Del rinnovamento civile d'Italia/Documenti e schiarimenti/XV
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XV. Discussione della Camera dei deputati di Torino nella tornata dei 23 di febbraio 1849
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XIII
discussione della camera dei deputati di torino
nella tornata dei 23 di febbraio i849
Longoni (legge). Ieri sera alcuni uomini, piú traviati che colpevoli, turbavano nuovamente la quiete pubblica. Il loro contegno e le loro parole mostravano che, ingannati sull’ attuai condizione delle cose nostre, rinunciavano all’onore di esser popolo per farsi cospiratori; e datosi per quest’oggi convegno sulla piazza di San Carlo, indotti anzi alcuni da uomini al cui venerando carattere incomberebbe l’obbligo di predicare la pace e non la discordia, intendono quivi a sottoscrivere una protesta al re, perché si richiami al potere un uomo che s’è reso impossibile, e sciolga il parlamento.
Quest’uomo poi, che ha dichiarato aspettar dal tempo la sua discolpa, soffre che queste dimostrazioni tumultuose si facciano in suo nome, e che in suo nome si spargano fiori ed incensi sopra una mano di faziosi che hanno la stolta speranza di far credere che i traditori siamo noi, e a questi faziosi grida egli stesso «evviva» dalle finestre del suo alloggio, dimenticando in quest’evviva il parlamento ed il re.
Sappia però la nazione che, fermi nelle nostre convinzioni politiche e sociali, e forti di quella confidenza che essa vuole riporre nel nostro coraggio e nella nostra fermezza, sapremo difendere i suoi interessi ed i suoi diritti contro qualunque nemico e contro qualunque armi vogliano essi impiegare, o vili o generose.
Sappiano ancora i nostri nemici che popolo noi non crediamo pochi subornatori della capitale ma tutta la nazione di cui siamo rappresentanti; che il popolo nell’esercizio del suo potere è qui al parlamento e non altrove; e che qualora questo parlamento vedesse che in Torino non è piú libera la sua azione e la sua parola, egli crederebbesi in dovere di trasportare la sua sede ove si potesse liberamente dimostrare essere il nostro governo e la nazione uniti col suo re, non pochi perturbatori, che coll’anarchia e col disordine vorrebbero gettare il paese e l’Italia alla sua estrema rovina.
Io inviterei intanto i ministri, inviterei anche il re, ove il potessi, onde con un loro proclama confermino alla nazione la veritá di questi, che io credo unanimi nostri sentimenti.
Monti. Ho chiesto la parola solo per accennare che io ieri sera mi trovai testimonio mentre l’onorevole nostro collega si fece a dire qualche parola al popolo che l’applaudiva. In queste sue parole io non trovai allusione di sorta che potesse menomamente offendere la rappresentanza nazionale.
Longoni. Io non ho voluto ciò dire.
Monti. Se è cosi, io ritiro le mie parole.
L’onorevole nostro collega ha detto che le nostre instituzioni, le quali certamente comprendono la monarchia e la rappresentanza nazionale, erano assicurate ed erano difese tanto dal popolo quanto dalla guardia nazionale, come pure dal campale esercito: mi pare adunque che in queste sue parole avesse reso omaggio a tutte quante quelle cose delle quali noi ci teniamo grandemente onorati (segni d’approvazione).
Presidente. Il ministro dell’interno ha la parola.
Rattazzi, ministro dell’interno. La posizione in cui ci troviamo noi componenti il ministero attuale rispetto all’illustre persona che ne era poco prima il presidente, ci sará scusa se non entriamo a portare un giudizio sulle espressioni or qui spiegate.
Bensí non posso far a meno che far plauso ai generosi sentimenti che furono espressi dall’onorevole deputato Longoni, in quanto che tendono a rassicurare la nazione, che è degnamente rappresentata da questa Camera; però non posso associarmi ad esso sulle censure espresse sulla popolazione di questa capitale.
Io credo in vece che si debba avere, a ragione, pienissima fiducia nella popolazione di Torino.
Alcuni poterono bensí per qualche istante cercare di trarla in inganno, facendo credere cose contrarie al vero; ma noi teniamo per fermo che, conosciuta la veritá, il popolo di Torino, come pure tutto il popolo subalpino, non potrá a meno che rientrare nell’ordine e conservare quella calma e quella tranquillitá che fu mai sempre da esso conservata.
