Dei delitti e delle pene (1821)/XL
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§ XL.
Del Fisco.
Fu già un tempo nel quale quasi tutte le pene erano pecuniarie. I delitti degli uomini erano il patrimonio del principe: gli attentati contro la pubblica sicurezza erano un oggetto di lucro: chi era destinato a difenderla, aveva interesse di vederla offesa. L’oggetto delle pene era dunque una lite tra il fisco (l’esattore di queste pene) ed il reo, un affare civile, contenzioso, privato piuttosto che pubblico, che dava al fisco altri diritti che quelli somministrati dalla pubblica difesa, ed al reo altri torti che quelli in cui era caduto per la necessità dell’esempio. Il giudice era dunque un avvocato del fisco piuttosto che un indifferente ricercatore del vero; un agente dell’erario fiscale, anzichè il protettore ed il ministro delle leggi. Ma siccome in questo sistema il confessarsi delinquente, era un confessarsi debitore verso il fisco, il che era lo scopo delle procedure criminali d’allora; così la confessione del delitto, e confessione combinata in maniera che favorisse, e non facesse torto alle ragioni fiscali, divenne, ed è tutt’ora (gli effetti continuando sempre moltissimo dopo le cagioni) il centro, intorno a cui si aggirano tutti gli ordigni criminali. Senz’essa un reo convinto da prove indubitate avrà una pena minore della stabilita; senz’essa non soffrirà la tortura sopra altri delitti della medesima specie che possa aver commessi. Con questa il giudice s’impadronisce del corpo di un reo, e lo strazia con metodiche formalità, per cavarne, come da un fondo acquistato, tutto il profitto che può. Provata l’esistenza del delitto, la confessione fa una prova convincente; e per rendere questa prova meno sospetta, a forza si esige cogli spasimi e colla disperazione del dolore, nel medesimo tempo che una confessione stragiudiciale, tranquilla, indifferente, senza i prepotenti timori di un tormentoso giudizio, non basta alla condanna. Si escludono le ricerche e le prove che rischiarano il fatto, ma che indeboliscono le ragioni del fisco; non è in favore della miseria e della debolezza che si risparmiano qualche volta i tormenti ai rei, ma in favore delle ragioni che potrebbe perdere questo ente, ora immaginario ed inconcepibile. Il giudice diviene nemico del reo, di un uomo incatenato, dato in preda allo squallore, ai tormenti, all’avvenire il più terribile; non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quella infallibilità che l’uomo si arroga in tutte le cose. Gli indizi alla cattura sono in potere del giudice; perchè uno si provi innocente deve esser prima dichiarato reo: ciò chiamasi fare un processo offensivo: e tali sono quasi in ogni luogo della illuminata Europa, nel decimo ottavo secolo, le procedure criminali. Il vero processo, l’informativo, cioè la ricerca indifferente del fatto, quello che la ragione comanda, che le leggi militari adoperano, usato dallo stesso asiatico dispotismo nei casi tranquilli ed indifferenti, è pochissimo in uso nei tribunali europei. Qual complicato laberinto di strani assurdi, incredibili senza dubbio alla più felice posterità! I soli filosofi di quel tempo leggeranno nella natura dell’uomo la possibile verificazione di un tale sistema.