Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro primo/Capitolo IV
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Capitolo Quarto
Qual fine si proponga il principe, quale le lettere.
Se comunanza può esservi, amistá, concordia e legami fra gli uomini, la paritá del fine che si propongono e la reciprocitá d’interesse li generano sole e mantengono.
Ma che pari siano il fine e l’interesse del principe e quelli del vero letterato, chi asserirlo ardirebbe? Vuole, e dée volere il principe che siano ciechi, ignoranti, avviliti, ingannati ed oppressi i suoi sudditi; perché, se altro essi fossero, immediatamente cesserebbe egli di esistere. Vuole il letterato, o dée volere, che i suoi scritti arrechino al piú degli uomini luce, veritá e diletto. Direttamente dunque opposte sono le loro mire. Si propone il principe per fine dell’arte sua la illimitata ed eterna potenza; mista di gloria, se gli vien fatto: se no, a ogni modo, potenza ed impero. Il letterato null’altro si propone (né proporre si dée) se non se schiettissima gloria: ed ogni altra cagione che il muova lo toglie tosto dalla classe dei veri letterati. Alla pura e intera gloria di scrittore necessariamente va annesso l’utile dei piú; perché senza esso non basta il solo diletto a procacciar vera gloria. Ora, l’utile dei piú manifesta cosa è che egli non può essere mai l’utile del principe, il quale d’altro non sussiste, se non della cecitá e danno dei piú. Sono dunque costoro, per necessaria conseguenza dell’arte loro, amici degli uomini gli uni, nemicissimi gli altri: in nulla quindi non possono, né debbono, tra lor concordare.
Ma qual ragione pure li riunisce sí spesso? desiderio di gloria non meritata nei principi; desiderio di falsi onori e di ricchezze non lecite nei letterati. Quelli, col mendicare i non dovuti encomi, manifestano a tutti che sono appieno convinti in se stessi di non gli aver meritati: questi, col procacciarsi le ricchezze non necessarie o gli infamanti onori, si manifestano indegni dell’alto incarico di giovare all’universale col loro ingegno.