo in mente di porre a legge ghibellina tutta l’Italia superiore. In Trevigi suo fratello Alberigo, in Verona il suo confidente Mastino I della Scala giungevano alla sommitá degli affari. La sola Venezia vivea lungi dalla briga italiana: Venezia ricca di commercio e di arti, e che dal Mar Nero al Rosso distendeva la sua felice navigazione. I guelfi della Torre o Torriani salivano poco meno che al principato di Milano: ma fin da quel tempo vi aspiravano gli ambiziosi Visconti. Brescia e le altre cittá di Lombardia, guelfe il piú delle volte, governavansi a popolo; sì come Asti e quelle del Piemonte, alle quali minacciava servitú il possente marchese di Monferrato.
Ma non altrove gli animi erano piú inimici e maggiori divampavano gli odii che nella Liguria e nella Toscana: gli Appennini, a foggia di arco, le chiudono. Genova guelfa e Pisa ghibellina esercitavano i loro antichi sdegni sul mare disputando pertinacemente della Sardegna priva d’Enzo e messa in brani da non pochi dominatori chiamati giudici. Miglior prova nelle crociate contro gl’infedeli aveano vinto in amichevole gara Genova e Pisa, gloria d’Italia: divenute rivali non vergognarono di pugnare al cospetto stesso del musulmano, e tinsero non una volta del loro sangue le sirie acque di Tolemaide. Pur tuttavia la fiamma delle primiere virtú accendeva i loro petti, allorché uscì di vita Federigo II. Gli Spinola, i Fieschi ed i Doria illustravano Genova con alti esempi di cortesia e di coraggio: Pisa ne andava orgogliosa dei Lanfranchi, dei Gualandi e dei signori di Caprona; ugualmente che dei Visconti giudici di Gallura in Sardegna, e dei conti della Gherardesca ond’era capo il conte Ugolino di Donoratico. I marchesi Malaspina di Lunigiana in Val di Magra, nei loro castelli vicin di Sarzana, guerreggiavano quando per Genova e quando per Pisa. Corrado Malaspina il giovine, amico di Federigo II e rammentato dall’Alighieri ( Purg. VIII, 118), fu autore della linea di Mulazzo e padre di Moroello e di Manfredi; Opicino suo nipote fondò la linea di Fosdinovo: in questa i guelfi abbondarono, in quella i ghibellini. Siena e Pistoia erano con Pisa; contro esse, per animo guelfo, Arezzo Lucca e Firenze con le cittá dell’Umbria e della Toscana esteriore; tali Gubbio, Perugia, Borgo San Sepolcro e la tifernate Cittá di Castello. Ma gl’imperiali, che aveano regnato in Toscana sotto Federigo II, continuarono dopo averlo perduto a deprimere gli avversari di Arezzo, di Firenze, di Lucca. Ecco alcuni dei piú illustri nomi della parte imperiale in ciascuna di esse: ad Arezzo i Tarlati di Pietramala, i conti di Montauto, e quelli di Montedoglio: a Lucca gli Antelminelli che produssero Castruccio Castracani; a Firenze gli Uberti, gli Ubertini di Gaville, i Pazzi di Valdarno, i Ricasoli, gli Scolari. Per ampiezza di possedimenti si distinguevano inoltre gli Ubaldini ed i conti Guidi; sangue dei longobardi. L’imperio non ebbe piú fido seguace che Ubaldin della Pila fratello del cardinale Ottaviano Ubaldini; ricordati l’uno ( Purg. XXIV, 29), e l’altro (Inf. X, 120) da Dante. I conti Guidi, non dissimili dai Malaspina e dagli altri, si ascrissero chi all’una e chi all’altra fazione. La buona Gualdrada ( Inf. XVI, 37), figlia del fiorentino Bellincione Berti degli Adimari (Parad. XV, 112, XVI, 99), avea partorito a Guido Guerra VI dei conti Guidi quattro figliuoli, Guido, Tegrino, Aghinolfo e Marcovaldo: la prole dei primi tre furono di genio ghibellino, di guelfo i discendenti del quarto. E qui è forza di ristare alquanto a vedere qual fosse il dominio dei conti e di alquanti signori, che in questo scritto assai frequenti ricorreranno.