Dal vero (Serao)/Mosaico
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MOSAICO.
Noi entriamo nella vita, pallidi e febbricitanti pellegrini, con l’ardente desiderio delle grandi azioni, delle grandi passioni, dei grandi orizzonti; vogliamo, spiriti insaziati, toccare il culmine d’ogni cosa, dovessimo pure da quella vertiginosa altezza scoprire abissi paurosi; il nostro pensiero impone alla nostra volontà ardimenti inauditi: abbiamo in noi una fretta affannosa, che ci fa sentire sempre l’imperioso bisogno del fatto compiuto. E trabalzati, scossi, sospinti, urtati nella lotta perenne fra l’idea e la parola, scomponendo vecchi ideali per formarne di nuovi, calpestando quello che fu oggi la nostra gioia per crearne il dolore dell’indomani, consumati da credenze incomplete e da dubbi che non osano affermarsi, noi siamo intimamente infelici. Perchè noi trascuriamo nella nostra via tutto quello che è piccolo, che è soave, che è benigno; lasciamo da banda un corteo di impressioni leggiadre; disdegniamo le idee troppo vaghe o troppo minute; ci sentiamo pieni di disprezzo per i ricordi infantili, per le ore di tenerezza che assalgono lo spirito stanco dalla soverchia tensione, per il diletto di una bella apparenza; noi perdiamo, noncuranti, una parte di vita, senza volontà di conoscerla, senza volontà di apprezzarla. O fugaci e dolci impressioni, pensieri indistinti e sfumati, sorrisi lievi della natura, pause dell’anima, apparizioni momentanee, angoli freschi e riposati dove si cheta la fantasia; sentirvi, godervi è forse la felicità!
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È una campagna di Caserta; sorge il sole; una striscia rossa è all’orizzonte, si diffonde in un pallido giallo e finisce in un bianco smorto; i monti lontani sono azzurrini, quelli più vicini di un violetto stinto. Sulla via maestra, bianca, polverosa, dove ad ogni quindici passi sorgono mucchi di brecciame bianco, cammina un lavoratore, scalzo, con le grosse scarpe sospese alla cintura, la zappa sulla spalla e la giacchetta infilata ad un sol braccio; un muricciuolo impedisce la vista dei campi lontani, dove il grano attende il venticello di luglio — solo un pino sorge come un uomo tronfio e superbo di sè. Par di sentire il fruscìo dei faggi che cominciano ad agitarsi, par di sentire il concerto trillato degli uccelli, pare di veder schizzare le vivaci lucertoline, tanto nervose e simpatiche. Dico, pare; perchè tutto questo è in un acquerello, un gentile acquerello, che mette una nota soave in una orribile camera di città, dove non si vede cielo, dove giungono grida feroci di venditori, fragore di carrozze e fumo di pesce fritto; un acquerello, con un’alba tranquilla ed immobile.
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Il palazzo di fronte, di un bel giallo-croma, si cosparge di larghe macchie brune sotto la pioggia, poi si cambia in color legno; le lunghe stille d’acqua, ferite di traverso da un raggio di sole, diventano lucide e sembrano le pagliuche inargentate dell’abito di un allegro saltimbanco. Un fanciullo lacero, in maniche di camicia, con un fazzolettino a scacchi sulla testa, corre sotto la pioggia, cantando con voce acutissima un ritornello popolare, interrompendosi ogni tanto per gittare con un grido un’ardita disfida alla tempesta: il bambino, figlio di nobili signori, è presso il balcone, pallido, ammalato, vestito di pelliccie, solo; e stanco si abbandona a pensare sul ricco libro di immagini che non lo divertono più.
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Sul caminetto, nell’anfora di terso cristallo, s’illanguidiscono le rose. Le bianche dal seno lievemente roseo somigliano ad anime candide il cui cuore si apre all’amicizia; quelle color di rosa, dai petali incappucciati, esalano il profumo irresistibile dei cuori segretamente innamorati; quelle thè rassomigliano a damine schifiltose ed aristocratiche; le rosse, quasi sanguigne, hanno l’aspetto tragico; e la nebbia leggiera della brughiera che si eleva su di esse, tempera appena il vigore dei colori forti e sfuma le gradazioni. Ma le rose languiscono, le cime dei petali sono bruciate, tutte hanno in qualche parte un punto nero, una traccia bruna, un’ombra; gli steli sono curvati. Pure il profumo raddoppia, diventa più acuto; lo specchio del caminetto riflette il gruppo delle rose, quello di fronte lo torna a riflettere e lontano, lontano, quasi all’infinito, si ripete senza numero la passione di quei fiori morenti.