Noi però sentiamo tutto il bisogno di far conoscere questa veritá, ed è appunto prevenendo le osservazioni fatte che abbiamo creduto opportuna la pubblicazione di un proclama, e dentr’oggi questo proclama sará pubblicato.
Longoni. Domando la parola per un fatto personale. Voleva solo fare osservare al ministro dell’interno che io però non ho parlato di tutta la popolazione di Torino, ma solamente di alcuni perturbatori.
Bargnani. Premesso il rispetto che si deve ad un grand’uomo, ad un uomo onorando e tanto benemerito pel Risorgimento d’ Italia, dirò in riguardo alle dimostrazioni state fatte ieri sera, essendo stato testimonio delle parole ch’egli ha profferite, ch’io posso accertare che esse non consistettero in un elogio sopra la nostra attuale condizione politica. Egli non parlò che di Dio; egli disse che per altro Dio vegliava sopra le sorti d’Italia, che egli aveva fede che queste sorti non avrebbero pericolato, ed infine conchiuse il suo discorso con tre «viva»: questi erano portati al popolo subalpino, alla guardia nazionale di Torino ed all’esercito piemontese. Ora da queste parole si può vedere che mentre ognuno si occupa della questione italiana, che mentre è appunto l’argomento della questione italiana che è stato causa della dissoluzione ministeriale, il presidente del Consiglio dei ministri si è indotto a prestare i suoi voti al popolo subalpino, alla guardia nazionale di Torino ed all’esercito piemontese.
Monti. Se mi permettono, leggerò quanto venne raccolto ieri sera da uno stenografo del discorso del presidente del Consiglio.
Presidente. Il deputato Lanza ha la parola.
Lanza. Non sará mai vero che in questo parlamento non sorgano pari voci per difendere un nostro collega, il quale, non essendo presente, non può da lui stesso fare le proprie difese (segni prolungati di approvazione dalle tribune).
Presidente. Non è lecito al popolo delle tribune di dar segni di approvazione o di disapprovazione: se non desistono, io le farò evacuare.
Lanza. Non è solamente un sentimento di generositá che deve essere comune a noi tutti, ma anche un sentimento d’interesse personale che mi spinge a prendere la parola, perché se oggi tocca ad un individuo, domani toccherá ad un altro di essere fatto scopo di qualche accusa; tanta è la facilitá con cui in questi tempi si trascorre alle imputazioni, quasi sempre, infondate. Io adunque nel lodare le intenzioni, le quali indussero il deputato Longoni a protestare relativamente a quell’ indirizzo che, come corre voce, si fa sottoscrivere per presentare al re, acciò restituisca al potere l’ex-presidente del Consiglio dei ministri, dico che gli sfuggirono alcune espressioni le quali, se avesse ben ponderato, non sarebbero state pronunciate dal suo labbro.
Io non entrerò ad esaminare se sia nel diritto de’ cittadini inviare una petizione al re.
Una voce. È incostituzionale.
Lanza. Non è questa la questione che io voglio esaminare: io la lascio da parte: mi fermerò solamente sopra alcune imputazioni, le quali non debbono colpire quel grand’uomo.
Si dice che egli permise che si faccia quest’indirizzo: io protesto contro quest’allegazione ed affermo che egli è estraneo, affatto indifferente al medesimo; né era in lui l’opporsi a che non avesse luogo. Lo si accusa inoltre di avere in un discorso pronunciato sulla piazza mandati «evviva» al popolo, alla guardia nazionale ed all’esercito, e dimenticato il parlamento ed il re. Rispondo che questo non è vero: io ho inteso in una di queste sere che, fra i diversi «evviva» pronunciati, uno era appunto diretto al parlamento subalpino e l’altro al re. Del resto, suppongasi pure che non abbia pronunciato questi «evviva»: e come, o signori, si potrebbe da questa reticenza indurre che abbia commesso un’illegalitá?
Ha forse mai Vincenzo Gioberti pronunciate parole che provocassero al disordine, alla rivolta? Direbbe una calunnia chi ciò asserisse. Se in tutte le sue brevi allocuzioni al popolo non mandò sempre «evviva» al parlamento, può dipendere da che il filo delle sue idee non lo conduceva a ciò. Ma volerlo accusare o censurare per questo non è ragionevole né delicato. Io mi riassumo per conseguenza nel pregare la Camera di non voler maggiormente fermarsi sopra questo malaugurato avvenimento ed irritare gli animi, insistendo sopra una sventura pubblica che tutti compiangiamo. Cerchiamo in vece di stare uniti e di occuparci unicamente degl’interessi della nazione e procuriamo di coprire coll’oblio il passato.
