Dalle novelle di Canterbury/Novella del giureconsulto/Prologo
Questo testo è completo. |
Traduzione dall'inglese di Cino Chiarini (1897)
◄ | Novella del giureconsulto | Novella del giureconsulto - Novella | ► |
“Signori, ho l’onore di avvertire tutta questa brigata, che la quarta parte del giorno se n’è bell’e ita. Quindi, per amore di Dio e di San Giovanni, guardate, se vi riesce, di non perdere più tempo. Signori miei, il tempo non ci aspetta mica: giorno e notte si consuma, e se la svigna o mentre noi tranquillamente dormiamo, o quando, desti, non sappiamo approfittarne: egli fa come il fiume che scende dal monte alla pianura senza tornar mai indietro. Non per nulla Seneca, e con lui molti altri filosofi, rimpiange piú la perdita del tempo che quella dell’oro dello scrigno; poiché le ricchezze si possono in qualche modo ricuperare, ma la perdita del tempo è irreparabile. Il tempo non ritorna davvero indietro, come non ritorna a Malkins1 la verginità, una volta che la sua lascivia glie l’ha fatta perdere. Non stiamo, dunque, a marcire cosí nell’ozio.
Signor giureconsulto, che Dio vi benedica, raccontateci voi, ora, una novella, secondo che abbiamo stabilito. Anche voi avete acconsentito a sottomettervi al mio giudizio: fate dunque il vostro dovere, e mantenete la vostra promessa„.
“Oste, egli rispose, de par dieu jeo assente, giacché non ho intenzione di mancare alla mia parola. Ogni promessa è debito, e vi ripeto che io farò volentierissimo l’obbligo mio. Gli stessi libri nostri dicono che la legge è uguale per tutti: ma tuttavia io non posso dirvi una novella discreta, che non sia stata già raccontata da Chaucer (sebbene l’arte del verso e della rima non sia il suo forte), in quell’antico idioma inglese nel quale, come tutti sanno, egli ebbe a scriverle. Poichè se non l’avrà raccontata in un libro, amico mio, sta pur sicuro che l’avrà raccontata in un altro. Sono piú gli amanti di cui ha scritto la storia lui, o in un libro o nell’altro, che quelli semplicemente nominati da Ovidio nelle sue antichissime epistole. Che cosa vi debbo dunque raccontare, se le novelle che io so, sono già state raccontate da Chaucer! Nella sua gioventú egli scrisse la novella di Ceyx e Alcyon, e quindi ha fatto la storia di tutte le donne e gli amanti piú illustri. Chi avesse voglia di leggere il suo libro intitolato: La sacra leggenda di Cupido, vi troverà descritte le larghe e profonde ferite di Lucrezia e di Tisbe babilonese, vi troverà la storia di Didone che si trafigge con la spada per causa del traditore Enea, e di Fillide cambiata in albero pel suo Demofoonte. Vi troverà il pianto di Deianira, di Ermione, di Arianna e di Isifile, il nudo scoglio nel lontano mare, dove Leandro affogò per la sua bella Ero, le lacrime di Elena, il dolore di Briseide e di Laodamia, e la tua crudeltà, o regina Medea, che appendesti pel collo i figlioletti per vendicarti di Giasone, l’amante spergiuro. In quello stesso libro egli loda altamente la vostra fedeltà, o Ipermestra, Penelope, Alceste.
Ma naturalmente non fa neppure parola del turpe esempio di Canace che amò, incestuosamente, il proprio fratello, né (Dio ci scampi da certe novelle) ricorda la storia, raccontata da Apollonio Tirio, di quell’infame re Antioco che deflorò la propria figlia, gettandola (orribile a leggersi) a forza per terra. Di tali turpi cose egli non volle mai scriverne, ed io, se me lo permettete, mi dispenso dal raccontarvele. Ma come farò, dunque, a dire anch’io, oggi, la mia novella? Certamente io mi guardo bene dal voler gareggiare con le Muse altrimenti dette Pieridi (voi capite, senza dubbio, che io alludo alle Metamorfosi); del resto poco m’importa di Ovidio: faccia pure quanti versi vuole, io parlerò in prosa„. E detto questo, il giureconsulto, serio serio, incominciò la sua novella, e disse quello che segue.