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poi utili alla piú lontana posteritá, e cara e venerata la lor memoria. Fra i letterati di principe saranno dunque da annoverarsi
Orazio, Virgilio, Ovidio, Tibullo, Ariosto, Tasso, Racine, e molti altri moderni, che sempre temono che il lettore troppo senta quando vien loro fatto di toccare altre passioni che l’amore. Ma, que’ tòni di veritá, i quali, perché paiono forse meno eleganti, sono assai meno letti, e che essendo piú maschi, piú veritieri, incalzanti e feroci, sono assai meno sentiti dall’universale, perché appunto fan troppo sentire; quelli non sono mai di ragione di principe. Tali in alcuna o in tutte le parti sono, per esempio: Demostene, Tucidide, Eschilo, Sofocle, Euripide,
Cicerone, Lucrezio, Sallustio, Tacito, Giovenale, Dante,
Machiavelli, Bayle, Montesquieu, Milton, Locke, Robertson,
Hume, e tanti altri scrittori del vero che, se tutti non nacquero liberi, indipendenti vissero almeno e non protetti da nessuno.
Capitolo Quarto
Qual fine si proponga il principe, quale le lettere.
Se comunanza può esservi, amistá, concordia e legami fra gli uomini, la paritá del fine che si propongono e la reciprocitá d’interesse li generano sole e mantengono.
Ma che pari siano il fine e l’interesse del principe e quelli del vero letterato, chi asserirlo ardirebbe? Vuole, e dée volere il principe che siano ciechi, ignoranti, avviliti, ingannati ed oppressi i suoi sudditi; perché, se altro essi fossero, immediatamente cesserebbe egli di esistere. Vuole il letterato, o dée volere, che i suoi scritti arrechino al piú degli uomini luce, veritá e diletto. Direttamente dunque opposte sono le loro mire. Si propone il principe per fine dell’arte sua la illimitata ed eterna potenza; mista di gloria, se gli vien fatto: se no, a ogni modo, potenza ed impero. Il letterato null’altro si propone (né proporre si dée) se non se schiettissima gloria: ed ogni altra cagione che il muova lo toglie tosto dalla classe dei veri