Varie voci. La chiusura!
Presidente. Essendo proposta la chiusura, non posso fare a meno di metterla ai voti: chi intende...
Montezemolo. Domando la parola contro la chiusura.
Presidente. Ha la parola contro la chiusura.
Montezemolo. Signori, poche voci si son fatte sentire in questa Camera sull’argomento che ora è in discorso; ma queste voci hanno portato la commozione ed il perturbamento negli animi nostri. Per un fatto grave come quello di cui si tratta, cioè un’imputazione contro l’illustre deputato che avant’ieri era presidente del consiglio, una chiusura ed un’ordine del giorno subito ed istantaneo non è cosa da ammettersi. Bisogna che la coscienza di ciascuno di noi sia fondata sopra ragioni piú ampiamente controverse che non quelle addotte per conchiudere, e le poche parole contradittoriamente pronunciate non bastano.
Signori, vi fu un nostro collega che fu ed è ancora una potenza in Italia, che fu l’Ercole che sollevò e collocò la prima pietra dell’edifizio italiano. Ora avvenne che quest’uomo, chiamato al potere, dissentisse in una questione di rilievo dai suoi colleghi, e quindi fosse indotto a ritirarsi dal ministero.
Io premetto, o signori, che, relativamente alla questione che fu occasione di questo dissenso, l’opinione mia si discosta da quella dell’uomo illustre che si ritira dal potere; che io, ultimo deputato ed oscuro cittadino, dissento dal celebre scrittore, dall’egregio filosofo Gioberti. Ma ciò premesso, io, signori, vi confesso che non posso, senza sentito dolore e senza richiamarmi energicamente, udire parola attentatrice all’onore e alla illibatezza ed alla gloria di questo nostro illustre collega: io credo che nessuno di noi può consentirvi.
Signori, la maggioranza di questa Camera può dissentire dall’opinione di Gioberti sopra un punto particolare della questione politica, e mostrò di dissentire; ma la maggioranza di questa Camera, anzi la Camera intiera conosce pure ed apprezza quanto egli ha operato per la patria, e non può disdirgli la debita riconoscenza. Supponiamo anche che l’errore celasse per un momento la splendida intelligenza dell’ex-presidente: possiamo noi, o signori, per questo rinnegare la gloria che egli riflette su noi e sul paese, e gettare una nota di riprovazione sopra un uomo cosi grande e cosi benemerito della patria, sopra una vita spesa per la libertá e la indipendenza italiana?
Il parlamento si pronunciò sulla questione che causò l’allontanamento di Gioberti dalla deliberazione degli affari. Io non cercherò fino a qual punto il parlamento possa intervenire in tal questione, giacché i rapporti internazionali e la forma dei medesimi è cosa che, secondo il diritto costituzionale, è nell’arbitrio e nella responsabilitá del potere esecutivo. Ma ad ogni modo, accettando il fatto, quello che io non posso assolutamente gli è il lasciar passare inavvertite o incontestate parole che possono offendere il carattere di un illustre nostro collega o l’onore del suo nome (bravo! benissimo!) .
Reta propone il seguente ordine del giorno: «La Camera, confidando che la popolazione di Torino vorrá reprimere col suo fermo ed energico contegno i perturbatori della quiete pubblica, passa all’ordine del giorno».
Il presidente sta per metterlo ai voti, quando il deputato Demarchi domanda l’ordine del giorno puro e semplice.
Ravina trova improprio l’ordine del giorno motivato proposto dal Reta.
Mentre che il ministro di grazia e giustizia sta scrivendone un altro pur motivato, il ministro dell’instruzione pubblica Cadorna dichiara che, non potendo dubitare che la popolazione di Torino possa venir meno a se medesima nelle presenti circostanze, non ha difficoltá che sia adottato in proposito un ordine del giorno puro e semplice.
Posto ai voti, è approvato quasi ad unanimitá, a riserva di alcuni deputati, fra i quali i signori Reta e Ranco.