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Ride e canta sotto il sole di settembre il piccolo porto; i facchini, figure brune ed atletiche, trasportano dalla piatta barcaccia a terra, il carico di carbone; un pescatore dorme raggricchiato nella sua nassa inoperosa; alcuni fanciulli seminudi guazzano presso la riva, poi si rotolano nell’arena calda e fine per asciugarsi e spiccano da capo un grande salto nel mare. Sulla strada, in alto, quasi a picco si ferma il vapore; visi affaticati respirano alla portiera il venticello di ponente; la venditrice di acqua e di aranci va su e giù lungo i binarii: un velo azzurro di viaggiatrice svolazza; il povero cieco appoggiato al braccio di suo figlio augura il buon viaggio a tutti; una bambina, dal vetro sollevato, gitta ai fanciulli che si bagnano, un grappolo di uva nera. Riparte il treno; sotto il sole di settembre ride e canta il piccolo porto.
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Sulla tovaglia damascata di Fiandra, la colazione attende; ma dallo spiraglio della porta non se ne vede che un angolo. Ma nell’aria si aspira un lieve odore di limone fresco; una gamba di pollo arrosto, con la delicata pelle del corpo crogiolata, fa supporre il resto; un’ostrica bruna, rugosa e scabrosa di fuori, bianco-lattea, morbida e lucida di dentro, respira lentamente; in tre dita di Xeres biondo, trasparente, limpidissimo, sono immersi i pezzetti gialli e succosi di una pesca duracina. O ricchi vigneti della Spagna, ardenti come la terra e come lo sguardo delle donne, o freschi ed ombrosi giardini d’Italia, o immenso e benefico Oceano, o gioconda e magnifica Natura, salute!
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Il salotto rotondo, piccolo e tutto foderato di seta rosa pallida, imbottita e fermata da bottoncini come l’interno di una bombonierina di cristallo; sulle pareti morbide, piccoli specchi ovali con la cornice semplice di argento, lucido e terso, come l’acciaio; grandi giardiniere di argento, lavorato con un cesello così artistico da ricordare la mano di Benvenuto Cellini, sopportano gardenie, camelie bianche, rose bianche, garofani bianchi, mughetti, fiori di neve. Tutto d’intorno ha dei riflessi rosei ed argentei, il bianco vi sembra latteo, la linea vi si annulla e diventa una dolce curva; la vita vi deve essere buona. Ed il zuccherino di questa scatola di confetti deve essere una donnina graziosa, rotondetta, una gattina piena di vezzi, una personcina svelta sui tacchetti alti, palliduccia, con i capelli castani, gli occhi castani, le braccia tornite sotto i merletti, le mani piccole e piene di fossetti, una marchesina Pompadour senza cipria e senza nei.
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Le quattro grandi finestre della sala terrena proiettano sulla larga ed oscura via quattro rettangoli di luce: è sera, i forestieri pranzano senza soggezione della gente che li può guardare, le signore sono vestite con eleganza, i camerieri in marsina circolano silenziosi e prodigando inchini. Nella via un suonatore di ghitarra accompagna la voce aspra e stonata del suo collega; un omnibus con un fanale rosso ed un altro verde che sembrano i due occhi strani di una bestia nera, passa lentamente; un giovanotto azzimato, arricciato, col fiore all’occhiello e col cervello in tumulto, corre ad un convegno; un poeta appoggiato al muricciuolo guarda le onde brune e fosforescenti, prestando orecchio al misterioso ritmo del più giovane poeta: il mare.
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Cade il giorno in Pompei; ma ad onta della sua solitudine, delle sue rovine, della sua morte, la città non è triste. La giovane coppia passeggia ancora, ma la signora lascia trascinare sulle pietre di lava il suo lungo abito, la persona stanca si lascia un po’ portare dal braccio del giovanotto; egli si china ogni tanto a parlarle, sotto voce, sorridendo, guardandola negli occhi — perchè si amano. La guida spiega con voce monotona le antichità; ma dalla persona gentile della donna si stacca un sottile odore di violetta, i cappelli biondi si disfanno nella grossa treccia, l’ombrellino sfiora le pareti dipinte ad affresco, una mano inguantata, lunga, leggiera si è poggiata sul simulacro d’Iside, e lui preferisce quella manina a mille volanti danzatrici greche. Partono; cade il giorno — e Pompei, la città delle belle donne, dei profumi, dei giocondi amori, si fa triste.